Falcone: “Perché servono le leggi sui pentiti”

 

-di GIOVANNI FALCONE*-

Vorrei leggervi una lettera, da me ricevuta giorni addietro, che è stata redatta da terroristi dissociati; la stessa è stata indirizzata, oltre che a me, anche ad altri colleghi, quali Caselli, Vigna, Napolitano, Imposimato. Ve la leggo perché penso che racchiuda in sé proprio la tematica di questo nostro incontro, e soprattutto perché costituisce, a mio avviso, un’analisi molto lucida di tutti i problemi che stanno venendo fuori nel corso di questo dibattito.

Inizia (naturalmente vi leggerò solo i passi più essenziali) così: “Noi ex militanti di organizzazioni armate, ovvero detenuti con particolare posizione processuale, nel nostro iter giudiziario e carcerario abbiamo avuto modo di constatare che l’impegno, la perseveranza, l’intelligenza di alcuni magistrati sono stati determinanti e preponderanti nella lotta all’eversione. Serve ricordare sempre che taluni di essi hanno perso la vita per questo. Questi magistrati, che hanno attraversato momento per momento l’eversione con le loro indagini sviscerando e dipanando problematiche mai affrontate sino ad allora nella nostra Repubblica, hanno condizionato anche la legislazione d’emergenza determinando temporalmente gli strumenti adeguati per affrontare e risolvere il problema. La crisi politico-militare e organizzativa delle bande armate è frutto dell’opera investigativa degli inquirenti e della comprensione politica del problema da parte dello Stato che ha adeguatamente legiferato. Il terrorismo però nasce e si innesta su problematiche sociali rimaste in gran parte tuttora insolute e che sono ugualmente l’humus della nascita e della riproduzione della criminalità mafiosa e camorristica. I magistrati impegnati nella lotta all’eversione si sono trovati nelle loro inchieste di fronte ad episodi e sintomi di collusione del terrorismo con la criminalità organizzata”.

E si fanno alcuni esempi: le Unità combattenti comuniste ebbero rapporti delinquenziali, che sfociarono in una rapina al “Club Mediterranée” di Nicotera Marina nell’agosto del ’77, con elementi calabresi appartenenti a cosche operanti nella piana di Gioia Tauro; i collegamenti tra movimento politico Ordine nuovo e banda Vallanzasca; i rapporti fra Stefano Delle Chiaie e personaggi della mafia siculo-americana; i rapporti tra appartenenti ai Nar ed esponenti del clan Giuseppucci-Balducci-Abbruciati; la fornitura da parte di Frank Coppola e del suo clan ad appartenenti al movimento politico Ordine nuovo; i proficui rapporti intercorrenti fra Brigate rosse e organizzazioni criminali risalenti al sequestro-Cirillo; le notevoli connessioni fra Brigate rosse e non meglio identificati esponenti della ‘ndrangheta calabrese; il caso Ligas-Pittelli.

Perché si dice questo? “E proprio da tali considerazioni che sono scaturite le speculazioni su chi collabora con la giustizia, operate da personaggi aventi un marcato interesse alla omertà e tendenti quindi ad evitare nuove norme giuridiche che facilitino il chiarimento su connubio tra potere politico e mafia. Gli stessi giudici che operano durante gli anni più cruenti del terrorismo si ritrovano nella condizioni di solitudine ad istruire processi contro la criminalità organizzata”. E poi vi è un passo estremamente importante che condivido e sottoscrivo in pieno: “I problemi che vengono posti in luce sotto la dicitura “emergenza” sono invece dato strutturale della società italiana. In questo senso il richiamo alla emergenza si pone come tentativo di risanamento morale, politico ed economico del Paese e non come strumento di paralisi della dialettica politica, elemento essenziale fisiologico del corretto rapporto tra maggioranza e opposizione. Pertanto, discutere di emergenza sì emergenza no è una mera strumentalizzazione dei problemi del Paese. La necessità di moralizzare la vita pubblica italiana è sempre emergente e lo Stato deve stringersi attorno a quegli uomini che lavorano con abnegazione nel rispetto della legalità, della democrazia e della Carta costituzionale”.

Ed è proprio per rispettare la legalità che noi siamo qui riuniti e sottolineiamo da tempo la esigenza di norme che agevolino un rapporto più corretto con coloro che intendono collaborare con la giustizia. Non c’è affatto una volontà, una tendenza a indulgere in scorciatoie pericolose. Ed è assolutamente inesistente, per quanto mi risulta, una “cultura del pentitismo”, un voler credere ciecamente e acriticamente in quello che ci viene rivelato. E non mi si dica che negli Stati Uniti proprio perché vi sono soggetti che collaborano maggiormente con la giustizia non si fanno più indagini. Il tipo di indagini che personalmente ho potuto constatare e la qualificazione professionale e le attrezzature tecniche esistenti negli Stati Uniti sono veramente a un livello molto superiore rispetto a quello che abbiamo noi; e debbo dire che talora le indagini e le acquisizioni processuali che noi facciamo in Italia in ordine a gravi reati non sono altro che un riflesso di quello che apprendiamo altrove. Io non penso che ci sia qualcuno che possa seriamente e in buona fede pensare che un magistrato degno di questo nome possa adempiere in questa maniera il suo dovere.

In realtà le norme premiali servono soprattutto a eliminare sacche di illegalità strisciante che noi ogni giorno siamo costretti a dover constatare. Quante volte abbiamo constatato l’esistenza di un rapporto poco chiaro fra polizia e confidente, che poi è sempre il rapporto tra il maresciallo Tizio o l’appuntato Caio e quel singolo confidente? Tante volte ci si dimentica che la facoltà dell’ufficiale di polizia di non rivelare il nome del confidente non significa affatto copertura del reato dallo stesso commesso, che si ha sempre l’obbligo giuridico di perseguire e denunziare. Quante volte ci siamo trovati sul nostro tavolo un processo per sequestro di eroina o di altro stupefacente senza riuscire a capire da dove è partita l’operazione, come si è sviluppata e chi ha fatto la soffiata? E chi ha fatto la soffiata non può essere altro che una persona stabilmente inserita nell’organizzazione. Il confidente, purtroppo, da noi in Italia non è come il confidente negli Stati Uniti, il quale si trova schedato, ha un proprio numero di codice, è il confidente del Governo americano, ha ben precisi obblighi e ben precisi diritti. Le norme premiali per chi collabora con la giustizia, dunque, servono per fare chiarezza, per stabilire che il rapporto fra chi collabora e il magistrato deve essere un rapporto regolamentato dalle leggi.

Pensavo che su questi principi ci fosse anche l’accordo del Ministero dell’interno, ove si consideri che più volte ci siamo incontrati con il ministro Scalfaro e abbiamo appreso che egli era totalmente d’accordo con le nostre considerazioni; mentre oggi dalla relazione di un qualificato esponente del Ministero dell’interno – che debbo ritenere che non parli a titolo personale – mi sembra di cogliere delle perplessità, dei ripensamenti. Da parte mia, credevo che ci si fosse riuniti non per discutere ancora sull’opportunità di queste norme premiali, bensì sui mezzi tecnici più adeguati per introdurre norme siffatte nell’ordinamento vigente”.

Vorrei accennare, poi, ad alcuni dei tanti e delicati problemi che chiunque svolge indagini istruttorie di respiro internazionale deve affrontare. Giorni addietro, per esempio, nell’interrogare un imputato di traffico di stupefacenti negli Stati Uniti, abbiamo appreso dai suoi avvocati che desideravano un nostro impegno scritto a non richiedere la estradizione; impegno che ovviamente non potevamo rilasciare e che in ogni caso non avrebbe avuto alcun valore giuridico. Altro problema riguarda (e questo lo ha ricordato egregiamente il collega Scotti) la possibilità di concessione dell’immunità che da non non esiste: pertanto, accade molto spesso che un soggetto collabori con la giustizia negli Usa, e in Italia si guardi bene dal fare qualsiasi ammissione, perché ciò significherebbe l’inizio dell’azione penale nei suoi confronti. Tutto ciò comporta degli attriti fra le polizie e la magistrature dei diversi Paesi; è evidente, infatti, che vi saranno sempre, ad esempio, delle resistenze a comunicare determinati fatti – ammessi da coloro che collaborano, previa concessione della impunità con la giustizia americana – fin quando ciò inevitabilmente produrrà un procedimento penale in Italia contro coloro che hanno collaborato. Senza dire di tanti altri problemi come, ad esempio, la possibilità di fare consegne controllate e di acquistare partite di stupefacenti, di non sequestrare la droga ma di farla proseguire fino all’estero per individuare altri anelli dell’organizzazione. Nessun procuratore della Repubblica attualmente si sognerebbe, ad esempio, di autorizzare che un corriere di eroina anziché essere arrestato in Italia venga fatto proseguire per l’estero al fine di individuare altri trafficanti, perché poi gli si addebiterebbe, quanto meno, una omissione di atti di ufficio.

Ebbene, di fronte a problemi tanto complessi di armonizzazione di ordinamenti giuridici ispirati a principi diversi – armonizzazione resa necessaria dalle stesse dimensioni internazionali della criminalità organizzata – io ritengo che una saggia introduzione di norme generali di natura premiale per chi collabora con la giustizia, oltre a non ledere alcun principio costituzionale, consentirebbero, fra l’altro, di fare un notevole passo avanti nella collaborazione giudiziaria internazionale e, in definitiva, si risolverebbe in una maggiore incisività globale dell’azione della magistratura per la repressione del fenomeno della criminalità organizzata.

* Giovanni Falcone: “La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia”, presentazione di Giuseppe D’Avanzo, prefazione di Maria Falcone; Bur Biblioteca Universale Rizzoli e Fondazione Giovanni e Francesca Falcone; 2010, pp 379, euro 11,90; titolo originale dell’intervento: “Una legislazione premiale per i pentiti di mafia”

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