MANZINI E I SEGRETI DELL’ARTE DEL RACCONTO. Con Le ossa parlano, l’autore di Rocco Schiavone prosegue nella scrittura della sua personale Recherche

-di PIERLUIGI PIETRICOLA

 

È davvero un mistero la scrittura. Si ubbidisce a un ritmo, si afferra un’idea, la si sviluppa. E tutto cresce attraverso l’autore, consapevolmente e inconsapevolmente. Poi, a un certo punto, ecco che si arriva alla parola fine. Si rilegge, si corregge, si lima qualcosa di esagerato, lo si consegna all’editore con un solo pensiero: di aver scritto un libro così come ci si sentiva. Nulla di più, nulla di meno. Il libro viene poi dato alle stampe, e da quel momento non appartiene più al suo autore, ma ai lettori. E solo allora lo scrittore scopre con quanta innocenza egli abbia dato vita a un vero capolavoro. Penso sia accaduto precisamente questo con l’ultimo lavoro di Antonio Manzini, la nuova avventura di Rocco Schiavone alle prese con un cold case: il ritrovamento dello scheletro di un bambino, morto dopo essere stato violentato .

Nella storia della letteratura del Novecento, sono pochi gli autori che, pur avendo una prolificità da fare invidia, riescono a preservare uno stile vibrante e fresco. Fra questi, c’è sicuramente Antonio Manzini. Perché ha una capacità unica di non cedere alla tentazione del mestiere e della tecnica. Le sue pagine – e sono ormai tante – non si piegano alla freddezza dell’esperienza, all’uso dei trucchi del mestiere che s’imparano via via. Ogni sua riga, ogni sua scena, ogni suo dialogo hanno respiro, ritmo, corposità unici. Gli stessi personaggi, ai quali i lettori sono ormai affezionati, di volta in volta riservano storie e sorprese nuove e imprevedibili.

Come Manzini riesca in questo miracolo è un vero mistero, che forse nemmeno il suo vicequestore riuscirebbe a risolvere. E spiegarlo usando gli strumenti della critica – armi spuntate di fronte all’evento artistico – è impresa futile e poco interessante.

In un libro poco noto ma tra i suoi più belli, Il superuomo di massa, Umberto Eco sosteneva che il nuovo romanzo sociale del secolo Ventesimo, quello deputato ad una conoscenza più profonda del mondo, era sicuramente il “giallo”, “poliziesco” o “thriller”: genere ipocritamente disprezzato da intellettuali accigliati e noiosi, ma che artisti veri – Sciascia e Camilleri su tutti – reputavano la forma più onesta di letteratura. Perché è impossibile barare con il lettore: quelli sono i personaggi, quella la storia da raccontare, quello il mistero su cui far luce, quello l’aspetto della realtà da approfondire e guardare da una certa angolazione. La trama, serrata e logica, inchioda a regole ferree la scrittura non permettendole di ricorrere a inutili arzigogoli, soluzioni campate in aria.

E poiché maggiore è la spinta creativa dove più grande è la costrizione – Dante docet –, Manzini alimenta la sua ispirazione grazie ad una serie di storie che s’intrecciano e che si dipanano libro dopo libro. E qui sta la sua originalità; perché a differenza di Simenon, Conan Doyle, Agatha Christie e altri autori di polizieschi, non vuole né intende dar vita a personaggi scarni nella loro esistenza finendo per somigliare a funzioni letterarie. Rocco Schiavone ha una storia. Italo Pierron un’altra che s’intreccia con quella del vicequestore ma che è a sua volta singola. E lo stesso vale per l’agente D’Intino, per Casella, Deruta, per Brizio, Furio e Sebastiano. Tutto scorre, ininterrottamente.

Parlare, nel caso di Rocco Schiavone, di serie narrativa è improprio. Si tratta, in verità, di un unico romanzo. Una Recherche che di libro in libro cresce e si arricchisce di nuovi tasselli. E senza escludere la quotidianità.

Ma questi sono discorsi che valgono per una recensione o per un saggio critico. E che possono, semmai, invogliare il lettore a mettersi di fronte alle pagine di Manzini con maggiore consapevolezza dei suoi meccanismi narrativi provando maggior godimento (il piacere del testo di Barthes). Dal punto di vista del Nostro autore non hanno grande valore. Ed è giusto sia così. Per lui conta solo continuare a raccontare una storia, costruire un mondo nel quale si desidera vivere perché verosimile a quello reale ma – per fortuna – non identico ad esso. Forse più vero. Chi può dirlo?

L’unica certezza è che la voce suadente di Antonio Manzini continua, con suo piacere e sommo divertimento, a raccontare la sua personale Odissea, la sua personale Recherche. E lo fa con una lingua essenziale, ironica, somigliante a quella di Savinio e di Calvino. Un miracolo vero per la nostra letteratura che si arricchisce, oggi, di un nuovo capolavoro: Le ossa parlano (Sellerio editore, 397 pagine).

N°12 del 31/01/2022

pierlu83

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