Ancora sul reddito di cittadinanza

– di FRANCO CAVALLARI –

Torniamo a parlare del Reddito di cittadinanza, bandiera identitaria del Movimento 5 Stelle, un provvedimento molto controverso entrato nel tessuto giuridico del nostro Paese con il D.L. 29 gennaio 2019, n.4 e le modifiche della Legge di conversione 28 marzo 2019, n. 26. La sua attuazione, notevolmente difforme rispetto al progetto di legge depositato in Parlamento dal M5S all’epoca in cui era ancora all’opposizione, ha fatto molto discutere ed ha sollevato una serie di obiezioni. Malgrado le notevoli differenze strutturali rispetto alla proposta iniziale, concernenti principalmente la platea dei beneficiari, il costo per l’Erario e alcune particolarità dei meccanismi di erogazione, molte delle incongruenze fondamentali del progetto originario si sono trascinate nella formulazione del provvedimento attualmente in vigore.

Sono note le forti perplessità suscitate dal costo del RdC nella versione depositata in Parlamento dal M5S molto prima del marzo 2018; un progetto che si riferiva a 10 milioni di “poveri relativi”, ai quali si intendeva fornire un’integrazione al reddito fino a 780 euro mensili, per un costo valutato intorno a 15-17 Mld.  Già allora, la maggior parte degli economisti situava il costo dell’operazione tra 35 e 50 Mld l’anno, ma di questo ostacolo oggettivo si è parlato molto poco, malgrado apparisse a prima vista l’inconsistenza finanziaria della proposta. Bastava una semplice divisione per evidenziarne l’irrealizzabilità: l’insufficiente stanziamento ipotizzato (17 Mld), avrebbe consentito di erogare un sussidio medio di soli 125 euro mensili per assistito.

La versione del D.L. del gennaio 2019, inserita poi dal Governo nella legge di bilancio per il 2019, ha ridotto lo stanziamento a 6,1 Mld, più un Mld per il miglioramento delle strutture dei Centri per l’impiego, ridimensionando anche la platea dei beneficiari, passata dai 10 milioni di “poveri relativi” ai 5 milioni di “poveri assoluti”. Ma la dotazione media per assistito (rapportata a soli 8 mesi) non è molto dissimile (133 euro mensili) rispetto a quella di 125 euro di cui si è detto. Per evitare le assegnazioni indebite e le possibili truffe (ma anche in ragione dell’inadeguatezza dei fondi stanziati), le norme attuative del provvedimento prevedono “paletti” molto stretti. Ne è conseguito che non poche assegnazioni di indennità sono state di importi incredibilmente bassi (anche 40 euro mensili), mentre un certo numero di richiedenti, pur disoccupati da anni, sono stati esclusi dai benefici previsti perché possessori di 6000 euro di risparmi per tirare avanti.

Molte altre sono le criticità del provvedimento varato all’inizio del 2019: tra queste, non ultima la circostanza per cui il calcolo per differenza (fino a 780 euro mensili) rispetto ai redditi posseduti, crea un’aliquota marginale implicita di “imposizione” molto alta (fino al 100%). Si consideri, peraltro, che è sufficiente superare di un solo euro il limite previsto di 780 euro mensili per essere esclusi dai benefici della legge, per esempio dall’offerta dei tre posti di lavoro. L’insieme di queste regole di concessione contribuisce enormemente a deprimere l’offerta di lavoro regolare da parte dei lavoratori saltuari o in nero, incoraggiando il lavoro sommerso ed incentivando ulteriormente l’evasione fiscale da parte dei lavoratori autonomi.

Il consuntivo definitivo ufficiale per gli otto mesi del 2019 non è stato ancora stilato, ma alcuni pre-consuntivi predisposti dall’INPS, non precisamente riferiti al 31 dicembre 2019 (come quello del 7 gennaio c.a.), presentano i dati in modo da dare adito a interpretazioni che traggono in inganno sulle effettive prestazioni di questo strumento. Ad esempio, nei primi giorni di gennaio, ancor prima che il pre-consuntivo dell’INPS del 7 gennaio fosse diramato alla stampa, un emerito Prof. di sociologia simpatizzante del M5S, ha anticipato in modo ambiguo il rendiconto dell’anno, dichiarando che il Reddito di cittadinanza è stato un “grande successo” perché ha distribuito a 2,5 milioni di aventi diritto una media di 520 euro mensili. Come per la proposta originaria del RdC, anche qui la possibile presentazione partigiana delle cifre fa capolino: il comunicato dell’INPS parla effettivamente di 2,5 persone coinvolte, (una locuzione abbastanza misteriosa), che non corrisponde alle erogazioni; le quali, in realtà, hanno interessato poco più di 1 milione di famiglie, forse 900 mila se si sottraggono quelle relative ai  primi 7 giorni di gennaio, in parte costituite da una sola persona; ed hanno distribuito un contributo medio di 493 euro mensili a famiglia (e non a persona coinvolta), per una spesa complessiva negli otto mesi calcolabile intorno ai 4 Mld. In disparte ogni altra considerazione concernente le altre criticità, non sembra corretto parlare di un grande successo del RdC quando, in media, si sono distribuiti ai 2,5 milioni di persone coinvolte (meno di un quarto dei 10.7 milioni di poveri relativi censiti) non più di 200 euro a persona, lasciando fuori da ogni assistenza i restanti 8.2 milioni di aventi diritto.

C’è poi la questione dell’offerta dei tre posti di lavoro remunerativi, per la quale non si tiene conto del fatto che, pur ipotizzando un’irrealistica massima efficacia dei Centri per l’impiego, i posti di lavoro non si creano con i 3000 “navigator” ingaggiati (in Germania sono 110mila), ma solo aumentando significativamente i nuovi investimenti produttivi. Anche dal punto di vista etico i riferimenti valoriali del Reddito di cittadinanza risultano abbastanza deboli: considerata la conclamata carenza dell’aspetto relativo all’aumento dell’occupazione, l’istituto in parola sta chiaramente assumendo la configurazione di  uno strumento prettamente assistenziale, peraltro poco efficace data l’esigua disponibilità media di risorse per assistito, togliendo ai lavoratori, sia la dignità del reddito guadagnato con il proprio lavoro, sia la consapevolezza di partecipare attivamente allo sviluppo della società.

La validità di un provvedimento di questa natura deve essere calcolata rapportando i benefici ottenuti agli elevatissimi costi di realizzazione, vale a dire alla rinuncia ad affrontare con quelle risorse altri costi-opportunità concernenti politiche più produttive per il miglioramento sociale del Paese, quali appunto l’aumento dell’occupazione derivante da un rilancio significativo della crescita economica. In ogni caso, la chiave di lettura fondamentale di provvedimenti di spesa corrente come quelli dell’istituto in discorso, la loro valenza di strumenti efficaci ed efficienti nella lotta alla povertà e nella riduzione delle diseguaglianze risiede essenzialmente, oltre che nel volume adeguato delle risorse dedicate e nel loro raffronto con i risultati di possibili impieghi alternativi di cui si è detto, anche, e soprattutto, nella forma di finanziamento. Nel caso in cui misure sociali, pur valide, siano finanziate in disavanzo (specie in condizioni in cui l’economia stenta a produrre risorse aggiuntive), si verifica la prospettiva di una deleteria traslazione del relativo onere sulle generazioni future, provocando anche nell’immediato costosissime tensioni sui tassi di interesse del mercato finanziario. Ne conseguirebbero effetti negativi sulla crescita nella maggior parte dei casi superiori agli effetti positivi del moltiplicatore del reddito, finendo per determinare la cosiddetta “espansione restrittiva” di cui parla il Governatore della B.I. nella sua ultima relazione annuale; in definitiva, un arretramento delle condizioni sociali dei ceti meno abbienti.

Come tutti sanno, nel nostro Paese i margini di manovra per il rilancio della crescita sono molto esigui, non tanto a causa dei vincoli europei (che, pur modificati, conserveranno anche in futuro il loro carattere di “guardiani” della stabilità finanziaria complessiva), quanto in ragione dei vincoli impliciti che pone il rifinanziamento sul mercato del rinnovo del debito pubblico in scadenza. Le dimensioni abnormi del nostro indebitamento, coniugate con il clima di sfiducia dei mercati finanziari caratteristico di un contesto di eccesso di spesa corrente, possono costituire una miscela esplosiva destabilizzante ad alto potenziale.

In queste quadro d’insieme, l’impostazione economica della sinistra è chiamata a seguire strade diverse dall’assistenzialismo. Per una proficua gestione delle scarse risorse pubbliche disponibili sarà necessaria una complessa manovra di politica economica, il cui fulcro centrale dovrà essere costituito da un maggiore orientamento della spesa pubblica, sia verso un aumento degli investimenti, sia verso un incremento della produttività del lavoro e del capitale industriale. Allo scopo, sarà necessario reperire un certo volume di risorse per rilanciare finanziariamente la crescita, senza appesantire ulteriormente la situazione dei conti pubblici, gravati già dai pesanti vincoli relativi all’esigenza di un graduale rientro della nostra eccessiva posizione debitoria[1].

Lungi dall’evocare pericolosi annunci di tassazione patrimoniale generalizzata, accenniamo ancora una volta alla possibilità di una leggera tassazione “una tantum” del 2-3% sui patrimoni finanziari più elevati, ad esempio sopra i 250 mila euro, che ammontano, secondo rilevazioni della Banca d’Italia, a circa 1.600 Mld. Se ne potrebbero ricavare tra i 35 e i 50 Mld, da destinare ad un sostanziale sgravio contributivo, ad un massiccio programma di investimenti pubblici e ad azioni specifiche di incremento della produttività. Al contrario di quanto paventato dai “marginalisti”, una simile “mini patrimoniale finanziaria” non provocherebbe la temuta “desertificazione produttiva”, poiché consentirebbe di mobilizzare ai fini della crescita un certo volume di capitali poco produttivi, per costituire la “massa critica” di risorse finanziarie necessaria alla realizzazione dello sviluppo del reddito e dell’aumento dell’occupazione.

[1]     Il “Patto di stabilità e crescita” dell’U.E., sottoscritto dall’Italia nel 2014 e attualmente in via di revisione, imporrebbe per i prossimi 20 anni la riduzione di 1/20mo l’anno dell’eccedenza del rapporto Debito pubblico/PIL rispetto al parametro standard del 60%. Con un aumento del PIL monetario come quello del trend attuale (2,5% annuo, di cui 2% di inflazione e 0,5% di crescita reale), l’attuazione del Patto comporterebbe una correzione globale a prezzi attuali di 1300-1400 Mld; scaglionata in 20 anni, questa manovra presupporrebbe un avanzo primario enorme, in grado di innescare un pericoloso stallo economico. Il superamento di questo scoglio richiede un aumento nominale della crescita media di almeno il 3,5% (2% di inflazione e 1,5% di crescita reale); insieme ad un possibile incremento del parametro europeo Debito/PIL al 90% e ad un’azione europea per la stabilizzazione dei tassi di interesse, ciò consentirebbe la riduzione del maggior avanzo primario annuale necessario a non più di 12-14 Mld l’anno.

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