Enrico Berlinguer, quando si spense un leader e nacque il “mito”

L’11 giugno del 1984 nell’ospedale di Padova si spense Enrico Berlinguer, segretario generale del Partito Comunista, probabilmente il più amato. Era stato colpito da un ictus quattro giorni prima mentre pronunciava un discorso in vista delle elezioni Europee che per la prima volta avrebbero consegnato al Pci la maggioranza relativa dei consensi, superando la Dc. Vogliamo ricordarlo con il capitolo del libro “il divorzio di San Valentino. Così la scala mobile divise l’Italia”.

-di GIORGIO BENVENUTO E ANTONIO MAGLIE*-

Quella sera, a piazza dei Frutti davanti alla colonna romanica che è uno dei simboli della città, la storia si è fermata, insieme alla vita di un uomo. Le parole faticavano a farsi suono, si impigliavano come i pesci in una rete. «Accesso al lavoro, alle professioni, alle carriere…» Si tolse gli occhiali mostrando un volto segnato dalla sofferenza; bevve un po’ d’acqua. E continuò: «Invito…» Ancora una pausa, la folla che urlava il suo nome capendo che qualcosa non andava. Gli chiesero di fermarsi: «Basta, basta». Antonio Tatò provò a portarlo via. Ma lui continuò: «Impegnatevi tutti in questi pochi giorni che ci separano dal voto, con lo slancio e la passione che sempre i comunisti hanno dimostrato nei momenti cruciali della vita politica…» Un’altra interminabile, drammatica pausa. «Lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada, dialogando con i cittadini». Natalia Gizburg, poi, scrisse di una “bella morte”. E probabilmente non aveva tutti i torti: tra la gente e con la gente, come si conviene a un uomo politico, a un grande uomo politico. Perché si può essere o meno d’accordo con le scelte di Enrico Berlinguer, con le spigolosità di questo sardo riservato, quasi scolpito nel granito delle coste della Gallura, ma non si può certo dire che non abbia segnato un’epoca, ingaggiato con Aldo Moro, Bettino Craxi, Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini e Ciriaco De Mita confronti, rapporti, scontri che avevano il sapore della Grande Politica, qualcosa a cui forse ci siamo disabituati. Probabilmente oggi Berlinguer sarebbe in difficoltà in un dibattito che si esalta nelle battute (e lui non era certo un “battutista” né un campione d’ironia), che si modella sui tempi televisivi (e lui, invece, aveva bisogno di argomentare come quasi tutti i politici della sua epoca), che si alimenta di slogan dimenticando spesso i contenuti (e lui, al di là delle valutazioni, era uno che andava a Mosca per “festeggiare” il sessantesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre e spiegava, a una platea che aveva non poche difficoltà ad assecondarlo, che il soffio positivo di quegli accadimenti era andato ormai disperso). Quella sera, in quella piazza dove ancora oggi si mercanteggia in frutta e verdura, non si fermò solo la storia di un uomo, si fermò la storia di un partito, di uno schieramento, di un Paese. Perché non sapremo mai cosa sarebbe accaduto dopo. Non sapremo mai, ad esempio, se sulla Scala Mobile sarebbe andato dritto per la sua strada verso il referendum. Ne parleremo, più avanti, in questo libro. Ma è forte l’impressione che gli ultimi passaggi parlamentari, il provvedimento licenziato dalle Camere, avevano creato qualche breccia. E lui che era un vero uomo politico, quelle brecce le avrebbe probabilmente allargate per evitare una prova di forza nelle urne che era pericolosa per tutti, anche per lui e per il Pci. Lui e lui solo aveva la pietra filosofale, il filo di Arianna; lui e lui solo avrebbe potuto cambiare l’ultimo capitolo del racconto, continuando a duellare con Bettino Craxi, alimentando una nemmeno tanto cordiale inimicizia, fondata su diversità che non erano solo politiche ma anche caratteriali. Impersonavano mondi differenti, avevano anche stazze differenti: Berlinguer minuto, tanto minuto da apparire indifeso; Craxi imponente, tanto imponente da apparire inarginabile. Ha scritto in un libro Giorgio Benvenuto: «La scomparsa di Berlinguer ha complicato la situazione. Lui avrebbe trovato sicuramente un modo per uscire da quella strettoia. Ma chi arrivò dopo di lui (Alessandro Natta, n.d.a.) non riuscì a trovare il bandolo della matassa e sì che ci furono incontri, contatti, tentativi».

Come sarebbe andata la storia non lo sapremo mai. Ma oggi, a tanti anni di distanza, possiamo guardare a chi quella storia la scrisse con un atteggiamento più distaccato. Le passioni di allora sono diventate ricordi; i partiti di allora sono diventati immagini del nostro album di famiglia (delle diverse famiglie); i protagonisti di allora (tranne uno, Ciriaco De Mita) parlano ormai attraverso scelte, comportamenti, prese di posizione che si sono storicizzate. Insomma, ci sono tutte le condizioni per guardare gli uomini e le cose rifuggendo da quello spirito da stadio che ci trasforma in ultrà. Perché, da questo punto di vista, forse aveva ragione un altro controverso protagonista di quegli anni, Giulio Andreotti, quando diceva: «Né santi né demòni, Siamo tutti medi peccatori». La vicenda umana di Berlinguer è finita in quella piazza, davanti a migliaia di persone che gli chiedevano, implorandolo, di chiudere quel discorso, di non trasformare quel palco nel suo personalissimo Golgota. Perciò non sappiamo quel che avrebbe fatto dopo quel 7 giugno 1984. Sappiamo, però, che le condizioni cambiarono e nemmeno tanto lentamente. Sappiamo che il Muro di Berlino crollò seppellendo il socialismo reale, i partiti comunisti così come si erano formati in quel lungo tratto di Novecento. Lui che aveva colto l’involuzione, che aveva capito, pur non portando mai quella critica alle conseguenze finali, cioè all’approdo alla socialdemocrazia vista come una malattia da evitare a tutti i costi, cosa avrebbe fatto? Sarebbe stato più lesto dei suoi successori a cambiare il nome della Ditta, semmai a modificarne anche la ragione sociale? O sarebbe rimasto bloccato sul confine di una alternativa democratica che considerava contaminante il rapporto con i socialisti e un governo degli onesti che era più l’evocazione di una speranza (che le troppe vicende di malversazione della Seconda Repubblica hanno provveduto da un lato a irrobustire ma dall’altro a rendere più inafferrabile dell’araba fenice) che una strategia reale per il governo del Paese?

Si sarebbe ritrovato a fare i conti con un mondo nuovo, senza confini e, probabilmente più inquieto (non è un caso che tra i pochi che non festeggiarono la frana berlinese ci fosse proprio Andreotti che considerava quel Muro una sorta di rassicurante salvagente); una sinistra con qualche (molte) ideologie in meno ma anche tanti bisogni in più a cui dare risposte. «Con la fiducia per le battaglie che abbiamo fatto, per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo, è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del progresso della nostra civiltà». Le ultime frasi di quel comizio, pronunciate faticosamente, forse non del tutto comprese da chi quella sera era in quella piazza e partecipava a un dramma che coinvolgeva l’intero Paese, sono più che il testamento politico, l’epitaffio. In qualche misura sembrano, anche quelle parole, di un’altra epoca, sicuramente di un altro secolo visto che abbiamo voltato pagina e siamo arrivati al 2000 mentre in quell’anno ci si arrovellava sulle profezie di Orwell e del suo “1984”.

Non c’erano ancora i telefonini, i computer erano grandi quanto i vecchi registratori di cassa e Usa e Urss facevano a gara a chi piazzava il maggior numero di missili a testata nucleare. La minaccia di una guerra globale ora non c’è più ma l’insicurezza (anche se non si sa sino a che punto fondatamente) cresce e le Torri Gemelle ci hanno fatto fare la conoscenza di un’altra guerra, quella combattuta dal terrorismo internazionale. Viviamo in un mondo perennemente connesso ma ci ritroviamo a fare i conti con una crisi che non sappiamo quanto durerà, che avrà bisogno di vent’anni per restituirci i posti di lavoro che avevamo prima del 2008 e che nel frattempo non ha semplicemente distrutto occupazione ma ha cancellato lavori aumentando l’angoscia di chi è disoccupato perché sa che non potrà fare più quello che faceva prima e non perché non voglia farlo ma solo perché non gli daranno più l’opportunità di farlo.

Ma quella sera ha spazzato via anche un’altra risposta: davanti alla fine del Mondo diviso in blocchi, alla fine di “un’Italia di confine”, davanti alla possibilità di provare a ricomporre la sinistra cosa avrebbe fatto? E in presenza di un ripensamento di Craxi, sempre per i medesimi motivi, e a una conseguente apertura verso la ricerca di nuove strade politiche essendo venuta meno l’ingessatura della Guerra Fredda, avrebbe provato a instaurare un rapporto diverso con il suo “nemico”? Certo, non sarebbe stato semplice anche perché, nelle sue orecchie, qualcuno, sussurrando, alimentava quella sua istintiva diffidenza verso il leader del Psi. La vicenda di San Valentino, alla resa dei conti, peggiorò solo (e nemmeno di tanto) una situazione che già esisteva.

Basta rileggere questa nota di Antonio Tatò per capire. È datata 18 luglio 1978, San Valentino sarebbe arrivato solo sei anni dopo. Scriveva Tatò: «Carissimo Enrico, non avendo qui altra occupazione che quella di pensare, leggere e non parlare, mi è venuto di scriverti per impiegare un po’ più degnamente questa giornata di degenza in clinica, dopo aver guardato con attenzione le 27 pagine della “rassegna stampa” di oggi, che mi sono fatto portare. La nota di Angius sul Popolo, le interviste e i discorsi di Bisaglia, Romita, Craxi, i commenti al tuo discorso di Arezzo, le conversazioni dei nostri Segre e Adornato sui processi in Urss, la risposta (sia pure di un quidam come Puletti) dalle colonne dell’Umanità all’articolo di Reichlin di domenica, l’articolo della Voce Repubblicana e quello del Popolo sul Pci e i processi sovietici… e mi fermo per non tediarti, danno nuovi tocchi al panorama politico e all’operazione che si va delineando, che si incentra, e collima, in gran parte nel disegno di Craxi. Su quale giudizio dare di costui, credo non ci siano disparità di vedute o dissensi nel nostro attuale gruppo dirigente di partito. Tutti i compagni della Segretaria convengono – a quattr’occhi – che Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, uno spregiudicato calcolatore del proprio esclusivo tornaconto, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, del tutto estraneo alla classe operaia, ai lavoratori, ai loro profondi e reali interessi, ideali e aspirazioni. Craxi è un nemico dell’unità operaia e sindacale, è un nemico nostro e della Cgil, della segreteria Zaccagniniana, della politica di La Malfa-Biasini, ed è, invece, amico di Benvenuto e di Mattina, di Bisaglia e di Fanfani, di Donat Cattin e di De Carolis, di Umberto Agnelli e dei “cento”, dei Pannella e dei Guiso. Tralascio le sue lucrose amicizie interne e, soprattutto, internazionali. Con Craxi appare in Italia – in questa Italia fine anni ‘70 che sta nel pieno di una crisi massima – un personaggio quale ancora non si era visto in più di 30 anni di vita democratica, un bandito politico di alto livello. È anch’egli un portato della decadenza della nostra vita pubblica, un segno dell’inquinamento esteso del nostro personale politico. Craxi è anzi uno dei più micidiali propagatori dei due morbi che stanno invadendo la sinistra italiana – l’irrazionalismo e l’opportunismo – e che il maggior partito della classe operaia ha il dovere di combattere e di debellare. Ma non è facile, perché il metodo e lo stile di Craxi hanno sorpreso e sorprendono un po’ tutti, almeno fino ad ora. Il suo comportamento sfrontato, provocatorio, temerario, fazioso, violento, ma che proprio per questo può sembrare “forte”, e quindi può intimidire partners e avversari, può persino suscitare ammirazione, se non approvazione: dileggio della correttezza verso le regole del gioco, prontezza nel violare ogni impegno di onore, camaleontismo, disinvoltura nel passare dall’insulto volgare all’adulazione più untuosa verso lo stesso partito o la stessa persona nel giro di ventiquattr’ore, o nel passare dalla protervia dell’aggressore al lamento di chi si fa vittima».

È evidente che l’analisi politica è sovrastata dalla valutazione, come dire, epidermica. L’affresco della personalità di Craxi nelle ultime battute (vittimismo, untuosità) appare molto lontano da quel che il segretario socialista effettivamente era, aveva molti altri difetti ma non quelli enumerati in ultimo da Tatò. Nella Cgil non tutti lo consideravano un “nemico”: Lama, che era il capo, aveva con Craxi ottimi rapporti; l’area socialista certo non aveva relazioni conflittuali e alla resa dei conti la confederazione di cui parla Tatò è quella rappresentata dagli “ortodossi”, cioè dagli Scheda e dai Garavini; la Uil di Giorgio Benvenuto era per idealità e valori laici più prossima alla Cgil che alla Cisl ed Enzo Mattina era addirittura considerato un “amico” dei comunisti. Si ha quasi l’impressione che una parte di quei contrasti, probabilmente non quella determinante, sia stata prodotta da atteggiamenti pregiudiziali, anzi da veri e propri pregiudizi. Quella drammatica serata ha cancellato tutti i dubbi. Nella maniera peggiore, nel senso che non ha dato alla storia una nuova chance, ha chiuso i conti e consegnato agli archivi una inimicizia che è diventata anche il problema della sinistra italiana, perennemente a metà del guado, incerta su tutto, interessata alle alleanze ma non a una definizione strategica della sua identità, schiacciata sul presente ma poco incline a definire un progetto di futuro, a proporre una visione, a indicare un orizzonte.

Berlinguer era fatto per non intendersi con Craxi. Ed è questo il dato che è rimasto. Eppure, se si rivedono le immagini del funerale di piazza San Giovanni, mentre Nilde Iotti rivolge un ringraziamento al Capo dello Stato («Voglio dire dal profondo del cuore, grazie Presidente Pertini per quello che hai fatto in questi giorni tragici, per come sei voluto stare accanto a Enrico, alla sua famiglia, a tutti noi, per l’affetto generoso che hai testimoniato cogliendo i travagli così profondi degli uomini e delle loro ragioni ideali»), si vede un Craxi commosso, che sembra asciugarsi gli occhi. Antonio Ghirelli che fu il capo-ufficio stampa di Craxi negli anni della presidenza del Consiglio, quindi anche in quel giugno del 1984, ha raccontato la reazione del leader socialista alla notizia della morte, confermando quella impressione. Erano a Madrid e alle 12,56 l’Ansa diede la notizia. Ghirelli prese il dispaccio d’agenzia e, in albergo, lo diede a Craxi: «Glielo consegnai in silenzio. Lo prese, lo lesse senza dire una parola. Poi lo vidi piangere. Uscii subito, dopo un suo gesto del tipo “vai via, lasciami solo”. Anche io ero commosso. Eravamo lì per un incontro bilaterale Italia-Spagna. Fu un momento molto particolare. Craxi aveva un carattere strano, passionale, siciliano. E pensare che eravamo proprio nel pieno della questione “scala mobile” e i rapporti con il Pci erano molto, molto tesi». Erano talmente tesi che quando domenica 10 giugno, prima di partire per la Spagna, Craxi, di ritorno da Londra, passò a trovare Berlinguer, in coma ormai da molte ore, il fratello, Giovanni, andò a parlare con i militanti che stazionavano davanti all’ospedale per invitarli a non contestarlo; la famiglia preferì non incrociarlo. In realtà le contestazioni ci furono ugualmente. Massimo D’Alema ha raccontato quella visita, soprattutto ha riportato quel che disse il “nemico”: «Mi spiace che tutto questo sia accaduto mentre tra noi è in corso un litigio. Conosco Enrico da trent’anni, dai tempi della federazione giovanile. E la stima personale non è mai venuta meno, al di là delle battaglie politiche. Non posso accettare di parlare di lui come se non ci fosse più».

È stato detto che Berlinguer era l’esatto contrario di Craxi: il socialista campione della modernità, il comunista, invece, l’espressione di un mondo declinato al passato. Probabilmente sarebbe ingiusto considerarlo arcaico; semmai rileggendo alcune sue dichiarazioni si nota una certa diffidenza rispetto al futuro, forse una scarsa dimestichezza con le nuove tecnologie, l’idea che siano sempre asettiche e che la sostanza alla fine la diano gli uomini. La realtà è ben diversa e la conoscono perfettamente proprio quei lavoratori a cui il Pci faceva riferimento: la tecnologia appare asettica, in realtà non lo è perché trasforma i lavori, le competenze, i rapporti; la tecnologia può migliorare la qualità della vita ma può anche peggiorare la qualità di molte vite perché toglie loro la possibilità di avere una occupazione. Sembravano asettici anche i computer nelle redazioni ma poi una categoria, quella dei poligrafici, è stata cancellata e se non fosse stato quello l’obiettivo Rupert Murdoch a Londra non avrebbe trasferito, nel giro di una notte, la produzione dei suoi giornali da un posto a un altro. Le macchine non hanno un’anima ma chi le impiega un’anima ce l’ha e anche un cervello, un progetto, un obiettivo e pensare che tutto questo non incida è pratica a dir poco illusoria. Questa idea, volendo anche un po’ romantica, del rapporto con la tecnologia, emerge da una intervista rilasciata a Ferdinando Adornato che all’epoca lavorava all’Unità.

Era il 1° dicembre 1983 e quasi tutti si stavano cimentando con Orwell. Anche Berlinguer. Diceva: «Credo che l’atteggiamento più corretto di fronte a certe nuove rivoluzioni tecnologiche sia quello di considerarle in partenza come “neutrali”… Io vedo oggi la possibilità di due processi contemporanei: da una parte l’uso della microelettronica per rafforzare il potere dei gruppi economici dominanti, il potere di quello che in una parola viene chiamato complesso militare industriale. Dall’altra però vedo una grande diffusione di nuove conoscenze che può portare a un arricchimento di tutta la civiltà». Gli sfuggiva un aspetto: per usare le sue parole, il “complesso finanziario” che è quello che dalle nuove tecnologie, dall’informatica ha avuto il maggiore impulso perché si specula sul tempo e manovrando capitali in base ai fusi orari si possono ottenere grandi guadagni. Ma questo che oggi è chiarissimo, a molti appariva evidente anche allora, con la Thatcher che parlava di una Gran Bretagna che doveva uscire dalla civiltà industriale per abbracciare ottimisticamente e gioiosamente la nuova civiltà dei servizi (nel frattempo, lei provvedeva a “stangare” i minatori, mentre Reagan negli Usa faceva la stessa cosa con i controllori di volo). Finanziari, ovviamente.

Ma c’era anche in quella intervista un passaggio in qualche maniera profetico: «Segnalerei il pericolo di nuove espressioni di fanatismo ideologico o religioso che possono, in qualche paese, prendere il sopravvento». C’è una cosa che colpisce, rileggendo le interviste del segretario del Pci: una lucidità di analisi, una capacità di precorrere i tempi che poi, però, in qualche misura si arrestava nel momento in cui quell’analisi doveva trasformarsi in proposta politica. Insomma, più filosofo (e lo aveva anche detto in un pubblica confessione: era quello che sognava di fare “da grande”) che uomo di governo. Risentiva, probabilmente, delle condizioni del tempo, del fatto che quel Mondo diviso in blocchi impediva a una forza come quella comunista di muoversi con maggiore libertà, di rompere definitivamente con dogmi che lui stesso probabilmente avvertiva superati e non più accettabili o almeno non accettabili nelle forme in cui sino a quel momento erano stati imposti. Ed era figlio del suo tempo, di una fiducia nell’ideologia comunista che nella realtà non aveva trovato le conferme che un vecchio militante come lui si sarebbe atteso ma che, proprio da vecchio militante, continuava a inseguire confidando in una “riforma” (la Terza via) più che improbabile, fumosa.

Aveva, ad esempio, colto la trasformazione in atto delle classi sociali, una trasformazione che aveva inciso sulla classe operaia sia dal punto di vista numerico che da quello strutturale. Diceva: «Credo che dobbiamo considerare come un dato ineluttabile la progressiva diminuzione del peso specifico della classe operaia tradizionale. Le congiunture economiche possono, di volta in volta, accelerare o decelerare questa tendenza. Con le lotte sindacali e politiche si deve poi intervenire in questi processi, per evitare che essi assumano un carattere selvaggio e si risolvano in un danno per i lavoratori. Ma la tendenza è quella. Alcuni traggono da ciò la conclusione che la classe operaia è morta e che con essa muore anche la spinta principale alla trasformazione. Secondo me non è così. A condizione che si sappiano individuare e conquistare alla lotta per la trasformazione socialista altri strati della popolazione che assumono, anch’essi, in forme nuove la figura di lavoratori sfruttati come i lavoratori intellettuali, i tecnici, i ricercatori. Sono anch’essi, come classe operaia, una forza di trasformazione». Aveva colto, più di trent’anni fa, che le classi non erano più quelle di qualche decennio prima, che lo stesso lessico non era più adeguato: la classe operaia era a tutti gli effetti qualcosa, allo stesso tempo, di diverso e di più ampio, era classe lavoratrice, working class, ma la fedeltà al suo passato, anche dal punto di vista linguistico, lo portava a considerare quella classe come la somma di tante classi che la classe operaia avrebbe dovuto sintetizzare. In realtà, quelle altre classi erano state, dal punto di vista delle condizioni di vita e di reddito, già conquistate, meglio, schiacciate su quella operaia, pur esprimendo culture, livelli di conoscenza e modi di pensare differenti. La sua analisi, volendo, è valida anche oggi, forse oggi ancora più valida, non diversa da quella sviluppata da Guy Standing nel suo libro sui precari perché oggi, rispetto agli operai dell’epoca d’oro delle lotte in fabbrica, il precariato è, sotto molti aspetti, una diversa declinazione del proletariato, un soggetto in cui si sommano condizioni di vita difficili e situazioni contrattuali indefinite perché limitate nel tempo, prive di tutele, di garanzie e di prospettive. Ma dato che a volte compaiono sulla scena nuovi “figli di Berlinguer” che di Berlinguer hanno letto poco o nulla, allora vale la pena recuperare un altro passaggio di quella lontana intervista: «La democrazia elettronica limitata ad alcuni aspetti della vita associata dell’uomo può anche essere presa in considerazione. Ma non si può accettare che sostituisca tutte le forme della vita democratica. Anzi credo che bisogna preoccuparsi di essere pronti ad affrontare questo pericolo anche sul terreno legislativo. Ci vogliono limiti precisi sull’uso dei computer come alternativa alle assemblee elettive. Tra l’altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone. Ad ogni modo lo ripeto: io credo che nessuno riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi». Anche in questo caso è facile notare assonanze tra le sue analisi di allora e quelle più vicine a noi, articolate, semmai, da Zygmunt Bauman nella formula della “liquidità” (politica, economica, sociale). Berlinguer spiegava che la liquidità, a livello di partiti e di partecipazione ai processi decisionali, non poteva essere il porto d’approdo, non poteva essere il traguardo di una società democratica, al limite solo il “fantasma” di un traguardo. Chissà se quei parlamentari del Pd che hanno orientato le loro scelte, anche in momenti cruciali come l’elezione del presidente della Repubblica, in base ai tweet, hanno mai letto Berlinguer.

Probabilmente se lo avessero fatto avrebbero capito che dentro un’idea solida di politica non può innestarsi una decisione che si basa su un messaggio scarnificato, figlio semmai di un momento emotivo. Forse ha ragione Massimo D’Alema, uno di quei giovani che il segretario del Pci lanciò al vertice della politica prefigurando un ricambio generazionale, quando afferma: «Ciò che rimane di Enrico Berlinguer di più significativo per l’oggi è una certa idea della politica di cui fu portatore, una politica intesa come testimonianza di idealità, di etica, ma anche come regola e disciplina, vissuta con dedizione, spirito di servizio, anche fatica burocratica e un senso di responsabilità portato sulle spalle nel suo caso persino come un peso, di certo come una scelta di vita». Ha scritto Guglielmo Epifani che viene da un altro filone della sinistra: «Se ci si chiede perché così esteso e profondo sia tuttora il senso della sua guida politica, anche al di là di errori che furono commessi, la risposta va cercata nel fatto che molte di quelle ispirazioni rispondevano a domande e sensibilità profonde, largamente presenti nel Paese, e che non affrontate adeguatamente si trascinano fino ad oggi con il loro carico di rinnovamento e di tensione civile».

E che molti di quei problemi siano ancora oggi presenti è un dato di fatto. Sono presenti nel Paese e nel dibattito che percorre la sinistra. Ad esempio, il rapporto tra lo Stato e la Chiesa, la laicità delle Istituzioni in un paese che, appena al di là del Tevere, ospita il Vaticano. Una questione, ad esempio, su cui non polemizzò con Craxi: favorì la riforma del Concordato anche se poi quella firma si trasformò in rigidità sulla questione della scala mobile perché le due cose arrivarono contemporaneamente e non si potevano concedere al “nemico” due successi. La risposta di Berlinguer alla “questione cattolica” non era quella degli “atei devoti”, era quella di un laico. Un laico che, essendo comunista, quindi ateo, non poteva che suscitare preoccupazioni, perplessità, paure al di là del Tevere. Le manifestò con una lettera aperta pubblicata il 6 luglio del 1976 Monsignor Luigi Bettazzi, Vescovo di Ivrea. Il Pci aveva trionfato alle elezioni, nelle sue liste aveva presentato molti candidati dichiaratamente cattolici che erano stati puntualmente eletti. Una apertura che non poteva che destare allarme. E Monsignor Bettazzi lo esprimeva sottolineando che quei cattolici che si erano candidati con i comunisti lo avevano fatto nella speranza di un futuro migliore non perché avessero abbracciato l’ateismo; che il Pci doveva sciogliere ancora molti interrogativi perché laddove il comunismo si era affermato come sistema di governo, come struttura di Stato, aveva finito per comprimere le libertà religiose; che la presenza della Chiesa nel sociale, attraverso le strutture educative, non poteva essere messa in discussione o avocata tutta dallo Stato. Erano nervi scoperti, anche per il segretario di un partito che aveva accettato il governo Andreotti della “non sfiducia” e che di lì a poco avrebbe garantito il suo appoggio al governo di Solidarietà Nazionale attuando in maniera parziale il compromesso storico.

Berlinguer rispose un anno dopo, il 7 ottobre del 1977 con un articolo che venne pubblicato da “Rinascita”. E rispose laicamente. Sulla questione della presenza dei cattolici nelle liste comuniste sottolineò che non si trattava di un espediente tattico ma di una scelta che si inseriva nella «ricerca dell’unità di tutti i lavoratori, delle grandi correnti popolari e di tutte le forze democratiche del nostro Paese e, quindi, in special modo, nel senso dell’apertura verso il mondo cattolico». E dopo aver riconosciuto che negli stati comunisti la libertà di culto era stata condizionata e spesso soppressa (ma poi, aggiungeva, qualcosa anche lì stava cambiando e, in effetti, poco dopo sarebbero arrivati Lech Walesa e Giovanni Paolo II), ricordava a Monsignor Bettazzi che nella “libera” Italia i rapporti tra Italia e Vaticano, erano regolati da un concordato che prevedeva ancora una religione di Stato, quindi una discriminazione nei confronti della altre religioni. E indicava il traguardo finale del suo partito e di uno «Stato laico e democratico, anch’esso dunque non teista, non ateista, non anti-ateista». E, ancora: lo Stato «non può non assumere in proprio fondamentali servizi civili e sociali per il bene della comunità nazionale». Semplice la conclusione: «Lo Stato democratico deve, in linea di principio, rispettare le iniziative autonome dei

privati sul terreno sociale, ma non può, per malinteso rispetto del pluralismo, rinunciare alle proprie funzioni… Noi comunisti vogliamo una società organizzata sempre più aperta e accogliente verso i valori cristiani; non vogliamo, però, una società “cristiana” o uno stato “cristiano”: e non già perché siamo anti-cristiani ma solo perché sarebbero anch’essi una società e uno Stato integralisti, ideologici».

Quelle questioni aperte assillano ancora la sinistra. Basterebbe per un momento soffermarsi sui travagli che attraversano un partito, il Pd, prudentissimo sui temi etici e che per quella prudenza ha su questioni altrove risolte brillantemente da governi di ispirazione progressista, una posizione di retroguardia: dall’idea che il rapporto tra due persone di sesso diverso si esaurisca nei confini del matrimonio, al fatto che non si voglia riconoscere che quei rapporti possono riguardare persone di ugual genere; che una pessima sopravvivenza, in stato vegetativo, sia migliore e più auspicabile di una buona morte, consentendo, poi, che intorno a un caso come quello di Eluana si imbastiscano volgari circhi mediatitici, confronti tra “curve sud” fuori degli ospedali, e insopportabili duelli tra “polli da combattimento” della politica; che lo Stato debba mettere sullo stesso piano le proprie scuole (e, quindi, il sapere come diritto fondamentale, essenziale, civile) e quelle private trasformando le proprie in veri e propri ruderi e garantendo a quelle private una esistenza molto più che decorosa, peraltro in aperta contraddizione con quel che prevede la Costituzione la quale non vieta nulla ai privati ma vieta allo Stato di rimetterci dei soldi; o le tassazioni sugli immobili che trattano in un modo il cittadino e in altro modo la Chiesa anche laddove quegli edifici non sono riservati al culto. Forse ha ragione Pietro Folena che in suo libro ha scritto: «Il socialismo, nelle sue matrici cristiane, umanitarie e laiche, non ha niente da dire in questo pianeta, nel 2000, nella globalizzazione? Sentivo, e sento ancora, Enrico Berlinguer più che come politico, come un interprete di questo bisogno. Comunista non in senso ideologico o dogmatico, ma etico. Filosofo appunto».

Un senso etico che gli consentì di vedere per primo la deriva che stava imboccando il Paese, soprattutto la politica di questo Paese. Lo spiegò in una intervista ad Eugenio Scalfari. Era il 28 luglio del 1981 quando quella chiacchierata apparve sulle pagine de “la Repubblica”. Diceva: «I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia… I partiti oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi e vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune… I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo, hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai Tv, alcuni grandi giornali». Forse fu proprio quell’analisi che lo convinse a battere la strada del referendum in occasione del decreto di San Valentino. Diceva: «Molti italiani si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole la conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto al referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ‘74 per il divorzio, sia ancor di più nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno».

La conferma di questa libertà sarebbe arrivata, quattro anni dopo, anche con la scala mobile: la nuova articolazione delle classi sociali, la nuova conformazione della stessa classe operaia, divisa tra qualificati e non qualificati, ormai poco incline all’appiattimento salariale, avrebbe fatto uscire indenne dalle urne il decreto. Per il resto, il voto di scambio è ancora oggi una piaga italiana e in particolare del Sud di questo Paese dove vere e proprie “famiglie politiche” (che spesso si confondono o, peggio ancora, si identificano con famiglie di tipo diverso, mafiose, ‘ndranghetiste, camorriste) gestiscono pacchetti di voti e di carriere. Di fronte a questa situazione, Berlinguer definiva la “diversità” del Pci organizzandola intorno a tre punti: «Noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione, e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi dello Stato… noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri, gli emarginati, vadano difesi… che certi bisogni sociali e umani ignorati vadano soddisfatti… che la professionalità e il merito vadano premiati… Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia una causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell’economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l’iniziativa individuale sia insostituibile, che l’impresa privata abbia un suo spazio e conservi un ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche non funzionano più e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come un meccanismo, come sistema, giacché esso oggi sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati».

La “Diversità” si rivelò alla fine una sorta di camicia di forza non perché l’Italia di allora (e di oggi) non ne abbia bisogno ma perché finì per confondere aspetti etici e aspetti programmatici togliendo forza agli uni e agli altri. La “Diversità” in se stessa non è un programma politico soprattutto nel momento in cui viene proposta come regola di comportamento, come valore, come principio etico: vale per tutti, è o dovrebbe essere trasversale, riguardare tanto la destra quanto la sinistra, così come ci rendiamo conto che quel che denunciava Berlinguer riguarda tutti perché non esiste un cromosoma della “Diversità”, qualcosa che rende onesti tutti quelli che sono da una parte e disonesti tutti quelli che sono da un’altra parte, che il contagio non conosce barriere e non esiste un vaccino per prevenirlo efficacemente. La “Diversità”, in effetti, dovrebbe essere la normalità e tale è in democrazie evolute, che hanno conosciuto culture, anche religiose, diverse dalla nostra: ma è evidente che se la poltrona, come simbolo dell’occupazione dei posti di potere, diventa l’essenza del far politica, inevitabilmente risulta molto difficile staccarsene.

Guglielmo Epifani così ha sintetizzato in un articolo sull’Unità la vicenda politica del segretario comunista: «Berlinguer ebbe una duplice capacità: quella dell’innovazione e quella della conservazione e trasmissione di valori permanenti». Ma insieme ai valori permanenti trasmise anche delle rigidità che non hanno aiutato la sinistra a evolversi in senso occidentale. Ha riconosciuto Pietro Folena: «Alla fine di settembre (del 1979, n.d.a.) Craxi lancia sull’Avanti l’idea della Grande Riforma. Quella forse fu per il gruppo dirigente del Pci, un’occasione mancata. Del resto Berlinguer, qualche mese prima, rilanciando le ragioni dell’unità tra Pci e Psi, respingeva in modo sprezzante l’idea di una terza forza laica-socialista (“un partito di classe non può essere una terza forza”) dimostrando l’approccio inadeguato a un Psi che già da tempo non era un “partito di classe” ma con il quale andava costruita una politica». Ha spiegato Piero Fassino, un altro di quei giovani lanciati da Berlinguer: «Berlinguer non abbandonò mai l’idea che il comunismo europeo fosse riformabile, questo è il punto. Credeva nell’innesco del processo di riforma del comunismo. Quindi non ti poni l’obiettivo di far approdare definitivamente la tua evoluzione politica alla socialdemocrazia, perché pensi che ci sia ancora una chance di qui, sul fronte del comunismo e del socialismo. Ma questa idea si iscrive in una strategia di rapporti con la socialdemocrazia che il Pci coltivò molto. Pensiamo al rapporto tra Pci e Spd, al rapporto personale con Brandt, con Olof Palme, con Mitterrand». E in suo libro, Fassino, nell’analizzare lo scontro tra l’allora presidente del Consiglio e Berlinguer, ha affermato: «Craxi interpreta la domanda di dinamicità di una società che cambia e chiede alla politica di stare al passo. Il Pci, invece, vede nei cambiamenti un’insidia anziché una opportunità». Politicamente, Berlinguer si è «arenato» sulla politica del Compromesso Storico considerandola una scelta di lungo periodo non una soluzione di transizione, come, invece, la riteneva, più realisticamente, l’altro grande protagonista di quella fase, Aldo Moro. Lo ha spiegato con chiarezza D’Alema: «Moro aveva una visione laica e più occidentale: per lui la collaborazione tra Dc e Pci era la premessa per una alternanza senza traumi. In fondo, qualcosa del genere era successa in Germania, con la “Grosse Koalition”. Berlinguer, invece, pensava al compromesso storico come un periodo prolungato di governo comune. Entrambi avevano in mente un cambiamento di fase, in netto anticipo sulla storia, con la fine della “conventio ad excludendum” verso la sinistra. Per rendere più credibile tutto ciò Berlinguer non solo accettò il Patto Atlantico ma anzi spiegò che esso era la garanzia della realizzabilità di questo disegno». Concetti, peraltro, che espresse con chiarezza il 15 giugno del 1976 nel corso di una intervista concessa al Corriere della Sera e raccolta da Giampaolo Pansa: «Io penso che, non appartenendo l’Italia al Patto di Varsavia, da questo punto di vista c’è l’assoluta certezza che possiamo procedere lungo la via italiana al socialismo senza alcun condizionamento. Ma questo non vuol dire che nel blocco occidentale non esistano problemi: tanto è vero che noi ci vediamo costretti a rivendicare all’interno del Patto Atlantico, patto che pure non mettiamo in discussione, il diritto dell’Italia di decidere in modo autonomo il proprio destino… Io voglio che l’Italia non esca dal Patto Atlantico… mi sento più sicuro stando di qua ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi per limitare la nostra autonomia». Quello che venne definito “lo strappo” si compì definitivamente il 15 dicembre del 1981, durante una trasmissione di Tribuna Politica, registrata subito dopo la proclamazione in Polonia dello stato d’assedio da parte del generale Jaruzelski: «Quello che mi pare si possa dire in linea generale, forse su questo tema potremo tornare, è che ciò che è avvenuto in Polonia ci induce a considerare che effettivamente la capacità propulsiva di rinnovamento della società o almeno di alcune società che si sono create nell’est europeo, è venuta esaurendosi. Parlo di una spinta propulsiva che si è manifestata in lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella rivoluzione socialista d’ottobre: il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca e che ha dato luogo poi a una serie di eventi e di lotte per l’occupazione, nonché una serie di conquiste. Oggi siamo giunti a un punto in cui quella fase si chiude e per ottenere che anche il socialismo che si è realizzato nei paesi dell’est possa conoscere una nuova era di rinnovamento e di sviluppo democratico, sono necessarie due cose fondamentali: prima di tutto è necessario che prosegua il processo di distensione… inoltre è necessario che avanzi un nuovo socialismo nell’ovest dell’Europa, nell’Europa occidentale, il quale sia inscindibilmente legato e fondato sui valori e sui principi di libertà e di democrazia». Berlinguer era giunto al traguardo. Era, però, il traguardo di una tappa importante, non quello finale. Perché l’ultimo passo, quello verso Bad Godesberg, nonostante i buoni rapporti con Brandt, non lo compì mai. Ciò non toglie che sul fronte dell’accettazione dei principi liberaldemocratici avesse compiuto scelte estremamente innovative. Quel Pci fu sottoposto a lunghi esami del sangue per testarne l’affidabilità democratica. E da questo punto di vista siamo veramente un paese singolare. Nel fuoco di tangentopoli, la politica italiana provvide rapidamente a “sdoganare” forze politiche della destra nostalgica che avevano le loro radici nell’ideologia dell’unica dittatura che il nostro Paese ha conosciuto nel Novecento; campioni di libertà diventarono coloro che solo qualche anno prima (ad esempio nel 1992 in occasione del settantesimo anniversario della marcia su Roma) salutando romanamente guidavano tetri cortei per le strade della Capitale; coloro che anche sulla soglia del governo continuavano a ritenere Mussolini il più grande statista italiano. È bizzarra la storia che si racconta con l’animo ultrà.

*Giorgio Benvenuto, Antonio Maglie: “Il divorzio di San Valentino. Così la scala mobile divise l’Italia”, con un’analisi sul referendum di Antonio Agosta; Bibliotheka Edizioni, III edizione, 2016; pagg. 617, euro 35,00

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