Le nuove rivelazioni su Anna Frank e la Giornata della Memoria 2022

-Edoardo Crisafulli-

Non c’è libro che mi abbia scosso nel profondo più del diario di Anna Frank, lo lessi avidamente quando frequentavo le scuole medie. A quei tempi era una lettura pressoché obbligatoria, ma nessuno si sentiva costretto: che ricordare le atrocità nazifasciste fosse un dovere morale, era ovvio per tutti noi. La nostra generazione, nata negli anni Sessanta del Novecento, ne era ben consapevole: i nostri nonni l’hanno combattuta o subita, quella terribile guerra; i nostri genitori erano bambini o ragazzini all’epoca. I loro racconti hanno accompagnato la nostra infanzia. L’educazione alla memoria, insomma, cominciava in famiglia. Ed era basata sull’esperienza diretta. Allo stesso modo, ahimè, i rimasugli di antisemitismo e la nostalgia per il fascismo covavano come le braci sotto le ceneri nelle famiglie degli “irriducibili”, coloro che rifiutavano la narrazione antifascista, collante dell’Italia repubblicana.

In età adulta l’ho riletto – quel piccolo grande capolavoro –, ed ho provato lo stesso, identico sgomento che ti afferra alla gola e poi scende nello stomaco come una scossa elettrica. E se fosse capitato a me e alla mia famiglia?  Per pochi istanti il ragazzino che ero si sforzava di immaginare come avrei sopportato due interminabili anni nascosto come un topo in una soffitta, la vita soffocante in comune con estranei, l’impossibilità di usare il bagno di giorno, l’assenza di televisori, di giochi, di libri. Che noia, che angoscia. Finché non arrivano i cattivi, le carogne, e comincia la prigionia vera, quella che dà la morte. Da ragazzino mi identificavo in questa coetanea vivace, piena di talento e così tragicamente “sfortunata”; a volte me la immaginavo, Anna, ancora viva, nella normalità dell’Europa libera dal giogo nazista, mi figuravo addirittura l’arrivo al lager con tanto di fanfare dei buoni, gli angloamericani, affinché la vicenda – infinitamente triste – avesse un lieto fine. Ma la vita non è un film di Hollywood e neppure una replica della Vita è bella, dove l’eroe, Giosuè, si salva assieme alla mamma e, pur privato del padre assassinato dalle SS, saluta festante i liberatori sul carro armato con il simbolo dell’esercito USA. Come poteva esser morta di tifo e di stenti una ragazzina alla stessa età in cui noi giocavamo e copiavamo i compiti e marinavamo la scuola e festeggiavamo i nostri compleanni e provavamo le prime “cotte”, anni più o meno spensierati in cui la massima sofferenza per la maggior parte di noi era la sgridata di papà, il bullismo di un compagno di classe, la timidezza, i brufoli sul volto?

Divenuto un uomo m’è venuto spontaneo identificarmi col padre, sopravvissuto ad Anna. Potrei io sopravvivere alla morte di mia figlia adolescente in un campo di sterminio? Anch’ io mi porrei la domanda terrificante, senza risposta: perché Dio o il destino ha voluto che mi salvassi io e non lei, fiore reciso mentre stava per sbocciare? Perché non sono riuscito a proteggere la mia piccolina? Quale sarà stato il suo ultimo pensiero? Quanto avrà sofferto, nell’agonia degli ultimi giorni di vita? Credo che perderei il senno, l’unica è scacciare questi pensieri depressivi dalla mente. Ci investe il mistero del male: cosa induce certi individui al sadismo, alla crudeltà, all’odio ideologico, alla violenza cieca e assassina?

Oggi ho molti più strumenti in più per capire, posto che si possa comprendere davvero fino in fondo quell’abominio che è stato la Shoah – lo sterminio di un popolo, quello ebraico, che ha dato un contributo straordinario alla cultura europea, di cui peraltro è parte essenziale, ad opera dei nazisti e dei loro scherani; il genocidio perfetto architettato con professionalità diabolica da carnefici volenterosi, membri di una grande nazione europea e “cristiana”, quella Germania che ha dato i natali a Beethoven e Kant, una nazione all’avanguardia nella scienza e nella tecnica che all’improvviso, succube dell’ideologia più aberrante mai concepita, si abbandona a una isteria collettiva mai sperimentata prima. L’ideologia razzista e una tecnica raffinata si sposano per produrre una creatura degenere: la soluzione finale del problema ebraico mediante l’uso su larga scala delle camere a gas.

La banalità del male di Hanna Harendt e L’effetto Lucifero di Zimbardo mi hanno aperto la mente sul male collettivo, qui infatti parliamo di milioni di individui al servizio di un disegno perverso, intruppati in un sistema perfettamente funzionante, ogni rotellina dell’ingranaggio ben oliata e al suo posto. Ecco cos’è il male collettivo: l’esercizio di un potere totalizzante, arbitrario e crudele sul nostro prossimo in situazioni o contesti ben strutturati, studiati per incentivare gli istinti più perversi dell’animo umano.  La diabolica perfidia consiste in questo: gli architetti di tali situazioni o contesti creano l’illusione che il singolo criminale possa autoassolversi dalle sue responsabilità. Ciò rende la macchina della sofferenza terribilmente efficiente: pochi “operatori” o “macchinisti” hanno uno scrupolo di coscienza. La psicologia sociale e la sociolinguistica forniscono interessanti chiavi di lettura. Affinché il dispositivo dello sterminio non si inceppi, occorre anzitutto un’operazione ideologica e propagandistica martellante: è essenziale disumanizzare il nemico: gli ebrei sono un corpo estraneo, un’escrescenza tumorale su un corpo sano – il film nazista l’Ebreo Errante equipara gli ebrei a ratti portatori di malattie. A quel punto subentra il linguaggio eufemistico e asettico che descrive la politica di sterminio o disinfestazione della società dagli elementi impuri – soluzione finale, liquidazione ecc. La catena di montaggio per il genocidio è pronta.

Il senso e la dinamica di questo inferno costruito dagli uomini mi sfuggiva, da ragazzino. L’esser adulto, senziente e lettore onnivoro, mi ha fatto capire tante cose. Fra queste il meccanismo psicologico subdolo che alimenta tuttora l’antisemitismo. Ecco perché sono inorridito leggendo la notizia – secca, scarna – secondo cui Anna Frank fu tradita da un notaio ebreo, il nome non importa. La prima reazione è: come, Anna fu consegnata ai suoi carnefici, insieme a tutta la sua famiglia, da un suo correligionario, da un membro della sua comunità, da una persona che avrebbe dovuto aiutarla e proteggerla? Una notizia del genere va commentata, approfondita: si presta a troppi equivoci. Immagino le vili insinuazioni degli antisemiti: ‘eccoli, gli ebrei, si sono venduti fra loro per vile denaro’, oppure ‘vedete? I cattivi mica erano solo i tedeschi cristiani’. In realtà il “traditore” fece la spia perché voleva salvare sé stesso e sua moglie. Il gesto è esecrabile, ma non è umanamente comprensibile? I giornali ci informano che c’è un’aggravante: il delatore, un signore altolocato, aveva un posto di rilievo nel consiglio ebraico, organismo collaborazionista che facilitò o assecondò l’attuazione delle politiche naziste, finché non fu smantellato nel 1943 e tutti i suoi membri finirono anch’essi nei lager. Non leggo altre considerazioni, negli articoli: in primo piano c’è il tradimento di ebrei ad opera di ebrei, e c’è l’infame collaborazionismo ebraico. Punto.

La questione del “collaborazionismo ebraico” è molto delicata e sofferta: ne ha scritto, con estrema difficoltà, Hanna Harendt. Certo che vi furono collaborazionisti e spie fra gli ebrei. Se è per questo c’erano anche, nei lager, gli internati ebrei che Primo Levi definì i “corvi neri del crematorio”: i sonderkommandos, unità speciali che collaboravano con le SS in cambio di un trattamento di favore. Non sono forse esseri umani, gli ebrei? Ci aspettiamo eroismo assoluto dalle vittime e non già dai carnefici e dai loro connazionali che si aggiravano fischiettando nei pressi dei campi di sterminio? Chi fra i collaborazionisti ebrei, peraltro, sapeva delle camere a gas, visto che gran parte dei tedeschi, che i lager li aveva sotto casa, sosteneva di essere all’oscuro di questo crimine contro l’umanità che si stava compiendo? A una conferenza sulla Shoah ho sentito una storia agghiacciante: Elie Wiesel, sopravvissuto all’orrore dei campi di sterminio, esperienza che racconta nel romanzo autobiografico La notte, si crucciava per un episodio pazzesco che lo aveva marchiato nell’anima come gli infami numeri tatuati sul braccio: un giorno, sopraffatto dalla fame, desiderò intensamente la morte di suo padre, internato assieme a lui: voleva impossessarsi del suo tozzo di pane. Wiesel non ha mai perdonato sé stesso per questo cedimento umano. Dovremmo forse giudicare con durezza l’uomo che cade in tentazione o che non compie l’atto eroico perché sottoposto a una pressione pazzesca, disumana?

L’effetto Lucifero contiene interessanti notazioni sul concetto di eroismo in tempi e situazioni sia eccezionali che di assoluta normalità. Da un lato c’è la luce: non è vero che siamo tutti ingranaggi inconsapevoli, possiamo ribellarci a un’autorità ingiusta e immorale. Dall’altro c’è il buio: purtroppo – e questo già la sapevamo – gli eroi sono sempre pochi, troppo pochi. In ogni tempo e luogo, in ogni situazione e in ogni popolo. Ogni persona è responsabile per le sue azioni, ma esistono anche quelle che Giovanni Paolo II definì “strutture del peccato”: situazioni oggettive che ci incoraggiano a compiere il male oppure a non intervenire (gli ignavi danteschi…). Accanto al libero arbitrio, si spera tendente al bene, v’è la forza, opposta, della compagine diabolica di turno — lager, gulag, gerarchia militare deviata ecc. – volta a procurare sofferenze ai nostri simili, a privarli della loro dignità. Se è vero, come è vero, che ogni singolo nazista è responsabile delle atrocità che ha commesso, è pure vero che ne sono corresponsabili pienamente anche i capi e gli operatori della filiera del male – dai vari Albert Speer, amico intimo di Hitler e Ministro degli Armamenti che a Norimberga se la cavò con vent’anni galera, fino al macchinista del treno che portava “i pezzi da liquidare” ad Auschwitz. La responsabilità più grave è in capo a chi congegnò il sistema nazista in maniera tale da tirar fuori il peggio che c’è in noi: Hitler e i suoi più stretti collaboratori.

Dedico questo pensiero finale alla Giornata della Memoria 2022: attenzione alle notizie che leggiamo, potrebbero rinfocolare stereotipi antiebraici. Teniamo bene a mente due lezioni: a) siamo tutti potenzialmente soggetti a forze sistemiche soverchianti: non chiediamo agli altri l’eroismo di cui non siamo (o non saremmo) capaci noi stessi. B) Le situazioni oggettive vanno analizzate attentamente: guai a confondere il delatore di Anna Frank, spregevole quanto si vuole, con il nazista infervorato grazie al quale l’Europa occupata pullulava di spie pronte a venderti. Il delatore terrorizzato nell’inferno nazista c’è finito suo malgrado, e ci si è fatto stritolare, questa la sua colpa; il nazista ha dato il suo entusiastico contributo a costruirlo scientemente, quell’inferno, quest’ultima colpa trascende tutte le altre.

Non lo si ripeterà mai abbastanza: è da infami equiparare moralmente coloro che subirono la forza repressiva dell’occupazione nazista e non seppero o non vollero arruolarsi nella schiera degli eroi, con i militanti che aderirono liberamente, in scienza e coscienza, al partito nazista e ne attuarono le politiche. Altroché ‘abbiamo semplicemente obbedito agli ordini’, come dissero quei vigliacchi a Norimberga! Le dinamiche psicologiche del cedimento alle pressioni e alle paure (così facevan tutti, la persecuzione era legale, ricevevo ordini, volevo proteggere la mia famiglia ecc.) possono rassomigliarsi superficialmente, la dimensione morale delle vittime e dei carnefici è totalmente diversa.

N°10 del 27/01/2022

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