Verdone ironico seduttore di spettri

-di PIERLUIGI PIETRICOLA

Ho ronzato, ultimamente, attorno a Gesualdo Bufalino: epigono di una grande tradizione letteraria italiana, siciliano d’origine, il cui stile rammenta i sapori, i ritmi, le atmosfere di una stagione culturale da tempo scomparsa. Opere come Le menzogne della notte o Diceria dell’untore, pur avendo origine autobiografica, divagano poi in territori diversi. Ecco, perciò, affiorare memorie di libri; immagini di miti, metafore, leggende; lacerti di documenti che ritrovano un loro fil rouge grazie alla fantasia dell’autore che li tesse gli uni con gli altri. E non importa se il disegno che ne scaturisce poco condivide con un originale disperso in chissà quale epoca e mai più ritrovato: perché saranno i tratti impressi da Bufalino ad una determinata vicenda ad essere i più essenziali e definitivi che il lettore potrà conoscere e serbare nella memoria. Seduttore di spettri, amava definirsi il nostro scrittore. Definizione che, mi pare, ben si attaglia a Carlo Verdone.

Regista e attore brillante, amatissimo dal pubblico per i suoi film così ironici contro le assurdità e le derive che la società liquida, come la chiama Bauman, produce, Verdone è fra quegli artisti la cui nota predominante vien fuori in quegli ambiti dove raramente pubblico e critica prestano attenzione: errore madornale, perché è proprio in questi territori che la luce dell’arte – come era solito definirla Giovanni Macchia – splende senza creare ombre.

Con Bufalino, Verdone condivide la maestria nel sedurre gli spettri. Ed è questa rievocazione che sottende l’intero suo processo creativo. Più che un vizio da fustigare, egli cerca di salvare valori, passioni, speranze ormai irrimediabilmente perduti. L’ironia, velata da una certa compiaciuta severità, entra in campo per mostrare l’essenza fumosa d’una stortura che ha ormai preso il sopravvento.

Qualità, queste, che emergono con nettezza in quel bellissimo libro che è La casa sopra i portici. Non si tratta di pagine nostalgiche, né di memorie malinconiche fissate per sempre su fogli bianchi; bensì di un tentativo, romantico ma senza scadere nel bieco romanticismo, di rievocare tradizioni, ambienti, atmosfere – culturali e popolari – che possono ormai vivere solo nei ricordi di chi ne ha fatto diretta esperienza. Mutatis mutandis, Verdone ha compiuto la stessa operazione di Mario Praz ne La Casa della Vita, dove il vissuto dell’autore pian piano rimane sempre più in disparte fino a divenire elemento integrante, fondamentale e fondativo della materia del racconto.

Questa particolarità, che rende Verdone simile a Bufalino, la si apprende ancor meglio nei tanti aneddoti ed episodi che egli condivide con il pubblico nel corso di incontri o conferenze. In queste occasioni, il nostro regista-attore narra sempre episodi attingendo direttamente alla sua esperienza. Ma non ci si trova mai di fronte a racconti il cui respiro si esaurisce nel breve giro di qualche minuto. Come per ciò che scrive, il Verdone conversatore adora far entrare nelle sue narrazioni lo spirito del tempo, rievocando situazioni essenzialmente ma precisamente tratteggiate, lasciando poi all’uditorio il compito di tessere il tutto così da dar vita ad un disegno dai colori vividi e non sbiaditi dall’incedere impietoso dei decenni.

Similmente a Bufalino, gli spettri che Verdone seduce e rievoca non sono mai malinconici né  tendono ad atterrire pubblico o lettori. Al contrario, essi restituiscono anima a ciò che, inevitabilmente, Chronos sottrae. Senza questi piacevoli fantasmi, i ricordi non sarebbero altro che statue di cera: impeccabili nell’aspetto, ma privi di vita.

Ed esattamente come per Bufalino, anche per Verdone la realtà non è sufficiente. Essa, semmai, è un fantoccio travestito da spogliare degli abiti falsi che indossa e coi quali strega gli uomini per poi ridargli, con l’ausilio della fantasia e della memoria, vestiti più consoni così da renderlo piacevole compagno delle nostre vite.

C’è un aforisma, bellissimo, di Bufalino: “L’immaginazione è ‘la pazza di casa’, m’insegnarono al liceo. La realtà è peggio, risposi: è la scema del villaggio”. Anche per Verdone, mi piace immaginare, è lo stesso. Con la sola differenza che egli preferisce prendere con sé questa pazza e guarirla attraverso l’ironia, l’invenzione giocosa, il ricordo rivissuto.

In tal senso non v’è dubbio alcuno che gli spettri sedotti ed evocati da Carlo Verdone, benché simili per origini e scopi, siano diversi da quelli di Gesualdo Bufalino, perché più allegri, meno cupi e pieni di luce.

pierlu83

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