-di ANTONIO MAGLIE-
Il suicidio di Theresa May, la resurrezione di Jeremy Corbyn e dei laburisti. Questa volta, un anno dopo il referendum sulla Brexit, i sondaggi della vigilia non hanno sbagliato. E nemmeno i primi exit poll che alla chiusura dei seggi, cioè alle 23 ora italiana (22 britannica) di ieri assegnavano 314 seggi ai conservatori, 266 ai laburisti, 34 al partito scozzese, 14 ai liberali e zero all’Ukip, il trionfatore (non solo morale) nella consultazione che segnò l’addio di Londra all’Unione Europea.
Nella notte, i dati reali hanno confermato le previsioni con qualche piccolo aggiustamento: i conservatori che avrebbero dovuto stravincere si sono fermati a poco più del 42 per cento e hanno ottenuto 318 seggi (non hanno la maggioranza in Parlamento, 326 seggi, avendone persi tredici rispetto alle precedenti elezioni); i laburisti di Jeremy Corbyn hanno ottenuto la prima grande avanzata dopo quella del 1997 quando a Downing Street entrò Blair: si sono assicurati oltre 261 seggi (ventinove in più). Male il partito nazionale scozzese di Nicola Sturgeon che perde 21 seggi (35 in tutto) scendendo al tre per cento (contro il 4,74 del 7 maggio 2015); benino i liberali che conquistano 12 seggi (4 in più, 7 per cento, più o meno come due anni fa)); bene i conservatori nord-irlandesi del Dup, il partito unionista democratico (quasi 1 per cento, 10 seggi, due in più) che hanno immediatamente accettato l’invito a partecipare a un governo di coalizione che poggia su una maggioranza a dir poco esile (due seggi appena).
La May (che non si è dimessa provvedendo immediatamente a creare una nuova maggioranza e un nuovo esecutivo, potrebbe comunque essere invitata nelle prossime settimane dal suo partito a far le valigie: tra i candidati all’ipotetica successione Boris Johnson, Amber Rudd, David Davis e Michael Fallon) ha replicato un anno dopo la vocazione al suicidio manifestata dal suo predecessore, David Cameron: ha indetto le elezioni anticipate (al pari di quel che fece il collega con un referendum che nessuno gli imponeva) per conquistare una larga maggioranza (all’epoca i sondaggi davano il suo partito molto oltre il 40 per cento, solo all’inizio della campagna elettorale i sondaggi indicavano un vantaggio di dodici punti su Corbyn: si sono ridotti a due) per ritrovarsi sulle posizioni di partenza, se non peggio. Corbyn che sembrava destinato a organizzare il funerale del Labour (almeno questo pensavano gli orfani inconsolabili di Tony Blair), è riuscito nell’impresa di rilanciarlo.
E la sua parabola ricorda quella di Bernie Sanders (anche anagraficamente parlando: un anziano che affascina l’elettorato giovane, anche in questo caso vero motore dell’imprevisto successo). E, in qualche misura, anche quella di Jean Luc Mélenchon. Parabole che se osservate in controluce con quelle dei partiti socialisti francese, olandese, greco e spagnolo raccontano una sinistra che riesce a ritrovare un posto al tavolo della politica con un ruolo da protagonista, di interlocutore credibile di una società carica di ansie, nel momento in cui riscopre la sua anima sintonizzandosi con le attese del popolo, nel momento in cui riesce a declinare le paure in chiave popolare battendo, così, le scorciatoie populiste venate spesso di xenofobia e fascinazione per l’uomo forte. Viviamo in un’epoca in cui la gente chiede lavoro e tutele, redistribuzione del reddito e welfare. Il voto britannico ha un segno chiarissimo: la gente è stanca delle politiche di austerità imposte da un sistema finanziario che sottraendo pezzi sempre più ampi di sovranità da un lato condiziona pesantemente le scelte dei governi in senso duramente conservatore e dall’altro, collaborando con una minoranza di privilegiati al tavolo di poker del sistema mondiale, impoverisce la stragrande maggioranza garantendo una strampalata redistribuzione della ricchezza secondo la spregiudicata logica del “togliere ai poveri o, comunque, ai meno abbienti, per dare ai ricchi”. In questo quadro, l’epoca delle illusorie “terze vie” è finita perché non erano “vie” ma solo vicoli ciechi che conducevano direttamente alla subalternità culturale rispetto alle ideologie dominanti di una globalizzazione selvaggia, giocata tutta sulla svalutazione del lavoro e la precarizzazione della vita in ossequio ai principi iper-liberisti di cui l’Unione Europea si è fatta volenterosa e burocratica portavoce.
Emerge con chiarezza un dato: il centro è solo un un luogo geometrico, non politico né ideologico perché la polarizzazione della ricchezza ha determinato una polarizzazione delle posizioni e delle condizioni sociali; la lotta di classe non è finita come dice Warren Buffet, si è solo trasformata coinvolgendo una pluralità di ceti che hanno solo bisogno di una proposta compiuta in grado guidarli verso un obiettivo unitario, capace di ispirare una visione nuova e più equilibrata di società in netta rottura, se non in contrapposizione, a quella forgiata da un decennio di crisi e da un quarto di secolo di bolle finanziarie; dunque non più solo la classe operaia ormai numericamente minoritaria, ma tutte quelle classi che vivono con angoscia la quotidianità, compreso quel famoso ceto media da sempre spina dorsale delle grandi democrazie progressivamente indebolito dai tagli ai salari e alla spesa sociale, una debolezza pericolosa anche sul terreno dei diritti e delle libertà perché causa della sofferenza dei sistemi democratici spinti progressivamente verso derive oligarchiche o addirittura marcatamente autoritarie.
La Gran Bretagna con l’eclisse dell’Ukip, potrebbe segnalare, un anno dopo la Brexit, un altro cambio del vento politico. E se le presidenziali francesi sono apparse come il de profundis dei partiti tradizionali, la consultazione britannica potrebbe sottolineare la rinascita proprio dei partiti tradizionali con un confronto politico incentrato sui due storici partiti di quel paese, laburisti e conservatori che nelle urne hanno ambedue, paradossalmente, guadagnato consensi (quasi il dieci per cento i primi visto che con Ed Milliband si fermarono a poco più del 30 e ora sono al 39,98; quasi il sei i secondi comunque attestati a poco più del 42).