Nonsidice. Tre quarti degli italiani non crede più al posto stabile

-di GIORGIO BENVENUTO e SANDRO ROAZZI-

“La cosa più importante della vita è la scelta di un lavoro, ed è affidata al caso”. Potrebbe benissimo essere una considerazione dell’oggi invece ha qualche secolo sulla groppa visto che è stata scritta da Blaise Pascal. Secondo un recente studio del Randstad workmonitor il 74% degli italiani sarebbe ormai rassegnato ad accontentarsi di un lavoro a termine, mentre non crede più alla prospettiva di un lavoro stabile che accompagni la propria vita e che invece era in cima ai desideri delle generazioni precedenti. Appena uno 0,1% in più della media mondiale.

Un senso di instabilità assai diffuso che comporta non poche conseguenze sulle quali forse si riflette poco. Un sondaggio promosso da La Repubblica ci svela parallelamente una verità che ormai è diventata opinione comune: il 73% dei giovani dai 24 ai 35 anni concorda con l’idea che per fare carriera si deve andare all’estero. E non a caso siamo tornati ad essere un Paese di emigranti: se ne sono andati più di centomila nel 2016, probabilmente perché le sirene della ripresa economica non erano abbastanza… forti. Se ne vanno giovani, istruiti, con professionalità che forse farebbero comodo in Italia. Come meravigliarsi allora che sempre secondo quel sondaggio il 61% della popolazione esprima un parere che suona a condanna delle classi dirigenti in quanto racchiude la convinzione che nel futuro la posizione sociale dei giovani di oggi sarà peggiore di quella di chi li ha preceduti?

Precarietà, instabilità, sfiducia. Le rilevazioni statistiche per ora almeno non riescono a disfarsi di questi termini. L’orizzonte del lavoro si è fatto piccolo, altro che globalizzazione. Le ambizioni diminuiscono, il fatalismo si insinua nella vicende economiche e sociali. Uno scenario che non è dei migliori, ma che dovrebbe suscitare non il pressapochismo di qualche tweet, bensì una reazione forte, motivata, una sorta di ribellione civile che abbia l’obiettivo di recuperare agli onori della cronaca e del futuro, la parola che non suscita più emozioni: la speranza. Anche perché un conto è vivere diverse esperienze di lavoro entro un contesto che favorisce questa mobilità senza angosce ed esclusioni, altro è immaginare la stabilità come un miraggio in una economia nella quale al dunque l’obiettivo diventa quello di abbandonare i propri sogni e salire sulla zattera della sopravvivenza.

Anche perché se così non sarà si profileranno altre conseguenze da evitare. Perché se… l’abito da lavoro è costituito dalla precarietà anche i comportamenti sul lavoro finiranno per prendere una deriva che già si avverte in taluni comportamenti. In primo luogo emerge un individualismo motivato non da ambizioni, ma dalla ricerca di una necessaria difesa personale ad oltranza di quel che si ha. Segue a ruota forse il peggiore consigliere di un lavoratore vale a dire l’accettazione della riduzione del salario pur di resistere là dove si è. Ed è parente prossimo di questo cedimento anche quello di accettare un lavoro demansionato, purché sia lavoro in quella azienda. Intendiamoci in fasi contingenti tutto è buono pur di non far sparire opportunità di lavoro, sempre che però questo andamento non diventi prassi generalizzata anche perché finirà per complicare anche il ruolo negoziale del sindacato. Perché al fondo questa epoca di… remissività del lavoro fa male a tutti. Fa male all’economia perché al dunque finirà per consolidare ancor di più le rendite e restringere il territorio della creazione del lavoro; fa male sul piano sociale con le piaghe della precarietà e delle inevitabili diseguaglianze; fa male alle relazioni industriali perché rischia di ingessare i confronti ed i negoziati in schemi che certamente non guardano alla partecipazione ed ai cambiamenti in atto. Sono tracce per ora, ma ci sono. Sarebbe bene non farle diventare una direzione di marcia.

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