In morte di un magistrato d’altri tempi

– di EDOARDO CRISAFULLI –

A distanza di qualche giorno dal lutto – Francesco Saverio Borrelli è mancato il 20 luglio scorso – forse si può fare un ragionamento pacato. Anzitutto scindiamo l’ex Procuratore generale di Milano nonché capo del pool Mani pulite dall’uomo, dalla persona. In questo momento devono prevalere il rispetto e il cordoglio. E, aggiungerei, il perdono. Parlo, qui, a nome delle vittime innocenti del furore giustizialista.

Evitiamo poi di appiattire il giudizio su una sola stagione, sia pure la più significativa (professionalmente parlando), della sua vita pubblica: Mani Pulite. C’è, insomma, un prima e un dopo. Non mi pare che l’ultimo Borrelli sia stato un apologeta acritico di quella stagione. Tutt’altro. Gli uomini possono avere ripensamenti, e financo pentirsi delle loro azioni.

Il problema, si sa, è che la vulgata imperante vede in Mani Pulite un evento mitico, di riscossa nazionale, un nuovo Risorgimento ‘moralizzatore’ – come ripeteva, senza provar vergogna, Giorgio Bocca. Di qua un’Italia onesta e immacolata: il popolo, il PCI, le aziende taglieggiate; di là i corrotti e corruttori, ovvero le sanguisughe: i politici di governo, appunto. All’orizzonte si staglia la figura del principe luciferino Bettino Craxi. A poco serve contrapporre a questa visione moralistica una critica politica ragionata, come ho fatto nel mio libro Le ceneri di Craxi: si viene sommersi da sberleffi o peggio. Eppure, a quasi un trentennio dai fatti, sarebbe ora di rileggere con occhi disincantati Mani Pulite: le ripetute offese allo Stato di diritto, la custodia cautelare usata come mezzo per estorcere confessioni-delazioni (il sinistro tintinnio di manette che anche Oscar Luigi Scalfaro stigmatizzò), la vergognosa sinergia con la stampa giustizialista, cui veniva dato in pasto il bollettino quotidiano degli inquisiti in barba ai principi di civiltà giuridica (la presunzione era di colpevolezza, giammai di innocenza), i processi ‘popolari’ condotti dai tribuni della plebe in TV. Alla luce di tutto ciò, l’espressione golpe mediatico-giudiziario non sembra affatto fuori luogo.

Non dimenticherò mai il tragico suicidio del deputato socialista Sergio Moroni e quello del Presidente ENI Gabriele Cagliari, seguiti da commenti sprezzanti e da applausi scroscianti. Fu, quello, uno dei punti più bassi e vergognosi della storia repubblicana. Sarebbe ora di riflettere sine ira et studio. Perché non si è voluto distinguere fra finanziamento illecito alla politica e corruzione vera e propria (c’era chi intascava le tangenti, cioè rubava)? Quanti politici indagati e finiti sotto processo sono stati poi assolti? Chi aveva ragione, l’accusa, o il giudice che assolveva? Chi ha risarcito il danno d’immagine agli imputati, visto che l’assoluzione arrivava dopo anni di martirio mediatico? Perché le indagini colpirono, con esattezza chirurgica, solo i politici del pentapartito? Perché la fecero franca la FIAT e i grandi gruppi industriali, che avevano finanziato illegalmente la politica per oltre quarant’anni di vita repubblicana? A dir il vero, qualche illustre pentito di quell’ordalia giustizialista c’è, questo va riconosciuto. Meglio tardi che mai. Fra tutti spicca il giornalista Piero Sansonetti, che ha saputo fare autocritica, rivalutando anche la figura di Bettino Craxi, nome tuttora impronunciabile in certi ambienti politici.

Preciso che non ho mai creduto in un complotto ordito da toghe rosse, bensì in una mirata operazione politica concepita ai massimi livelli tesa a liquidare un’intera classe dirigente che credeva fermamente nel primato della politica e dello Stato. Questo era il cuore del problema, non la corruzione. Si saldarono interessi internazionali e nazionali. I socialisti, in particolare, avevano due aggravanti: non piegavano il capo a diktat stranieri (il Craxi di Sigonella mica respingeva barconi di disgraziati…) e intralciavano gli scalpitanti spiriti animali del capitalismo italiano. I magistrati rampanti del Pool, insomma, furono solo le teste d’ariete nell’ambito di un disegno politico più vasto. È sacrosantamente giusto puntare il dito contro i loro eccessi, ma i veri responsabili dell’ordalia giustizialista furono altri: i poteri forti dell’economia e, soprattutto, quei politici dell’opposizione che cavalcarono la tigre sperando di usurpare per via giudiziaria il ruolo che altri svolgevano legittimamente, sulla base di maggioranze parlamentari. Fra i politici opportunisti figurano comunisti, leghisti, postfascisti di AN. Le nemesi c’è stata, e colpirà anche chi finora l’ha scampata: chi semina vento raccoglie la tempesta.

Ma voglio andar oltre queste considerazioni. Francesco Saverio Borrelli merita qualche parola in più. L’ho conosciuto a Tokyo, saranno otto-nove anni fa. Eravamo a cena in un bel ristorante di quella metropoli: io ero il vicedirettore dell’Istituto Italiano di Cultura, lui il membro d’onore di un Comitato che valutava cantanti d’opera. Ho scoperto in quell’occasione un personaggio straordinario, elegante, dai modi affabili, coltissimo (non sapevo fosse un esperto internazionale di musica lirica e classica). A un certo punto, con mio imbarazzo, quel burlone del direttore dell’Istituto di Cultura, Umberto Donati, gli dice ‘ma lo sa, signor giudice, chi ha di fronte a sé? L’autore di una biografia elogiativa di Craxi’. Credevo ne sarebbe scaturito uno scambio di battute al vetriolo. E invece lui, cortese, senza scomporsi, disse cose significative, che si sono impresse nella memoria. Le ho segnate su un taccuino a fine cena, e ora ve le riporto testualmente. “Io non ho mai avuto nulla contro la persona e la figura di Bettino Craxi. Più di tanto non me la sento di pronunciarmi: del resto, non mi pare vi sia ancora un giudizio unanime fra gli storici sul significato della sua azione politica. In ogni caso, io sono sono un giudice, non uno storico.” Pausa, come se cercasse le parole per terminare nel modo giusto. “Bisognerebbe riflettere sul giudizio del collega D’Ambrosio: la molla di Craxi era la passione politica.”

            Ho trovato molto ‘laica’ e metodologicamente corretta questa distinzione fra il giudice e lo storico: troppi magistrati, in questi anni, si sono improvvisati adepti di quella bizzarra disciplina che Carlo Ginzburg, uno dei più grandi storici italiani, bolla come ‘storiografia giudiziaria’. In quel giudizio finale dell’ex Procuratore generale di Milano ho letto anche una sorta di onore delle armi a un politico che, forse, non è stato sconfitto dalla storia. Credo volesse dir di più, ma si sia trattenuto per una sorta di decoro: di certo mi prese in contropiede, e io non riuscii a profferire parola.

In un’altra occasione, Francesco Saverio Borrelli si è spinto ben più in là: nel 2011 (quindi siamo più o meno nel periodo della cena nipponica), alla presentazione di un libro inchiesta sul Bunga Bunga di Berlusconi, pronunciò da par suo parole sobriamente rivoluzionarie: “Mi scuso per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. Il personaggio mito di Mani Pulite più di così non poteva dire. A noi basta e avanza. Lui, probabilmente, pensava alla corruzione che ha continuato a proliferare come e più di prima. Io penso anche alla nostra povera economia: ai tempi della Prima Repubblica aveva il vento in poppa, oggi è alla deriva. Le grandi famiglie capitalistiche – proprietari dei giornali che sparavano bordate contro il pentapartito, la partitocrazia vorace – lanciavano accorati appelli al popolo italiano: liberateci dalla servitù della politica, e l’economia italiana spiccherà il balzo. È stato così, cari concittadini? Sono passati quasi trent’anni anni da quelle roboanti promesse. Il capitalismo italiano è diventato più virtuoso, ha investito sull’innovazione, ha creato nuovi posti di lavoro in Italia? Anziché scannarci sull’interpretazione di Mani Pulite, fra ex comunisti e socialisti, partiamo da queste domande. E soprattutto meditiamo sul revisionismo di un grande magistrato, Francesco Saverio Borrelli.

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