Gli inconsolabili Palinuro del primo giorno di pace

 

    di Francesca Vian

Sembrano più ingiuste le uccisioni del 25 aprile 1945 e dei giorni che seguirono. Finalmente finiva la lunga oppressione della guerra; eppure, dopo avere resistito tanto, molti giovani morirono; tante città e borghi italiani subirono massacri; a troppe persone venne preclusa la costruzione dello stato democratico italiano, e la ricostruzione delle città in macerie. C’è qualcosa che rende inconsolabile questo dolore.

Così inconsolabile che lo scultore veneto Arturo Martini volle immortalare nel marmo per sempre il loro ultimo sospiro al cielo, lo struggente sguardo verso il domani, che essi poterono intravedere soltanto da lontano, con la certezza nel cuore che l’umanità avrebbe sovrastato le ragioni della barbarie. Il suo Palinuro (1947, nella foto) si trova nell’atrio degli Eroi, nel cortile dell’Università di Padova. Ritrae il giovane leggendario, timoniere della nave di Enea, quando, fra le onde del mar Tirreno, già in vista della terra campana, con gli occhi fissi a scrutare le stelle (Eneide, V), ‘in mar fu tratto’. E già si dovevano intravedere il cielo e le stelle della futura Italia, il 29 aprile 1945, già si doveva scorgere la terra promessa, quando venne ucciso il giovane partigiano Primo Visentin, laureato a Padova in Storia dell’Arte. A lui è dedicato Palinuro e ai tanti giovani che caddero come lui, alla vigilia della libertà.

Lo scultore era figlio di un pasticciere e aveva ammirato tante volte le creazioni di burro di suo padre; anche la madre, che cucinava creme, aveva spesso il burro tra le mani. Sembra di burro anche questo Palinuro, senza spigoli, giacché il burro li livellerebbe, tondeggiante e bianchissimo. Sembra di burro la vita stessa in quei momenti drammatici, quando i morti non si contano, con i Tedeschi in fuga, prigionieri della paura. Fra loro c’è Olivo Bravin, caduto il 25 aprile, fermando un mezzo tedesco nel borgo veneto di Lison (VE). Suonavano già le campane a festa per la Liberazione, e subito dopo hanno tristemente battuto il lutto. Sembra che parli lui ora che, come Palinuro, ‘me fluctus habet versantque venti’, ‘mi tengono le onde e i venti mi trascinano” (Eneide, VI). Sciolto prima del sole della Repubblica, il Palinuro giunge al cuore, come la beffa di morire l’ultimo giorno di guerra, e il primo di pace. Una statua di marmo che sembra fatta di burro. Una morte di burro che sembra scolpita sul marmo.

Qualche metro più in là (nel cortile nuovo), cinquant’anni dopo, viene innalzato ‘Resistenza e liberazione’ di Jannis Kounellis. È un movimento corale di assi di legno, simbolo di tanti uomini e di tante donne che composero e scrissero la Resistenza. L’artista andò a cercare le tavole nei dintorni di Padova, materiale povero di cui è fatta la storia, che non è tessuta di eroi; è un composto plurale ordinato e al tempo stesso disordinato; si trova qua e là, fra i cortili; ogni pezzo di legno è inutile da solo, ma trae motivazione nella pluralità delle voci. Alcune di queste assi forse cadrebbero, sarebbero addirittura dannose per il monumento, ma la coralità perdona gli errori umani, e innalza verso il cielo il monumento. Errori: tanti, come l’assassinio della maestra Perna, nella campagna veneta. Sembra che parli lei, ora che, come Palinuro, ‘me fluctus habet versantque venti’, ‘mi tengono le onde e i venti mi trascinano”.

Secondo Piero Calamandrei, il monumento alla Resistenza va fatto con ‘la roccia di questo patto/ giurato fra uomini liberi/che volontari si adunarono/per dignità e non per odio/decisi a riscattare/la vergogna e il terrore del mondo’ (Lapide ad ignominia). La ‘roccia di questo patto giurato fra uomini liberi’, in questo caso, è roccia di legno, un materiale più fragile, che può salvarci diventando fuoco, può proteggerci facendosi casa, può sostenerci nella vita accanto ad altro legno che ha accompagnato altri, può divenire lo strumento di Paganini o il fischietto di un ragazzo. Si possono sortire rivoluzioni, con la stessa fatica di queste assi di legno. Non sono allineate a cercare il cielo, ma seguono la direzione della Terra, parallele alle strade percorse dai tanti, stremati dalla fame e dalla fatica, che dovettero, anche loro malgrado, inseguire la Liberazione dell’Italia.

Nel cortile del palazzo del Bo, puoi accarezzare Palinuro, morto dopo avere scorto l’Italia, guardando le stelle; puoi avvicinare anche le assi di legno impilate, coro di fatica, di sudore, di dolore, di speranza, di amore. Ma non sarebbero mon-umenti, se non am-mon-issero a pensare che la Resistenza è proseguire il cammino di coloro che scelsero la nuova Italia, quella in cui si sta decisamente molto meglio di prima, come ha superbamente scritto Luciano Pellicani in Novecento, secolo del progresso; se non invitassero a pensare che la ‘Non Resistenza’ è ‘indifferentismo’, come lo chiamava Piero Calamandrei, l’alibi perfetto di chi non pronuncia sfide, di chi non sta sveglio all’alba, per scrutare le stelle di nuove battaglie sociali o etiche.

Resistenza, dunque, anche oggi, tessuta in mon-umenti composti verso le ragioni dei più deboli, rocce di patti giurati fra uomini liberi, riunitisi volontariamente, fatti anche di legno o di burro, dal momento che valgono entrambi più dell’oro.

francescavian@gmail.com

Nelle immagini: i due monumenti nel palazzo del Bo a Padova, foto di Maria Giovanna Occhipinti.

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