Politiche di rigenerazione urbana tra metropoli e provincia

– di MAURIZIO FANTONI MINNELLA –

Se il fenomeno della deindustrializzazione e della conseguente delocalizzazione delle attività produttive ha segnato, in quanto fenomeno globale, l’evoluzione socio-economica degli ultimi trent’anni, producendo non pochi traumi e lasciando dietro di sé una scia di rovine della modernità industriale novecentesca, non minor rilevanza ha avuto e sta avendo, sia nel dibattito culturale che nel concreto delle trasformazioni urbane, quello del recupero delle aree dismesse, o secondo una recente definizione degli urbanisti, di rigenerazione urbana. E ancora, se il primo ha contribuito a mutare in profondità il paesaggio dell’anima collettiva di un’intera classe sociale, quella operaia, il secondo è destinato a mutare la realtà fisica di intere aree urbane e periferiche. Entrambi i fenomeni si rivelano così fortemente interconnessi, nella misura in cui quello che sarà il destino finale degli spazi urbani “rigenerati”, andrà inevitabilmente a modificare le abitudini e le modalità di relazione degli individui, dei cittadini. Ma su tale ridefinizione dei nuovi equilibri urbani e sociali si è aperta una sorta di divaricazione che non è opportuno né possibile, ancora, definire antagonismo, ossia tra provincia e metropoli, tra cultura delle piccole città italiane (che formano il tessuto connettivo del Paese facendo comunque riferimento ai grandi centri, per estensione, storia artistica, culturale ed economica) e quella delle città metropolitane (in Italia se ne contano 14). Le dinamiche e soggetti sono i medesimi, ma i risultati divergono, in gran parte, per finalità e qualità progettuali. Partiamo dai primi: da una parte troviamo le istituzioni pubbliche e le ragioni politiche, dall’altra, i singoli cittadini, i comitati di quartiere e le associazioni; un’ulteriore polarizzazione riconoscerebbe da una parte gli interessi degli investitori e i proprietari delle singole aree urbane e dall’altra le ragioni degli architetti, sovente chiamati dalle stesse amministrazioni pubbliche ad esprimere un parere, molto spesso in totale antitesi con i progetti presentati dalle società stesse. Quanto ai cittadini nell’accezione più ampia, anch’essi sono chiamati a esprimere un parere (come del resto esige una moderna democrazia mediatica…!), favorevole o contrario, tuttavia del tutto ininfluente, specialmente quando i giochi sono fatti, quando l’accordo tra amministrazioni e società proponenti è all’apice. Ma allora, quali sono gli elementi che differenziano lo scenario urbano tra piccole città e metropoli? Più che un insieme di elementi precostituiti, si tratta del tipo di cultura che, di fatto, è espressione delle metropoli piuttosto che delle città di provincia. Nelle prime, quasi per vocazione, si mettono in cantiere grandi progetti a cui generalmente corrispondono grandi investitori e conseguentemente grandi architetti. Il mito recente dell’”archistar” (con un certo substrato di ambiguità connessa a tale definizione), è creatura squisitamente metropolitana, e quindi blasè. Ma nella cultura che nasce e si sviluppa in seno alla grande città, per un effetto generato dalle dinamiche proprie del mercato globale, possono, tuttavia, trovare posto, accanto ai progetti “verticali”, mix di residenze e terziario avanzato, così tipiche della nuova Milano, altri, invece di carattere più specificatamente culturale quali nuovi musei, o grandi spazi espositivi ricavati da storici insediamenti industriali. Insomma, se per i nuovi operatori urbani del marketing immobiliare, tutto è business, anche la cultura necessariamente dovrà esserlo, sebbene con modalità diversificate rispetto alle cosiddette “operazioni culturali”, ma pur sempre con un’attenzione particolare all’aspetto mediatico, all’eccezionalità di ogni singolo evento. Perché oggi, di eventi si parla come qualcosa che si risolva nel proprio oggetto, hic et nunc, piuttosto che entro una prospettiva temporale. Se ci spostiamo, invece, nell’ambito più ristretto delle città di provincia troviamo che la cultura intesa nel significato più ampio del termine, quindi non solo di idee e di grandi opere, ma anche di spazi collettivi per una nuova fruizione del lavoro artistico-culturale, non viene mai, salvo rare eccezioni, ritenuta oggetto d’attenzione e di investimento economico, perché di segno debole rispetto, ad esempio, al manufatto commerciale ad alto reddito. Quasi che si voglia intendere che al di fuori delle metropoli, l’idea di cultura, appunto, e di collettività, non conoscano che una cittadinanza minoritaria e perciò ininfluente nella stesura dei nuovi progetti per le città. In altre parole, si registra il netto e quasi esclusivo prevalere della cultura del mercato sul mercato della cultura e, come sua diretta conseguenza, dell’edilizia sull’architettura. Laddove, infine, al concorso di idee per una buona architettura sostenibile rispetto al genius loci delle aree disponibili al recupero e alla rigenerazione urbane, si preferisce una cattiva edilizia finalizzata alla tipologia dell’edificio commerciale, inteso quale unica opzione destinata al cittadino-consumatore. Questo tenderebbe ad accrescere la frustrazione del professionismo locale che nei casi più fortunati tenderebbe a ripiegare sull’edilizia residenziale privata. In altre parole, l’impossibilità di pensare per grandi progetti pubblici capaci di coinvolgere diversi soggetti, non è imputabile soltanto ad una visione progettuale ristretta, ma anche a ragioni di carattere politico ed economico. Inoltre, risulta difficile immaginare che anche in un ambito strettamente artistico-culturale, il privato voglia investire in provincia, ad esempio, progettando qualcosa come una fondazione, a meno che non vi sia un particolare legame con quella città. E’ accaduto a Varese che un noto designer, dopo aver realizzato una fondazione a proprio nome e con denaro privato, abbia immediatamente preteso che il Comune investisse soldi pubblici per la realizzazione di una strada pedonale “artistica”, ossia con materiali pregiati che richiamino i colori abitualmente impiegati dal designer per le proprie opere, ossia il bianco e il nero, che risulti, infine, come una sorta di “promenade” d’ingresso alla fondazione stessa, collocata stabilmente in una residenza signorile degli anni ’30.

Quando parliamo di rigenerazione urbana, pensiamo, ovviamente, ad un tipo di progettualità qualificata, ovvero attenta alle specificità del luogo, allo stretto legame con la natura urbana circostante, al fine di operare una sorta di integrazione del “nuovo” con l’“esistente”, e alle ragioni storiche e filologiche collegate ai singoli manufatti su cui si intenda intervenire. Abbiamo visto realizzare simili presupposti, pur con le relative criticità in progetti che sono diventati ormai esemplari, come quelli delle ex Officine Breda e dell’Ansaldo a Milano (rispettivamente con la realizzazione di un grande centro espositivo e di un museo), della Fiat Lingotto a Torino (con il Nuovo Centro Congressi e i padiglioni fieristici), del waterfront a Genova (con la realizzazione del Porto Antico, ossia del nuovo fronte urbano sul mare), solo per citare i più noti al grande pubblico. Anche per i due grandi edifici “milanesi”, quello della “Fondazione Prada” e della “Fondazione Feltrinelli”, si è puntato anche sulla qualità architettonica, che si rivela come proporzionale alla somma di denaro investita e al prestigio dei committenti. Lo stesso discorso può valere per importanti recuperi architettonici e urbani in Europa, come la Gare d’Orsay a Parigi e la King Cross Station a Londra, ma ve ne sarebbero molti altri in grado di interpretare correttamente la contemporaneità con una propria “visione” del singolo edificio come della totalità urbana.  Insomma, riprogettare la città significa anche saper interpretare talune sue parti mettendole in stretta relazione con la complessità del suo insieme, al fine che vi sia una reciproca riconoscibilità. In tal senso risulta, infine, esemplare nel senso opposto, il caso dell’area urbana che occupava l’originaria produzione aeronautica della gloriosa Aermacchi e ancor prima della carrozzeria omonima. Il caso, dunque, di una piccola città qual è appunto Varese, che nell’ospitare un’impresa di tale importanza strategica nazionale, si ritrova a dover decidere delle sorti di una grande area, oggi completamente dismessa. E sia. La soluzione, a differenza di altri casi analoghi come ad esempio, il recupero su progetto di Cino Zucchi, tra i più noti architetti italiani (1), dell’area della fabbrica storica Isotta Fraschini in Saronno nel Varesotto, (che insiste su un’area di ben 120.000 mq!), divenuta famosa nel mondo anche grazie al film di Billy Wilder Sunset Boulevard-Viale del tramonto, 1950, dove la star Gloria Swanson possedeva una scintillante Isotta Fraschini guidata dal proprio autista impersonato da Eric von Stroheim, oppure il recente progetto d’intervento sulle ex Officine Olivetti di Ivrea, entrambi in working progress, è già raggiunta ancor prima di qualsiasi discussione o concorso di idee per la sua risistemazione. Radere al suolo integralmente recuperare i manufatti industriali più pregevoli? Un interrogativo che sembra risuonare ogniqualvolta ci si appresti al recupero di una struttura dismessa. L’altro è, dunque, il seguente: per farci che cosa?  E qui la risposta non può che essere univoca: Centro commerciale per la grande distribuzione alimentare. Non esistono manufatti da salvare poiché nessuno dei manufatti in questione risulta vincolato dalla Soprintendenza alle Belle Arti. Quasi che si dovessero utilizzare criteri artistici, come ci insegna lo studio dell’architettura moderna, per garantire il recupero di strutture di ferro e cemento la cui qualità formale richiederebbe altrimenti un diverso giudizio. Se poi si parla di riqualificazione o rigenerazione urbana, che cosa vi è di più estraneo alla città di un supermercato o un centro commerciale?

Dove è finita la memoria storica di cento anni di attività industriale dove la lunga storia operaia non è meno importante di quella del marchio storico?!. Ma nondimeno, per l’attuale sindaco della “città giardino” lombarda, non è necessariamente attraverso i manufatti (scomodi come in questo caso!), che si conserva la memoria del lavoro, per questa bastano le parole e le lapidi commemorative….. A nulla sono valsi, invece, le parole degli architetti, con cui hanno, tuttavia, evocato il valore e la ricchezza di quei manufatti come testimoni silenziosi di una storia irripetibile.

 

 

 

Note

  1. Scrive Zucchi a proposito delle aree dismesse delle nostre città:

Al cadere della loro funzione ci troviamo di fronte a recinti impenetrabili quasi la fabbrica fosse un’organizzazione militare, chiusa su sé stessa, il cui accesso al cittadino è precluso. Ma le peculiarità che le riguardano, come la posizione, la dimensione e la questione ambientale, ci costringono a un pensiero nuovo. A una rifondazione, attraverso nuovi modelli di spazio pubblico, verdi, che rigenerino l’area urbana, in un mix di recupero dei vecchi capannoni e di costruzione di nuove aree verdi….Ogni buona architettura è sempre collegata alla collettività.

Si tratta di una descrizione dell’esistente e insieme del possibile che viene a coincidere perfettamente con l’idea di uno spazio monofunzionale, che per decenni escluso alla città, venga finalmente ridato alla città perché lo riconosca facendolo proprio. Da questa idea prese le mosse in grande progetto di Renzo Piano del 1994 per la rigenerazione dell’antico porto di Genova.

 

 

 

 

N°: 41 del 10/05/2021

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