– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –
Un vecchio signore palestinese, seduto su una sedia fuori dalla sua casa di Sheikh Jarrah, un vasto quartiere nel settore di Gerusalemme Est, vuole raccontarci la sua storia, che è storia di vessazioni e di privazioni comuni per molti, moltissimi cittadini palestinesi di Cisgiordania. L’uomo abitava in una casa da 48 anni. I genitori l’avevano occupata nel 1956 perché quello in realtà era un campo profughi di palestinesi venuti da zone lontane da Gerusalemme prese dagli israeliani. 35 coloni occuparono quella casa. Quando i coloni presero definitivamente la casa, i palestinesi costruirono una tenda di fronte ad essa per poter avere un posto dove vivere. Il governo l’ha distrutta 17 volte, dando loro una multa accusandoli di “gettare spazzatura nella strada”.
Questa parte della città tre volte santa di fatto appartiene alla West-Bank e a coloro che vi abitano. Invece non è così. Fin dai tempi della sua occupazione (con la Guerra dei Sei Giorni nel 1967), Israele mira a realizzare il tanto ambito disegno di annessione di questa parte di territorio palestinese, mediante abbattimento di abitazioni, cacciata dei suoi abitanti e sostituzione con famiglie di coloni. Gente dalla forte inclinazione razzista, agguerrita e decisa a prendersi con la forza quello che lo Stato e il governo permette loro di prendere. In altre parole, essi si sentono protetti, legittimati. Oggi ancora di più, dopo gli accordi presi da Netanyahu con gli Emirati Arabi e il Bahrein, dopo quelli presi con Egitto e Giordania, e con la scelta di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, quasi ad affermare il ruolo di capitale dello Stato d’Israele.
Era la primavera del 2011 e niente da allora è cambiato, a giudicare dagli ultimi episodi di violenza e di sangue avvenuti proprio nei quartieri palestinesi di Gerusalemme. Ci eravamo andati per realizzare alcuni film documentari sulla condizione del popolo palestinese a Israele, nei Territori e nella Striscia di Gaza. A Gerusalemme Est, appunto, filmammo una manifestazione congiunta di palestinesi e israeliani contro lo scippo illegale delle case a Sheikh Jarrah (dove si tenta di mandare via delle proprie case 28 famiglie), Silwan e nel settore arabo della Città Vecchia. Negli ultimi tempi, si è giunti perfino a chiudere i luoghi pubblici abitualmente frequentati dai cittadini palestinesi per impedirne l’incontro e qualsiasi attività ricreativa che in qualche modo possano compromettere chissà quale ordine sociale.
Un giovane israeliano mi disse che non aveva alcun senso per lui, ebreo nato in quella terra, privare altre persone, anche se diverse per cultura e credo religioso, dei luoghi dove anch’essi sono vissuti. Rincuorante, pensai, fino al momento in cui quello stesso giovane, ritrovandosi vicino a me nel corteo, mi disse anche che, tuttavia, in Israele erano ormai in pochi a pensarla in questo modo!…
Mentre il vecchio signore palestinese parlava come fosse un torrente in piena, notammo tutti il passaggio sprezzante di tre coloni; uno di essi, il più basso di statura che aveva uno strano copricapo, non le solite “ciambelle”, ma un berretto di lana alto e sgonfio, tale da sembrare, piuttosto, uno spaventapasseri, apostrofando l’uomo con parole pronunciate in ebraico, passò subito all’inglese in modo che noi stessi, “amici dei palestinesi”, (inteso come un vero e proprio insulto), comprendessimo tutti il suo messaggio che diceva più o meno così:
“Nasser, presto saremo 24 in più. Nasser, Nasser, tu non capisci cosa sta succedendo qui…in pochi anni noi ortodossi, i religiosi e i laici, spazzeremo via tutti gli arabi da qui!!! Vi faremo vedere cosa vuol dire terrorismo ebreo. Vi faremo vedere chi sono gli ebrei…piano piano. La cosa più importante è non avere paura di niente!”.
Quell’uomo, già malato da tempo, morì, infelice, pochi anni più tardi. E intanto il rituale di spoliazione dell’identità palestinese nella Palestina, ma anche dei manufatti concreti e quotidiani procede a ritmo inarrestabile. Un governo che ignori o che mostri indifferenza rispetto al fatto che la seconda Intifada, esplosa il 28 settembre dell’anno 2000 e durata per ben cinque anni, non può che risultare irresponsabile agli occhi del mondo. Eppure Israele e il suo governo continuano ad usufruire del consenso e dell’appoggio di molti paesi, specialmente in Europa e negli Stati Uniti. E’ sulla Spianata delle Moschee, luogo sacro di tutti i musulmani, che è cominciata la guerriglia due giorni fa. Il controllo assoluto da parte dei soldati israeliani dell’intero perimetro, impedisce il regolare afflusso di persone, di fedeli, come di solito avviene nei check-point: controlli, minacce, interdizioni. Come, infine, afferma la scrittrice Souad Amiry: c’è stato un tentativo sistematico di giudeizzare Gerusalemme (1). Forse è il primo passo verso l’indicibile, l’innominabile, non solo per l’intera comunità musulmana palestinese e del mondo intero, ma anche di quel mondo laico che per vocazione rifiuta nazionalismi e guerre sante. Ovvero, la progressiva annessione e desacralizzazione di quel luogo. O ancora peggio, la sua definitiva cancellazione. Un progetto ambizioso che cova ormai da decenni nella falange ortodossa più oltranzista e che trova ampia sponda nell’estrema destra del Likud, sino ad oggi ancora al governo. E’ il sogno di uno stato ebraico finalmente senza più arabi: Non si avvererà in tempi brevi, questo è certo, ma il prezzo di quel sogno nazionalista originato più di un secolo fa, per i palestinesi sarà troppo, troppo alto.
A Silwan, l’altra importante enclave palestinese di Gerusalemme, un popoloso quartiere di circa 50.000 abitanti, c’erano presidi di gente allarmata e impaurita, laddove la sostituzione etnica è legata prevalentemente a due fattori. Primo: il fatto che in questo sito abbia avuto origine la città di Gerusalemme e che vi sia nato Re David, induce il governo israeliano a compiere scavi archeologici, sfruttati poi come pretesto per riprendersi l’intera area. Secondo: le case, un tempo abitate da cittadini ebrei, dopo il 1948 furono date ai palestinesi, ormai diventati profughi nella propria terra, ma una legge israeliana costruita ad hoc, prevede la riconsegna delle suddette ad altri cittadini israeliani, causando così una seconda diaspora palestinese interna. Che cosa dire allora, della circostanza per cui non verrebbe applicata la medesima legge per il Ritorno, ossia il diritto per i palestinesi a riavere le proprie case di cui furono privati con la violenza militare esercitata durante la Nakba (Catastrofe) del 1948? È quindi evidente che per Israele esistono due pesi e due misure: una per gli ebrei israeliani e un’altra per gli arabo-palestinesi, in questo che è un conflitto di civiltà, dove la religione è un pretesto per scatenare una vera e propria guerra di territori e per usare un termine adottato per la prima volta dallo storico Ilan Pappe, di “pulizia etnica”. “Gas to arabs” era una tra le scritte più diffuse sui muri di Hebron in Cisgiordania. Sono passati dieci anni e oggi, a Silwan si teme ancora per la perdita delle proprie case e della propria incolumità.
Non esiste da almeno quarant’anni un piano di risanamento urbano di questi quartieri, mi dice un signore ebreo ma di origine italiane residente ormai da molti anni a Gerusalemme, in grado di renderli più vivibili, in questo mondo possono facilmente dichiararle illegali, un passo obbligato per procedere alla loro demolizione.
La soluzione prospettata fin dal tempo degli Accordi di Oslo, ossia dei due Stati per due Popoli, sembra, proprio adesso, perdere ogni credibilità, in quanto il moltiplicarsi di colonie (settlements) (illegali) in Cisgiordania, tende a modificare radicalmente la geografia dei luoghi, compromettendo l’ipotesi di una possibile divisione statuale. Una trasformazione che ha generato un vero e proprio stato di apartheid per i cittadini palestinesi cui, ad esempio, vengono riservate strade separate da quelle usate dai coloni israeliani, diventando come i neri del vecchio Sudafrica bianco. Anche l’altra soluzione, prospettata da Ilan Pappe, di uno Stato per due Popoli risulterebbe non meno praticabile in quanto, in un futuro stato della Palestina, gli ebrei israeliani imporrebbero, gioco forza, fin da subito, una totale egemonia, tale da invalidare l’idea di una democratica e civile parità.
Nella Striscia di Gaza, mentre giravamo un altro film, Israele bombardava i quartieri della città. A Jabalya che già era campo profughi, un inferno, oggi muoiono dei bambini innocenti e persone che non c’entrano niente con la guerra, altre 287 vengono persone gravemente ferite; azioni che Israele compie come deterrente psicologico verso un popolo ridotto allo sfinimento, ma non certamente domato. Hamas come forza integralista e terroristica, è diventata un alibi per giustificare qualsiasi azione militare violenta contro persone e cose. Colpire con un drone un’automobile dove si suppone vi sia un presunto terrorista in mezzo alla gente che cammina per strada non è forse esso stesso un atto terroristico? Il governo israeliano si è servito di Hamas per spezzare o almeno indebolire l’unità interna dei palestinesi (rappresentata dalle due principali forze politiche, Hamas a Gaza e l’ANP di Abu Mazen in Cisgiordania), ma subito dopo l’evacuazione forzata dei coloni dalla Striscia, voluta da Ariel Sharon, e il suo successivo accerchiamento e isolamento, è cominciato l’attacco contro la Striscia e il suo “governo”, ovvero la demonizzazione di Hamas, rubricato come il male assoluto. I suoi razzi Kassam a corta gittata che in genere colpivano radure di città come Sderot o Ashkelon, oppure venivano intercettati in volo dai radar israeliani, che in realtà non hanno quasi mai colpito nessuno, ieri sono arrivati sino a Gerusalemme causando dei morti tra gli israeliani. È un gioco al massacro che continua perché qualcuno vuole che sia così, e che, inoltre, rimarca il senso di impotenza di un ampio segmento di popolo palestinese, il quale non sa più trovare altre modalità di difesa, offrendo, come in un circolo vizioso, il destro ai suoi nemici per sentirsi ancora una volta legittimati ad uccidere. Si prepara dunque, in questi giorni un’altra invasione di Gaza, dopo la famigerata “Operazione Piombo Fuso”, del 2009, che, se da una parte costerà ancora una volta molte vite umane, dall’altra, consentirà, forse, a Benjamin Netanyahu di confermare la sua presenza al potere.
Dispiace, infine, constatare che gran parte dei commentatori politici, anziché raccontare i fatti per ciò che realmente sono, con serenità e obiettività, continuino, inspiegabilmente, ad alimentare luoghi comuni come il presunto senso di accerchiamento provato dalla maggioranza degli israeliani di fronte all’esistenza di un possibile stato palestinese!… Inoltre, l’interesse internazionale si è progressivamente spostato verso altri conflitti. La liberta del popolo palestinese forse non fa più notizia come un tempo, non è più di moda tra la sinistra engagè, sempre che ne esista ancora una, troppo impegnata a tenere alta la bandiera del neoliberismo o tutt’al più a sperare in una sua (im)possibile umanizzazione.
Note
- Amiry “Da questa situazione si esce solo dando uno stato ai palestinesi, in la Repubblica, pag.14, 14 maggio 2021
N°: 43 del 17/05/2021