CHIAROMONTE, O DEL PENSIERO DELL’ESISTERE

-di PIERLUIGI PIETRICOLA

 

È sempre difficile parlare di autori e anniversari, soprattutto quando nel corso di un anno tanti se ne sommano. Ovunque non si fa che gran dire del centenario di Pier Paolo Pasolini, con tutte le ragioni. In questi giorni si celebrano i dieci anni dalla scomparsa di Antonio Tabucchi. E che dire dei cinquant’anni della morte di Nicola Chiaromonte, del quale recentemente è stato pubblicato un bellissimo volume ne I Meridiani, Lo spettatore critico. Politica, filosofia, letteratura curato da Raffaele Manica? È di quest’ultimo che vorrei parlare. Innanzitutto per una certa affinità – di gusti, non in termini di eguaglianza intellettuale – che mi lega, da sempre, al pensiero di Chiaromonte. In secondo luogo, per la grande lucidità, il grande rigore, l’immensa cultura espressa senza alcun cipiglio o presunzione da parte di questo grandissimo pensatore. Pensatore che fu, elemento non da poco né secondario, eccellente critico teatrale. Le sue recensioni drammatiche hanno insegnato, a lettori e specialisti di settore, come guardare uno spettacolo e, soprattutto, a cosa porre attenzione.

Ma un discorso su Chiaromonte critico richiederebbe più spazio e più tempo. E non è un articolo di giornale la sede deputata a un tale compito. Varrà, dunque, la pena di rievocare uno dei tanti concetti per i quali, a mio avviso, questo immenso “intelligente” – come Savinio e Sciascia amavano definire coloro che svolgono un’attività intellettuale – oggi va letto, riletto, meditato e ripensato.

È un pensiero potente, che affronta il tema dell’esistenza, ben diverso da quello del vivere. Poiché si esiste nel momento in cui ci si proietta fuori di sé, dai limiti che corpo ed ego impongono alla nostra persona chiedendoci semplicemente di vivere, così limitandoci in una bolla che ottunde e offusca percezioni ed orizzonti ben più grandi. Pensiero che fu raccolto in un testo intitolato Che cosa rimane. Taccuini 1955-1971. Eccolo: “Quando giunge l’ora in cui la morte comincia a guardarci negli occhi con una certa continuità, e quindi noi lei, se non vogliamo distoglier lo sguardo e far finta che tutto è come prima e non c’è niente da cambiare, la domanda che per prima ci si articola nella mente è: «Che cosa si è avuto dalla vita? Che cosa si è saputo avere?» Ma questa domanda in realtà è la maschera di un’altra più grave ed amara, negativa: «Che cosa non si è avuto»?… È l’esistenza nostra in negativo che allora ci si mostra, e ci mostra che s’è mancato esattamente tutto quello che non s’è avuto avendo quel che s’ebbe. Sicché, quale che sia stata, l’esistenza ci si rivela molto esattamente come un errore… In verità la domanda vera, quella che infine si nasconde sotto tutte le altre più o meno febbrili e desolate non è «che cosa si è avuto?» ma «che cosa rimane?»… Rimane, se rimane, quello che si è, quello che si era: il ricordo d’essere stati «belli», direbbe Plotino e la capacità di mantenerlo tutt’ora vivo. Rimane l’amore, se lo si è provato, l’entusiasmo per le azioni nobili, per le tracce di nobiltà e di pregio che s’incontrano nelle scorie della vita. Rimane, se rimane, la capacità di mantenere che ciò che è bene è bene, ciò che è male, male, e non si può fare che sia diversamente (e non si deve fare che appaia diversamente). Rimane quello che era, quello che merita di continuare e durare, ciò che sta. E di noi, di quell’ego da cui non potremo mai strapparci né mai abiurarlo, non rimane nulla”.

Pensiero che, per l’Italia, suona straniero: oltre che per il concetto espresso, per il modo col quale le parole sono intessute fra loro, con un ritmo che chiede di esitare, di procedere senza legarle, ma facendo una lunga pausa così da imprimerle bene nella mente.

In tal senso ha ragione Manica quando, nell’Introduzione al Meridiano, a un certo punto sostiene che la scrittura di Chiaromonte non può essere letta con rapidità, essendo il frutto d’una gestazione lenta, d’una accurata lavorazione. Addirittura estremizzerei: per comprendere Chiaromonte andrebbe ricopiato, riscritto un po’ di righe al giorno come il copista di Borges col Don Chisciotte. Esercizio che aiuterebbe a capire cosa vuol dire un pensiero che si fa verbo, parola che illumina e apre al processo infinito della significazione.

Basterebbe già questo per buttarsi a capofitto sulle pagine di Chiaromonte, seguendolo nei tanti ambiti di cui si è occupato, con quella leggerezza profonda che contraddistingue gli spiriti dilettantisti cari a Savinio.

E non occorre aggiungere di più. Sarebbe superfluo e di ostacolo.

Ciò che rimane di Chiaromonte è molto e imprescindibile. E non può più essere ignorato oggi che i suoi scritti sono tornati disponibili in una edizione bellissima e ottimamente curata.

pierlu83

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