Peppino da riscoprire

-di PIERLUIGI PIETRICOLA

 

La storia dei De Filippo andrebbe totalmente riscritta. Per troppo tempo le pagine degli studi teatrali a loro dedicate sono piene del nome di Eduardo. Di Titina si parla pochissimo e limitatamente al suo rapporto con i fratelli e alla sua bravura nell’interpretare Filumena Marturano. Di Peppino, invece, si ricordano i film nei quali fu a fianco di Totò: non da spalla, è bene dirlo, ma come attore protagonista al pari del suo grandissimo compagno di scena. Ed è proprio di Peppino De Filippo che voglio parlare, approfittando della ricorrenza dei quarant’anni dalla sua morte, avvenuta dopo una lunga malattia nel 1980.

Al pari di Eduardo e Titina, Peppino De Filippo è stato un grandissimo attore. Per alcuni aspetti, più versatile e raffinato del fratello. Basta pensare al ruolo drammatico che interpretò nel Guardiano di Pinter per comprenderlo. E al pari di Eduardo, Peppino attuò nelle scene una vera e propria rivoluzione – ciò di cui, oggi, purtroppo non si parla.

Nel rivedere qualche ripresa dal vivo delle commedie che egli diresse e interpretò e che furono registrate dalla Rai tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, si vedrà apparire questa scritta: “Compagnia del teatro italiano di Peppino De Filippo”. Perché? Perché la scelta che egli fece fu quella di portare sul palcoscenico la realtà di tutti i giorni, nella sua spontaneità e senza mai ricorrere a linguaggi stereotipati che sarebbero suonati falsi, artefatti e che poco avevano da condividere con la realtà rappresentata. Per Peppino non era necessario ricorrere al dialetto per esprimere vicinanza con una certa parte di popolo. Egli sosteneva che anche esprimendosi in lingua italiana un napoletano o un senese o un romano si sarebbero fatti riconoscere. E ciò grazie ad una certa intonazione della voce; oppure in virtù di una ritmica propria di ogni regione nel pronunziare le battute e portare avanti i dialoghi. Per non parlare dei diversi modi di gesticolare, differenti da città in città – come da nazione a nazione.

Questa fu, sul piano teatrale, una grandissima rivoluzione. Ma non esiste cambiamento radicale senza un addentellato alla tradizione. E quale migliore connessione di quella con la commedia dell’arte? Pochi, forse, sono a conoscenza del fatto che Peppino De Filippo fu l’ultimo esponente della tradizione dei comici dell’arte. Di coloro, cioè, in grado di poter improvvisare per intero una commedia ricorrendo ad un canovaccio dove era abbozzata la storia da rappresentare. Basta rivedere la celebre Le metamorfosi di un suonatore ambulante per percepire la grande capacità di Peppino nel trovarsi a suo agio con lo stile della commedia in maschera, interpretando un personaggio che molto ha in comune con Pulcinella e con la recitazione all’improvviso. In tal senso, anche questa particolarità fu per il nostro grande attore un modo di riscoprire l’essenza del teatro italiano nelle particolarità che ciascuna regione, nel proprio piccolo, esprime e tramanda.

Ciò detto viene da chiedersi: perché, ancora oggi, la grandezza di Peppino De Filippo come drammaturgo fatica ad essere nota alla maggioranza dei non addetti ai lavori delle questioni teatrali? Lo testimonia il fatto che la raccolta in più volumi delle sue commedie – o farse, per meglio dire – non viene ristampata ed è di difficile reperibilità anche nel mercato del modernariato librario (ciò che, al contrario, non avviene per Eduardo).

Credo che la risposta sia da ricercarsi nel fatto che Peppino drammaturgo ha scritto senza sforzarsi di conferire un alone letterario ai suoi lavori, ma per esclusivo servizio alla scena. Leggere una sua farsa vuol dire trovarsi di fronte, in apparenza, ad una tipologia di scrittura che richiede immediata trasposizione teatrale e che, non intendendo restare sulla pagina, in apparenza non esprime qualità letterarie.

Al contrario, la scrittura drammaturgica di Eduardo possiede le caratteristiche proprie di chi crea non solo per il palcoscenico, ma con il velato desiderio di voler dar vita a qualcosa che esista anche – e forse soprattutto – indipendentemente da esso.

La forte teatralità drammaturgica di Peppino – che, va ricordato, fu anche un poeta delizioso e tutt’altro che banale – costituì un vantaggio ed un limite al contempo da sommarsi a quello rappresentato dal genere che praticò: la farsa comica.

È opinione comune che il teatro cosiddetto drammatico – votato, cioè, alla rappresentazione di tragedie – sia poeticamente più elevato rispetto a quello comico. Stereotipo falso, e che lo stesso Peppino, per tutta la vita, cercò di eliminare. Egli, difatti, sosteneva che “fare piangere è meno difficile che far ridere. Per questo, teatralmente parlando, preferisco il genere farsesco. Io sono sicuro che il dramma della nostra vita di solito si nasconde nel convulso di una risata provocata da un’azione qualsiasi, che a noi è sembrata comica”.

Questo è il Peppino De Filippo che andrebbe riscoperto. Soprattutto per rendere giustizia ad un grandissimo artista che, insieme con Eduardo e Titina e, per il resto della sua vita, individualmente, contribuì ad una delle ultime grandi rivoluzioni teatrali che il nostro paese ha avuto l’onore di esprimere e che andrebbe tramandata con decoro e rispetto per farla conoscere alle generazioni future.

pierlu83

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