Il rapporto Svimez e il mezzogiorno

-di MAURIZIO BALLISTRERI-

Dalle prime anticipazioni del Rapporto Svimez 2018 sull’economia e la società del nostro Mezzogiorno si conferma, purtroppo, il negativo quadro degli anni passati.

Il primo dato che emerge dal Rapporto è che dal 2008, l’anno in cui inizia la “grande crisi mondiale”,l’economia italiana non è ritornata neppure ai livelli dell’inizio del decennio trascorso, un triste primato che l’Italia in Europa condivide con la sola Grecia. La conseguenza, ben visibile, è che le emergenze sociali già esistenti si sono dilatate drammaticamente nel nostro Paese, martoriando sempre più il Sud e il suo fragile tessuto produttivo e occupazionale.

Infatti, secondo la Svimez: “Nel Mezzogiorno si delinea una netta cesura tra dinamica economica che, seppur in rallentamento, ha ripreso a muoversi dopo la crisi, e una dinamica sociale che tende a escludere una quota crescente di cittadini dal mercato del lavoro, ampliando le sacche di povertà e di disagio a nuove fasce della popolazione”, soprattutto nelle periferie delle grandi aree metropolitane.

Il secondo dato, conseguenza del primo, è che nel decennio considerato il divario tra l’Italia e il resto dell’Europa, con una simmetricità tra il Nord che perde terreno e competitività rispetto alla altri grandi nazioni più industrializzate e il Sud in crisi financo rispetto alle altre periferie europee. L’Italia nel suo complesso cresce a ritmi molto bassi e ciò fa sì che i divari regionali rimangano invariati. Né vale evidenziare che al Sud si registra un aumento, di piccola entità, del Pil per abitante, poiché esso scaturisce dalla diminuzione della popolazione, con il grave fenomeno della emigrazione giovanile dotata di notevole know-how, verso il Nord e, soprattutto, i paesi esteri. Il drammatico quadro dai dati: il numero di famiglie meridionali senza nessun lavoratore occupato è cresciuto nel 2016 e nel 2017 in media del 2% all’anno. Dal 2010 a oggi sono quasi raddoppiate, al Sud, le famiglie con tutti i componenti in cerca di occupazione (da 362 mila a 600mila), mentre notevole è l’incidenza dell’andamento demografico, che vede il peso del Mezzogiorno scendere al 34,2%, anche per il minor numero di stranieri (nel 2017 erano 872 mila contro i 4 milioni 272mila del Centro-Nord).

Né nel Documento di Economia e Finanza predisposto dal governo sono ravvisabili interventi strutturali per il rilancio del Sud, a petto delle dichiarazioni di un governo che sostiene di interpretare l’unità nazionale con la bandiera del cosiddetto “sovranismo nei confronti dell’Europa. Una vera politica meridionalista, al di fuori delle stereotipate affermazioni di principio, fondata sull’unità del paese, sociale ed economica, deve partire dalla complementarietà che lega Sud e Nord del Paese, considerato che esse sono aree strutturalmente diverse ma interdipendenti e, in definitiva, integrate, come testimonia la circostanza che crescono, ovvero arretrano, insieme. Si pensi solo a un dato: un percentuale certamente non residuale, secondo la Svimezil 14%, del Prodotto interni lordo del Centro-Nord deriva dalla domanda di beni e servizi del Sud; così come le produzioni del Mezzogiorno hanno come mercato di sbocco il Centro-Nord.

Integrare il Sud al Nord dunque, non solo come obbligo democratico e di solidarietà sociale ma anche come interesse per tutto il Paese, partendo dagli investimenti in infrastrutture, materiali e immateriali: altro che “reddito di cittadinanza” che servirebbe solo ad obnubilare le coscienze delle persone, in una sorta di deriva “messicana”.

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