Moro, Paolo VI e la trattativa del Vaticano

-di ANTONIO MAGLIE-

Quel che avvenne a via Fani la mattina del 16 marzo (la strage della scorta, il rapimento e la successiva uccisione di Aldo Moro) è stato passato al microscopio di cinque processi (i primi due vennero unificati) e di ben sei commissioni parlamentari (due, una delle quali ancora in attività, dedicate esplicitamente al “fatto” e altre quattro che lo incrociarono nemmeno tanto trasversalmente indagando su altri misteri italiani). Eppure non tutto è stato chiarito. Un po’ perché questo Paese è fatto di segreti inconfessabili a cominciare dai rapporti tra pezzi dello Stato deviati e pezzi della società degradati (organizzazioni criminali, reti politiche sotterranee che hanno sempre agito nell’ombra) e un po’ perché la ricostruzione storica è sta affidata quasi esclusivamente ai racconti dei “pentiti” che spesso hanno detto (o non detto) quel che a loro maggiormente conveniva.

C’è, ad esempio, un aspetto che non è mai stato completamente chiarito: quello della “trattativa”. Si sa che si mossero in tanti. Dai socialisti che si schierarono apertamente per un negoziato (ma all’area delle colombe aderivano anche il leader democristiano Amintore Fanfani, l’ex capo dello Stato, Giuseppe Saragat, uno dei fondatori del Pci, Umberto Terracini) che pensavano a un “atto umanitario” che mandasse in libertà un terrorista in precarie condizioni di salute (si parlò prima di Paola Besuschio poi di Alberto Buonoconto) e affidarono a un esperto come Giuliano Vassalli il compito di valutare da un punto di vista giuridico la questione; alla Chiesa investita del compito quasi direttamente dall’ostaggio.

Le lettere che pubblichiamo oggi in questo Blog fanno riferimento proprio a questo secondo tentativo che, peraltro, fu anche quello che alimentò le maggiori speranze e che addirittura a ventiquattro ore dal ritrovamento del cadavere nella famosa Renault Rossa in via Caetani fece sperare in un esito positivo della vicenda. Come ha rivelato Miguel Gotor, uno degli storici che maggiormente si è occupato della vicenda lasciandoci un bel libro che raccoglie le lettere scritte da Moro nel periodo della “prigionia”, nel frammento di una missiva il presidente democristiano si lamentava del comportamento di Paolo VI: “Il Papa ha fatto pochino, forse ne avrà scrupolo”. La lettera aperta “agli uomini delle Brigate Rosse”, sembra in qualche maniera confermare questa impressione: Montini, infatti, dà l’impressione di insistere sull’atto autonomo dei terroristi. Però vi può essere un’altra lettura che finisce per inquadrare la lettera in un contesto diverso, quello appunto della trattativa, soldi (cinquanta miliardi) contro la libertà di un uomo.

Quando il 13 maggio, in una atmosfera surreale (non c’era la bara della vittima, non c’erano i familiari che seguirono alla lettera l’indicazione data dal loro congiunto: “Chiedo che ai miei funerali non partecipino né autorità dello Stato né uomini di partito. Chiedo di essere seguito dai pochi che mi hanno veramente voluto bene”), nella Basilica di San Giovanni il vicario di Roma, Ugo Poletti officiò le esequie solenni, un Montini malato e ulteriormente provato (si sarebbe spento il 6 agosto successivo) manifestò tutta la sua tristezza, tutta la sua disperazione con queste parole: “E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu o Dio della vita e della morte? Tu che non hai esaudito le nostre suppliche per l’incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico?” C’era in quell’ interrogativo tutta la disperazione per una strada battuta sino all’ultimo ma che non aveva portato alla meta sperata. Cosa impedì quell’esito?

Tre giorni dopo, nel corso di una messa a suffragio, qualche responsabile venne indicato dalla moglie di Aldo Moro, Eleonora: “Per i mandanti, gli esecutori, i fiancheggiatori di questo orribile delitto; per quelli che per gelosia, per viltà, per paura, per stupidità hanno ratificato la condanna, per me e per i miei figli perché il senso di disperazione e rabbia si tramuti in lacrime di perdono, preghiamo!” Perché, secondo le ricostruzioni a posteriori, quel negoziato venne accettato dallo Stato (che formalmente non veniva coinvolto) ma l’adesione alla soluzione scelta non fu mai incondizionata. D’altro canto ci furono comportamenti indicativi delle frattura che la strage e il rapimento avevano creato nei partiti. Amintore Fanfani ha raccontato che avrebbe voluto partecipare al funerale privato che si svolse nella cappella del cimitero di Torrita Tiberina, chiese l’autorizzazione al segretario della Dc, Benigno Zaccagnini, ottenendo questa risposta: “Sei libero, ma se ci vai ti denuncio ai probiviri”. Molti ecclesiastici provarono a intervenire per evitare l’epilogo più drammatico, tra gli altri Monsignor Bettazzi, vescovo di Ivrea e presidente di Pax Christi che molto più tardi ha ricostruito pubblicamente quel che avvenne in quei giorni quando si recò in Vaticano per farsi autorizzare a offrirsi come ostaggio al posto di Moro. Il cardinale Giuseppe Caprio gli avrebbe risposto: “Non vede che stiamo andando in braccio al comunismo? Ha già fatto fin troppo il Santo Padre con quella lettera alle Brigate Rosse”. Bettazzi avrebbe provato ad aggirare il rifiuto dicendo: “Facciamo che io non sia venuto”. La replica sarebbe stata raggelante: “No. Lei poteva non venire, ma ora che è venuto le proibiamo di farlo”. Le parole di Caprio pongo sullo sfondo uno dei temi spesso evocati: l’apertura al Pci promossa da Moro, i governi di solidarietà nazionale, una linea poco apprezzata anche dall’altra parte dell’Oceano. In quei giorni i rapporti del Papa con Giulio Andreotti (uomo da sempre con notevoli agganci in Vaticano) furono caratterizzati da forti contrasti. Ma tutto questo non impedì a Montini, pur con grande prudenza, di incaricare il suo segretario, Pasquale Macchi, e il collaboratore di questi, Carlo Cremona, di avviare quasi immediatamente un tentativo negoziale, provando a cercare quel canale che potesse portare con sicurezza agli “uomini delle Brigate Rosse”. Paolo VI non si mosse all’insaputa della politica italiana tanto è vero che vennero informati Zaccagnini, Enrico Berlinguer e Tonino Tatò, braccio destro del segretario comunista, ben visto anche nei corridoi vaticani. La ricerca del canale venne affidata al cappellano di San Vittore, Cesare Curioni che era anche il capo dei cappellani d’Italia e questi per prima cosa si rivolse all’avvocato dei brigatisti, Edoardo Di Giovanni. Curioni in quei giorni avrebbe compiuto diversi viaggi a Napoli dove avrebbe incontrato la persona (o una delle persone) che lo aiutarono a cercare il contatto giusto (forse un brigatista o un ex brigatista).

Testimoni che hanno atteso qualche anno per far sentire la propria voce, raccontano anche che il palazzo di Castel Gandolfo, residenza estiva del Papa, essendo provvisto di extraterritorialità fu uno degli snodi della trattativa e lì furono visti, custoditi in una stanza, dieci miliardi di vecchie lire in contanti che avrebbero dovuto far parte del riscatto. Così come si è parlato di venti milioni di dollari messi a disposizione dal parlamentare israeliano Shmuel Flatto-Sharon (metà li avrebbe versati immediatamente, metà entro dieci giorni). Secondo Gotor che ha studiato a fondo le lettere di Moro, lo stesso ostaggio era in qualche modo a conoscenza della trattativa e lo stesso riferimento a Giuliano Vassalli e all’intervento di Pio XII in favore della sua liberazione (un ruolo lo ebbe anche Montini all’epoca collaboratore del Papa) non va letto come un semplice esempio da seguire. D’altro canto, il Vaticano coinvolse in quei giorni convulsi anche il giurista socialista che, comunque, alla questione si stava dedicando per conto di Bettino Craxi.

Misteri svelati in tempi recenti hanno tirato in ballo un altro prelato: Enrico Zucca, uomo da sempre vicino ai servizi (sin dai tempi del fascismo), cappellano di quella struttura supersegreta chiamata “Anello” (costituita addirittura nel 1944 dal generale Roatta) che rispondeva soltanto ad alcuni presidenti del Consiglio e che è stata sciolta negli anni Ottanta. Padre Zucca avrebbe trovato in Adalberto Titta, capo della struttura segretissima, il canale (lo stesso che verrà più tardi attivato in occasione del rapimento di Ciro Cirillo e che porterà alla liberazione dell’esponente politico campano) per avviare un negoziato con le Br. Ma proprio i sottili messaggi che lanciava dalla “prigione del popolo” Moro, avevano indotto i protagonisti del complesso puzzle a cercare un’altra strada. Non quella della liberazione ma quella “dell’esilio” di un brigatista che invece di essere arrestato sarebbe stato fatto fuggire all’estero. E qui entra in ballo Alessio Casimirri, uno dei componenti del “gruppo di fuoco” che aveva operato in via Fani, figlio dell’ex capo dell’ufficio stampa della Santa sede, con una certa familiarità con i giardini vaticani tanto da giocarci a pallone e da essere bonariamente sgridato, negli anni infantili, da Giovanni XXIII per l’eccesso di chiasso. In effetti nei giorni del sequestro Casimirri venne tenuto un po’ in disparte perché le Br avevano appreso che su di lui erano stati avviati dei controlli sollecitati dagli stessi genitori. Non è da escludere, insomma, che in cambio della fuga, Casimirri potesse trasformarsi in una sorta di mediatore. Due cose, alla fine, sono certe: secondo quanto ha rivelato Moretti, il terrorista venne espulso dalle Br; tra i partecipanti all’agguato di via Fani è l’unico che non ha fatto nemmeno un giorno di prigione essendo fuggito in Nicaragua dove ora, con passaporto di quel paese, gestisce tranquillamente un ristorante.

I “sondaggi” discreti erano stati avviati da tempo quando il 18 aprile del 1978 arrivò l’annuncio che il cadavere di Moro sarebbe stato trovato nel Lago della Duchessa. La lettera agli “uomini delle Brigate Rosse” è in qualche maniera la conseguenza di quell’improvviso colpo di teatro nel senso che andrebbe interpretata come una sollecitazione a dare una prova certa dell’esistenza in vita dell’ostaggio. In realtà quel comunicato era un falso e l’autore era “Tony il falsario”, cioè Antonio Chiecchiarelli, uomo vicino alla banda della Magliana. Non è stato mai chiarito quale fosse l’obiettivo dell’operazione. Per alcuni serviva a distogliere l’attenzione da Roma per consentire alle Brigate Rosse di potersi muovere quel giorno con una certa serenità. Secondo altri un tentativo per inserirsi nella trattativa e raggiungere proditoriamente i miliardi del riscatto. Giulio Andreotti in una intervista del 2003 ha sostenuto che sarebbe stato un terrorista detenuto a San Vittore a svelare la falsità del comunicato del 18 aprile e, proponendosi come intermediario, ad annunciare che il 20 aprile l’organizzazione avrebbe reso pubblico un nuovo documento (cosa che in effetti fece).

Fatto sta che la trattativa della Santa Sede prende impulso proprio dopo la vicenda del lago della Duchessa, anche in virtù dell’autorizzazione concessa dai segretari dei cinque maggiori partiti in occasione di una riunione che si era svolta a Palazzo Chigi il 3 aprile. D’altro canto, non è che i quattrini fossero disprezzati dalla Br che in qualche modo dovevano finanziare la loro “attività”. Lo scambio a sfondo economico venne successivamente accettato con Cirillo. Ma precedentemente, cioè nei primi mesi del ’77, con un riscatto (un miliardo e 350 milioni di lire) e la liberazione si era concluso il sequestro dell’industriale genovese Pietro Costa: quei soldi servirono tra l’altro proprio per acquistare quella che è ufficialmente considerata “la prigione del popolo” di Aldo Moro, l’appartamento in via Montalcini. A tre, quattro giorni dalla tragica conclusione del rapimento, nelle stanze del potere romano si respirava aria di ottimismo: la trattativa avviata dal Vaticano sembrava in grado di riportare a casa sano e salvo Aldo Moro. Anche nelle prime ore del mattino del 9 maggio Macchi e Curioni erano in attesa della telefonata liberatoria (in tutti i sensi) dell’intermediario. Arrivò, invece, la mortale “gelata”: non se ne sarebbe fatto nulla, l’ala dura delle Br voleva il riconoscimento politico dello scambio di prigionieri: la vita di Moro in cambio della liberazione di tredici brigatisti; una sola alternativa al rifiuto: l’esecuzione della condanna a morte annunciata con il comunicato numero 9 del 5 maggio.

antoniomaglie

Rispondi