L’arte femminista come riappropriazione

-di FEDERICA PAGLIARINI-

Come ogni anno l’8 marzo ricorre la festa della donna. Un giorno importante per riflettere e ricordare le battaglie che le donne hanno combattuto per far valere i loro diritti.

Non c’è certo bisogno di parlare della visione maschilista e patriarcale che per secoli è esistita, con la figura della donna madre di famiglia, chiusa in casa a crescere i figli. Moglie e madre perfetta accanto a mariti che nella maggior parte dei casi risultavano bigotti e violenti. Questa visione maschilista esisteva già nell’antica Roma. Basti ricordare il “gineceo”, una stanza delle tipiche “domus” romane, dove la donna svolgeva i suoi “compiti femminili”. Era un luogo separato da quello frequentato dagli uomini, a cui solitamente era destinato l’”atrium”, in cui si svolgevano attività diverse e “intellettualmente” più elevate rispetto a quelle delle donne.

Fortunatamente molta strada è stata fatta e ad oggi tante battaglie sono state vinte. Il movimento femminista è quello che maggiormente si è battuto per i diritti sulle donne. In Italia ha una posizione antagonista rispetto al modello emancipazionista e garantista che si era formato nei paesi liberali occidentali dalla fine del XIX secolo. Si impegnava per l’uguaglianza dei diritti tra donna e uomo.

In Italia erano nati due gruppi politici femminili: il Centro italiano Femminile (CIF) e l’Unione donne italiane (UDI), precisamente durante la Resistenza. Si scagliavano contro tutte quelle leggi di protezione della donna varate nei primi anni Settanta, criticando la legge di tutela della lavoratrice madre approvata nel dicembre del 1971, in quanto si riconosceva l’idea che la cura della casa e della famiglia era un dovere sociale riservato solo alle donne. La fine degli anni Sessanta sarà per l’Italia un periodo di lotte molto intenso. Non solo le lotte femministe, ma anche le lotte studentesche e quelle operaie saranno all’ordine del giorno.

Una delle battaglie iniziali della donna è stata la legalizzazione dell’aborto. Si voleva avere la facoltà di decidere personalmente cosa fare con il proprio corpo. E l’aborto sarà in prima fila nel dibattito pubblico non solo in Italia, ma anche in Francia. Fece scalpore il processo a Marie-Claire Chevalier che, a soli sedici anni, decise di abortire con l’aiuto della madre. In Italia ci fu invece l’episodio di Gigliola Pierobon, attaccata per un aborto che aveva fatto otto anni prima, quando era ancora minorenne. Nel 1972 si diede la possibilità alle donne che volevano abortire di andare in paesi come l’Inghilterra dove le condizioni sanitarie erano molto più sicure. L’iniziativa venne curata dalla CISA (Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto). Solo nel 1978, con la legge n.194 ci sarà la legalizzazione dell’aborto. Bisognerà invece attendere il 1996 per vedere istituita le legge che vedeva lo stupro un reato contro la persona e non contro la morale.

In tutto questo contesto, entreranno in scena le artiste femministe. La critica d’arte ha dato importanza ai legami tra femminismo, modernismo e postmodernismo e andando avanti negli anni, anche alla globalizzazione. Le relazioni tra arte, politica ed Io erano importanti, come la differenza tra azione e performance. Inoltre si metteva in relazione l’arte con la semiologia, la psicoanalisi, la fotografia e la linguistica, per analizzare e confrontare più campi insieme. In particolare la fotografia veniva usata dalle artiste femministe per cogliere la presenza del corpo, spesso rappresentato sotto forma di frammento. In questo modo si voleva sradicare l’idea della donna oggetto della visione maschile, per iniziare un processo di riappropriazione del corpo e della propria sessualità.

Non potendo parlare estesamente di tutte quelle artiste (italiane e non) che, con la loro arte, hanno dato voce alla battaglia femminista, mi soffermerò su alcune di esse, su quelle che hanno inserito nella loro arte delle tematiche forti e provocatorie.

Un’artista che si è impegnata a far nascere un nuovo linguaggio e alfabeto femminile, è Tomaso Binga. Il nome è uno pseudonimo, assunto in segno di protesta contro i privilegi maschili. Il suo vero nome è Bianca Pucciarelli Menna. La sua opera più importante è l’”Alfabetiere murale”, una serie di foto dove lei stessa è stata fotografata nuda mentre forma delle lettere dell’alfabeto con il corpo. L’idea è quella di creare un nuovo alfabeto, femminile e innovatore, che si vuole porre proprio oltre il canone maschile e non solo opporsi ad esso.

Sempre Binga è autrice di performance che vedono come tema lo sdoppiamento della persona. Lei stessa modella, si fa fotografare ora da donna, ora da uomo. Prende la doppia identità di Bianca Menna e Tomaso Binga. Un’opera di questa serie è Bianca Menna e Tomaso Binga Oggi Spose (1977) dove l’artista si sposa con il suo alter ego maschile. Il messaggio è fortemente provocatorio e vuole accanirsi contro le idee maschiliste dell’istituzione matrimoniale e sostituisce il “oggi sposi” con “oggi spose” (in relazione anche alla sua idea di un nuovo alfabeto e linguaggio).

Sulla stessa lunghezza d’onda di Binga, è Cloti Ricciardi. Artista molto attiva anche in campo politico, con la sua opera Alfabeta (1975), dà inizio ad un nuovo dizionario delle donne. In cosa consiste l’opera? Viene chiarito direttamente da lei che, nell’incipit del libro, spiega la costruzione del volume. Da una parte inserisce tutte le parole, in ordine alfabetico, che andrebbero cambiate o addirittura fatte sparire dal dizionario italiano e dall’altra mette in modo speculare, le immagini da cui si dovrebbe ripartire per creare un nuovo linguaggio. Inserisce dei ritratti in bianco e nero, a volte anche con inserti di collage, con foto di amiche e compagne del movimento femminista romano.

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Per finire, interessante è la serie di fotografie realizzate da Marcella Campagnano, L’invenzione del Femminile: RUOLI (1974), poi pubblicate nel libro “Donne Immagini” del 1976. Protagoniste di queste foto sono le compagne del collettivo femminista milanese. Ognuna è travestita per impersonare ruoli diversi e stereotipati (casalinga, sposa, amante…). Dietro le quinte c’è un lungo “rituale” di travestimento, dove ogni compagna aiuta l’altra a indossare i vestiti appositamente cuciti da ognuna di loro. Le fotografie diventano così anche delle performance, dove si sottolinea il carattere ambiguo dell’identità come costruzione sociale. C’è all’interno la volontà di comparare le donne con ipotetici modelli maschili che potrebbero essere presi, interpretati e fatti diventare propri.

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Il messaggio di queste artiste era chiaro: le loro opere sono fondate sull’ idea che essere donna comporta una posizione di alterità. Ma in tutto ciò c’è una grande consapevolezza e volontà di riappropriarsi del proprio Io e del proprio corpo.

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