Antonio Tedesco – Per Benito Mussolini la «Questione Meridionale era un problema inesistente, inventato dai vecchi governanti». Per i partiti dell’Italia repubblicana era «una priorità per il Paese» ma poi si divisero in agraristi e industrialisti, per diventare poi tutti assistenzialisti.
I cronici problemi del divario nord-sud del Paese continuano a rimanere insoluti e all’orizzonte non sembrano esserci grandi ricette.
Nel frattempo, continuano a lasciare ogni anno le regioni meridionali migliaia di cittadini e negli ultimi anni tanti giovani, altamente qualificati e scolarizzati. Questo rappresenta il fenomeno più significativo della difficoltà in cui versano vaste aree del nostro Paese. Lo Svimez nell’ultimo rapporto evidenzia il ritardo infrastrutturale del Sud, mentre qualche sociologo cerca di analizzare il fenomeno ma senza essere troppo ascoltato. Più volte la UIL con il suo segretario Bombardieri ha lanciato un grido di allarme per il drammatico fenomeno dell’emigrazione giovanile, per il precariato e per l’assenza di una visione di lungo periodo per lo sviluppo economico delle aree depresse del Paese. Il PNRR rappresenta una grande opportunità per ridurre le disuguaglianze territoriali, e su questo siamo tutti d’accordo, ma potrebbe non essere sufficiente ad innescare lo sviluppo del Mezzogiorno.
Il fenomeno dei cervelli in fuga
Partiamo da una considerazione di carattere sociologico, prendendo in esame il fenomeno dei cervelli in fuga. I giovani che lasciano le aree meno avanzate del nostro Paese, contrariamente a quanto si pensa, sono tendenzialmente molto attaccati alle proprie radici, al luogo dell’infanzia dove vivono i parenti e dove trascorrono piacevolmente le vacanze ma lo ritengono un contesto non ideale dove affermarsi professionalmente, costruire una famiglia e fare dei figli (su questo argomento c’è una bella ricerca di Francesco Maria Pezzulli).
È evidente che il legame affettivo con la propria terra di origine non basta. E forse neanche allettanti proposte lavorative sembrano in grado di invertire la tendenza e contenere la “fuga” o favorire un rientro. Appare complicato far dialogare giovani formati ed avviati professionalmente in contesti avanzati del Paese o all’estero con un tessuto socio-economico e politico che per certi versi è fermo a logiche arcaiche, plasmate su visioni familistiche e clientelari. Pertanto, il fenomeno non sembra avere origine solo dall’assenza di opportunità lavorative ma soprattutto dallo scarto esistente tra la soggettività dei “cervelli in fuga” e le arretrate reti sociali e professionali nei quali sono coinvolti nei contesti di provenienza.
Il processo di cambiamento del mezzogiorno è un processo lungo e complesso ma che prima o poi dovrà partire. Da dove? Dalla base, e quindi dalla scuola.
Pnrr e scuola: quali prospettive? Una proposta per il cambiamento
Apprendiamo che ci saranno notevoli risorse del PNRR per la costruzione di infrastrutture scolastiche nuove, per contrastare la dispersione scolastica e per la transizione digitale ma il problema non è solo legato alle risorse economiche. Il tema centrale, a mio avviso, dovrà essere quello di mettere tutto il sistema scolastico (senza distinzione e senza competizione) al centro dello sviluppo del Mezzogiorno.
La suola dovrà diventare il motore dello sviluppo socio-economico, “l’istituzione civica di ogni città” (o di ogni quartiere), il luogo della connessione tra i vari protagonisti delle comunità: centri produttivi, organizzazioni civiche e sindacali, poli culturali e museali, associazioni sportive, etc.
Un’istituzione capace di produrre non solo i nuovi cittadini, sapere e cultura ma soprattutto “coscienza di luogo” e che sia il motore per stimolare la crescita di reti e del capitale sociale. Il nesso tra lo sviluppo economico e l’esistenza di un sentiment collettivo all’interno di una comunità è stato studiato in modo molto efficace e riesce a spiegare la povertà economica di alcuni territori. Il problema di alcune aree del Mezzogiorno appare ancora oggi strettamente connesso alla debole capacità di cooperazione e alla scarsa concentrazione di capitale sociale come risorsa fondata sull’esistenza di un corpus di interconnessioni positive e attive fra persone. Fiducia, confidenza, comprensione reciproca, condivisione di valori e di atteggiamenti capaci di cementare i membri di una rete o di una comunità, rendendo possibili le azioni cooperative (su questo si veda lo studio di Putnam alla fine degli anni ’90 che per certi versi è ancora efficace).
Inoltre, per quanto riguarda la qualità e l’efficienza della politica locale – altro grande problema del Mezzogiorno – è provato come vi sia una correlazione positiva tra la partecipazione sociale e l’efficienza delle istituzioni amministrative. Il tessuto democratico e di governo è tanto più sviluppato quanto più si confronta con una attiva comunità civica strutturata su relazioni fiduciarie, norme di reciprocità e reti di impegno civico diffuse. Come sostenuto anche dal sociologo Carboni, il capitale sociale è l’elemento capace di influenzare positivamente l’efficienza istituzionale e il suo rendimento in termini di efficacia nel processo di coordinamento delle risorse economiche e sociali. La coesione sociale di una comunità ha rappresentato, in passato, un vettore essenziale per il decollo dello sviluppo economico (i distretti industriali ad esempio) e ancora oggi il capitale sociale di un localismo è considerato un fattore produttivo dell’economia locale anche in un contesto globalizzato.
Pertanto per frenare la nuova mobilità dei singoli nelle regioni meridionali, bisognerà scardinare l’immobilità della società e della politica e aprire con la scuola nuovi spazi di inclusione civica e democratica per creare delle reti solidali, per migliorare la qualità della vita e innescare dal basso virtuosi processi di crescita sociale ed economica. Pertanto, la scuola dovrà essere messa al centro per costruire un nuovo modello di sviluppo dal basso, basato su interrelazione e coesione territoriale.
N°48 del 08/07/2022
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