Spread ed economia reale non sono così distanti

– di FEDERICO MARCANGELI –

In quest’ultimo periodo (come in altri della storia recente), la parola “Spread” si aggira tra le news e le voci dei politici. Soprattutto dal governo si levano pareri di sfida ai “mercati”, visti come un demonio pronto a fagocitare nazioni ed esseri umani come se non ci fosse un domani. Salvini è il primo ad ergersi a paladino anti-spread “Spread a 300? Siamo allo scontro tra economia reale e quella virtuale”, con Di Maio che da agosto ha incalzato “Non ci facciamo ricattare dal mercato”. Il primo errore che si compie è quello di utilizzare la parola “mercati”, vedendola come sinonimo di “speculatori”, cosa che, ovviamente, non è. Il mercato è composto da tutti: dal grande hedge found alla vecchietta che compra i titoli di stato alla posta, passando per i fondi pensione dei lavoratori. Se si considera il concetto sotto questa luce, si capisce bene che non esiste una volontà unica del mercato, ma tanti attori che agiscono per vari scopi (speculare, salvaguardare il risparmio, investire piccole somme per il futuro ecc). Inoltre, se si decide di effettuare spesa a deficit, chiedendo soldi ai mercati, appare quantomai curioso il volersene “fregare” degli stessi. Fatta questa premessa, che già da sola smonta molte delle dichiarazioni populiste di questo periodo, passiamo a parlare del famoso spread. Come molti sapranno, è il differenziale di rendimento tra i titoli di stato decennali italiani e tedeschi (BTP e BUND), presi a riferimento per via della grande stabilità della Germania. Più è alto il rendimento del titolo e più ad una nazione costano i prestiti ricevuti, perché i tassi che dovrà garantire saranno più alti. Ma perché salgono questi tassi? Essi variano in base alla fiducia degli investtori e cioè in base alla loro propensione ad acquistare da quel determinato stato. Una nazione come la Germania non avrà probemi a piazzare i suoi Bund a tassi bassi, perché il rischio di default è zero (per via di un debito basso ed un pil molto alto), mentre l’Italia ha una percentuale di rischio più alta. Per questo motivo l’investitore dovrà essere incentivato ad acquistare, attraverso un rendimento superiore. La spiegazione è molto semplificata, ma a grandi linee funziona così il mercato primario dei titoli (cioè quelli venduti direttamente dallo stato). E’ un pò come se voi andaste a comprare una macchina ed il venditore vi proponesse un grande marchio affidabile (Germania) ed uno meno consolidato (l’Italia); ovviamente vorreste uno sconto maggiore (un incentivo appunto) sulla macchina meno “famosa”, perché vi starete prendendo un rischio maggiore. Direi che sarebbe una richiesta logica da parte vostra. Emerge quindi il primo legame tra economia reale e spread: i costi per lo stato. Più lo spread sale e più l’Italia pagherà il denaro sul lungo periodo, generando costi e debito. Quindi meno investimenti e servizi, per spendere meno, oppure sempre maggiori richieste di denaro sul mercato per finanziare spese ed interessi. Ma lo spread si riflette molto anche nel breve periodo, forse in mondo ancora più aggressivo. Le banche italiane detengono infatti circa 370 miliardi di titoli di stato italiani ed ogni aumento di rendimento genera una perdita nel valore complessivo delle stesse. Senza entrare in tecnicismi, il valore dei titoli bancari si aggiorna giornalmente in base ad asset e titoli posseduti, contraendosi ed espandendosi in base al valore degli stessi. Un titolo di stato che guadagna rendimento rispetto alla data d’acquisto genera una sofferenza nella banca. Se acquisto un BTP con rendimento al 3% ed esso raggiunge quota 3,5% io starò generando una perdita pari al differenziale tra i due rendimenti perché, se decidessi di venderlo sul mercato secondario, il suo valore sarà più basso di quello al quale l’ho acquistato. Questo vale per le banche come per i privati. Chiunque abbia comprato 10’000€ di BTP a Maggio, se li dovesse rivendere oggi varrebbero meno di 8’500€. Per le banche questo problema si ingigantisce, perché esse devono garantire un tasso di capitalizzazione minima (stabilito dall’UE), necessario per non collassare in caso di insolvenza di parte dei clienti. In caso di eccessiva perdita di valore dei titoli di stato posseduti (che in molti stimano a spread 400-42) esse dovranno quindi porre dei rimedi: diminuire la loro esposizione o ricapitalizzare. La seconda opzione è molto complicata in un periodo di crisi come questo, perché difficilmente gli azionisti saranno disposti ad immettere capitale fresco. Non rimane che la prima ipotesi e cioè una diminuzione del credito a imprese e privati (meno credito uguale meno rischi per le banche). Questo scenario è già avvenuto in passato e si è riversato drasticamente sull’economia reale, portando ad un abbattimento degli investimenti privati e pubblici (meno si produce, meno lo stato incassa ed spende), con una conseguente contrazione del PIL.
In questo scenario, lo spread appare quantomani legato all’economia reale, rappresentata dalle imprese e dai cittadini. Non si deve avere questo come unico faro della politica ma, in una pianificazione seria, si deve tenere conto dell’effetto che esso ha sul risparmio e sul credito, altrimenti si è destinati a fallire miseramente.

immagine di copertina de “il sole 24 ore”

 

federicomarcangeli

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