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E col bikini le donne cominciarono a liberarsi

-di VALENTINA BOMBARDIERI-

Settantadue fa, nel 1946, Louise Read inventò il bikini, paragonandolo per importanza alla bomba atomica, che pochi giorni prima era stata testata dagli americani nell’atollo di Bikini. La scelta del nome si rifà all’effetto “esplosivo” che provocò all’esordio, anche al disappunto che suscitò in un mondo ancora piuttosto bacchettone, la prima volta che venne indossato in pubblico. Un fatto di straordinaria “licenziosità” o, se vogliamo, un momento del grande libro dedicato alla liberazione dei costumi, soprattutto di quelli femminili: la donna mostrava l’ombelico e copriva, come dire, l’essenziale. Ci furono, ovviamente, bikini che entrarono nel mito. Quelli di Brigitte Bardot esibiti a Saint Tropez. O, ancor di più, Ursula Andress, lei sì esplosiva Bond Girl, da alcuni definita la migliore invenzione svizzera dopo l’orologio a cucù.

Nei primi anni del Novecento il costume era una tunica abbinata a un paio di pantaloni attillati che poi piano piano permettevano di scoprire gambe e braccia. Più si andava avanti più le misure gradualmente si riducevano; solo negli anni Venti le donne in spiaggia cominciarono a mostrare le gambe.

E proprio in quel periodo la stilista Coco Chanel lanciò per le donne i pantaloncini sopra al ginocchio. L’abbronzatura era poco apprezzata. Lo scoprirsi delle donne fu una vera e propria rivoluzione copernicana, la libertà e la possibilità di mostrare il proprio fisico era in quel momento storico una grande vittoria.

A volte poi la storia la fa anche un capo di abbigliamento, soprattutto quando si associa a latenti sommovimenti sociali. Il bikini a questi sommovimenti si legò, diede, è proprio il caso di dirlo, forma. Ma la stessa cosa accadde poco meno di vent’anni dopo con la minigonna, straordinaria invenzione di Mary Quant, oggetto tanto di culto da essere utilizzato come un indicatore economico nel senso che, stando all’osservazioni dei cicli, le gonne si accorciano quando siamo in periodi di crisi e si allungano in fasi di abbondanza. Ma al di là degli aspetti di contorno, la trasformazione dell’immagine femminile anche attraverso l’abbigliamento ha scandito i passaggi storici verso l’emancipazione. Verso un nuovo modo di concepire il mondo, più libero e meno patriarcale. Anni dopo il bikini e la minigonna sarebbe arrivato Woodstock, i figli dei fiori, i reggiseni rifiutati al pari delle antiche cinture di castità. All’epoca, finita la guerra, con le macerie ancora fumanti e i quattrini che scarseggiavano, moltissime donne cominciarono coraggiosamente a indossare il bikini anche come segnale di ottimismo, di ritorno alla vita, sfidando i benpensanti in numero come sempre superiore alle necessità (ammesso e non concesso che ve ne siano).

Il messaggio, forse neanche troppo consapevole, che quei due striminziti pezzi di stoffa lanciarono a partire da quel 1946 conteneva il bisogno di voltare pagina, dopo una “carneficina” tremenda e le difficoltà di una ricostruzione che in Europa fu decisamente impegnativa. Il bikini rappresentava un diritto collettivo a rivedere le rigidissime regole che imponevano a tutti come vestire, comportarsi, mostrare e mostrarsi, comunicare sé stessi e, quel che è peggio, cosa fare e non fare nell’intimità.

Come cantavano Sabrina Salerno e Jo Squillo parecchi anni dopo al festival di Sanremo: “Siamo donne, oltre alle gambe c’è di più”.

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