Democrazia del pubblico o teatrocrazia?

-di MAURIZIO BALLISTRERI-

Ci interroga se davvero con le elezioni del 4 marzo scorso si sia concluso il ciclo del sistema politico italiano, quello fondato sulla democrazia rappresentativa.

Una democrazia imperfetta certamente, sia nella declinazione della Prima Repubblica fondata sui partiti e sulla legge elettorale proporzionale, a causa dell’impossibilità dell’alternanza tra schieramenti diversi per l’esistenza del “fattore K”, che nella Seconda Repubblica, il cui maggioritario imperfetto, con coalizioni forzate, ha prodotto la trasformazione delle forze politiche da corpo intermedio a luogo di potere e di nomina, con strutture coincidenti con la rappresentanza nelle istituzioni o, al massimo, con oligarchie lontane dalla società. E’ avvenuta, per intendersi, un’involuzione di quei “corpi intermedi” teorizzati da Montesquieu, funzionali a temperare il potere e il suo eventuale esercizio dispotico, rappresentati in primo luogo dai partiti, luogo della partecipazione dei cittadini alla politica e strumento della rappresentanza democratica non meno che le istituzioni elettive.

Si è passati così, dall’800 ai giorni nostri, dalla rappresentanza per notabilato a quella democratica generata dal suffragio universale ad una forma che a livello politologico si definisce “democrazia del pubblico”, in cui il popolo e, soprattutto i settori socialmente più disagiati, marginalizzato dalla politica fondata sulla “nomina” dei rappresentanti e non sulla scelta con la preferenza e da forze politiche private e personali, cerca di rientrare nel sistema decisionale, anche se in forma passiva.

Un nuovo modello della rappresentanza che il filosofo Remo Bodei ha analizzato, utilizzando categorie filosofiche diverse derivanti dal pensiero di Machiavelli, di Hegel, di Max Weber, quale conseguenza del distacco tra establishment e ceti popolari sempre più impoveriti dalla globalizzazione economica e dall’austerity europea, utilizzati, agli inizi di questo secolo, da Colin Crouch per teorizzare la “post-democrazia”.

A sua volta il politologo Roberto Manin individua, paradossalmente, nella “democrazia del pubblico”, ricostruendo analiticamente il rapporto tra democrazia e rappresentanza, la nascita di una nuova forma di élite politica generata dal web e dai social, nella crisi dei partiti, delle associazioni degli interessi collettivi e dei media tradizionali, ma anche della tradizionale distinzione tra classi e ceti sociali, con processi di atomizzazione sociale che hanno segnato il passaggio dal collettivo a quella moltitudine che uno dei maggiori teorici dell’autonomia operaia, Antonio Negri, coglie come elemento di innovazione e di rottura della società capitalistiche.

In concreto, il declino delle identità collettive “solide”, un tempo rappresentate dalle organizzazioni dei “subalterni”, partiti di classe e sindacati dei lavoratori, e la sconfitta inappellabile dei regimi collettivistici, da una parte, la frammentazione dei rapporti sociali e la rivincita “neoliberista” del capitalismo finanziario, dall’altra, sono ad un tempo causa ed effetto di questa situazione di incertezza politica.

Tutto questo produce una nuova forma di élite politica, che parla direttamente al pubblico (in questo senso si ravvisano le pulsioni populiste) e lo rappresenta come una sorta di procuratore del popolo in istituzioni viste come strumentali rispetto alle problematiche sociali, inasprite dal distacco tra governati e governanti.

Nella “democrazia del pubblico” le forze politiche, anche nella versione “debole” della Seconda Repubblica, intesa essenzialmente come liste elettorali, cedono spazio alle persone, l’organizzazione della politica alla comunicazione, le identità collettive si affievoliscono, sostituite da un rapporto fiduciario diretto con i cittadini: lo spazio della rappresentanza coincide con lo scambio fra leader e “opinione pubblica”, che avviene, prevalentemente, attraverso web e social, con modalità, però, asimmetriche, perché a senso unico.

E, quindi, più che di “democrazia del pubblico”, si potrebbe parlare di “democrazia virtuale”, che evoca il pubblico che partecipa agli spettacoli descritto da Platone parlando di “teatrocrazia”.

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