228 anni di diritti umani: dalla Rivoluzione Francese alle sfide del presente

-di GIULIA CLARIZIA-

Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei loro diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune”. Così recita l’articolo 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, emanata il 26 agosto dall’Assemblea Nazionale del Popolo Francese. Erano tempi di rivoluzione. Il giogo dell’assolutismo era stato sconfitto e si stava delineando quello che sarebbe dovuto essere il nuovo assetto dello stato francese, fondato su principi diametralmente opposti da quelli che avevano retto l’ancien régime. Non era più Dio la fonte di sovranità, ma il popolo, gli uomini, i cittadini.

E il fatto stesso di essere uomini conferiva ad essi dei diritti naturali ed inalienabili che l’assolutismo non solo aveva violato, ma non aveva affatto riconosciuto.

La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, principalmente redatta dal marchese di Lafayette, elencava proprio quei diritti che ogni associazione politica aveva il compito di preservare. Essi si possono riassumere in libertà, proprietà, salvezza e resistenza dall’oppressione, laddove la libertà è quella di pensiero, religione, associazione e libertà dall’arresto e dal confino arbitrario.

Con la Dichiarazione, la Francia ha guadagnato il titolo di patria dei diritti dell’uomo, ed effettivamente la rivoluzione francese è stata l’onda propulsiva che ha diffuso i diritti umani in Europa e oltre, anche attraverso le conquiste di Napoleone. Bisogna sottolineare però che l’idea che l’uomo abbia per natura dei diritti ha radici lontane, fin nella cultura greca e latina, ed era tornata a svilupparsi nel corso dell’illuminismo grazie alle precedenti scoperte scientifiche e alle correnti filosofiche che riponevano fiducia nell’uomo e nelle sue capacità. Anche politicamente vi erano già stati degli sviluppi in questo senso. Nell’Inghilterra della Rivoluzione Gloriosa, il Bill of Rights del 1688 riconosceva alcuni diritti in quanto esistenti già durante lo stato di natura, prima ancora della civiltà. Dall’altra sponda dell’Oceano Atlantico, la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America stabiliva l’esistenza di alcuni diritti inalienabili, ovvero la vita, la libertà e la ricerca della felicità. E non a caso, il marchese di Lafayette partecipò alla rivoluzione americana.

La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino è a pieno titolo uno dei testi sacri della modernità. Essa è stata ripresa non solo da numerose costituzioni, tra cui la nostra, ma ha largamente influenzato la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dalle Nazioni unite nel 1948 e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 1950.

Dopo le atrocità della seconda guerra mondiale, infatti, si sentì la necessità di rinnovare l’enfasi sui diritti della persona, e lo si fece nel contesto globale delle Nazioni Unite. La dichiarazione venne definita “universale”. Il linguaggio dei diritti umani diventò così una enorme fonte di potere e autorità, aldilà dei confini statali e – almeno sulla carta – quelli culturali.

Proprio su quest’ultimo punto, fin dalla stesura della dichiarazione sono stati sollevati dubbi e reticenze.

Infatti, c’è chi ha denunciato l’imposizione dei diritti umani come strumento imperialista prettamente occidentale. Per esempio, alcune voci dalla società islamica hanno contestato il diritto di sposarsi liberamente e la libertà di religione, poiché tali punti andrebbero contro l’organizzazione sociale prescritta dal Corano.

Anche dalle crescenti economie dell’Est asiatico, come la Malesia e Singapore, sorgono opinioni di rigetto, vedendo l’ideologia dei diritti umani come un freno al loro percorso di sviluppo.

Nello stesso Occidente non mancano gli scetticismi sull’applicabilità degli standard che sono stati fissati a riguardo.

Tuttavia, se è vero che il passato culturale occidentale – e in particolare proprio la dichiarazione del 1789 – ha svolto un ruolo predominante nella fase di stesura della Dichiarazione del 1948, è anche vero che nel comitato di redazione erano rappresentate molteplici culture, tra cui certamente quelle islamiche e asiatiche.

Inoltre, l’origine del concetto di diritti umani, fa riferimento ai diritti naturali che in quanto tali dovrebbero prescindere dalla forma di civilizzazione e costituire il denominatore comune ad ogni popolo. Vero è che quando si entra nella concretezza delle cose, la linea tra la lotta per i diritti umani e l’ingerenza nella cultura altrui è molto sottile, come dimostra l’ampio dibattito sull’infibulazione femminile, che ai nostri occhi non può non essere vista come un’atroce violazione dei diritti delle bambine, ma che spesso le stesse donne mutilate vogliono portare avanti.

Secondo lo studioso Michael Ignatieff, il miglior modo per superare le sfide culturali di cui si è parlato, è ammettere che effettivamente i diritti umani hanno una natura individualistica che è prettamente occidentale. È proprio questa natura che ha potuto offrire un’alternativa contro la tirannia e la coercizione. Essa non prescrive un ordine sociale “positivo” – continua lo studioso – ma sottolinea solo quello che non deve essere in nome della salvezza della persona.

Per questo è importante che il dibattito sui diritti umani non si legga come uno scontro morale tra l’Occidente e il resto del mondo, ma resti – pur con i suoi limiti – universale.

giuliaclarizia

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