Il Papa sferza i leader europei: Puntate sull’uomo

Non usa giri di parole, non indietreggia di un millimetro, il tono è perentorio quando afferma che l’Europa deve evitare la “tentazione di ridurre gli ideali fondativi dell’Unione alle necessità produttive, economiche e finanziarie”; per ritrovare la sua anima deve mettere al centro “l’uomo”. I leader europei che ieri il Papa ha incontrato nella sala Regia pensavano forse a un incontro rituale. Invece è stata una lezione: chiara, semplice, anche dura. Papa Francesco conferma di essere l’unico grande leader mondiale in questo tempo popolato di comparse che faticano persino a diventare comprimari. Lui ha una visione, ha un programma; davanti a lui, invece, anime dimesse, annegate nella gestione della bottega elettoralistica. Il suo messaggio capovolge l’impostazione delle Merkel e degli Junker; al contrario dei documenti che i leader producono, il suo “programma” è carico di questioni sociali. È pieno di quel “nuovo umanesimo” europeo che, al contrario, non sembra sfiorare le menti di chi lo ascoltava. Dice: che l’Europa può essere vitale solo se ritrova la solidarietà: “Tale spirito è quanto mai necessario oggi, davanti alle spinte centrifughe come pure alla tentazione di ridurre gli ideali fondativi dell’Unione alle necessità produttive, economiche e finanziarie. Dalla solidarietà – ha sottolineato il pontefice – nasce la capacità di aprirsi agli altri”.

Condanna senza appello l’interpretazione burocratica che gli eredi hanno dato dell’Unione: “I Padri fondatori ci ricordano che l’Europa non è un insieme di regole da osservare, non un prontuario di protocolli e procedure da seguire. Essa è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere, o di pretese da rivendicare. Se fu chiaro fin da principio che il cuore pulsante del progetto politico europeo non poteva che essere l’uomo, fu altrettanto evidente il rischio che i Trattati rimanessero lettera morta. Essi dovevano essere riempiti di spirito vitale”.

Dice ai suoi interlocutori di non considerare questo ritorno a Roma come una gita di piacere, come un rito da onorare e poi si torna tutti alle vecchie consolidate abitudini: “Ritornare a Roma sessant’anni dopo non può essere solo un viaggio nei ricordi, quanto piuttosto il desiderio di riscoprire la memoria vivente di quell’evento per comprenderne la portata nel presente. Occorre immedesimarsi nelle sfide di allora, per affrontare quelle dell’oggi e del domani. Non si può comprendere il tempo che viviamo senza il passato, inteso non come un insieme di fatti lontani, ma come la linfa vitale che irrora il presente”. E insiste sull’umanesimo: i Padri fondatori “apponendo la propria firma sui due Trattati, hanno dato vita a quella realtà politica, economica, culturale, ma soprattutto umana, che oggi chiamiamo Unione Europea”.

Invita a non dare nulla per scontato ricordando che far cadere il muro di Berlino costò fatica “eppure oggi” se ne è persa la memoria e “si è persa pure la consapevolezza del dramma di famiglie separate, della povertà e della miseria che quella divisione provocò. In un mondo che conosceva bene il dramma di muri e divisioni, era ben chiara l’importanza di lavorare per un’Europa unita e aperta”. E ancora: “Nel vuoto di memoria che contraddistingue i nostri giorni, spesso si dimentica anche un’altra grande conquista frutto della solidarietà sancita il 25 marzo 1957: il più lungo tempo di pace degli ultimi secoli. La pace è un bene prezioso ed essenziale, poiché senza di essa non si è in grado di costruire un avvenire per nessuno e si finisce per vivere alla giornata”. Un grande lascito mentre invece oggi in tanto considerano la cosa scontata.

Invita i leader a essere ambiziosi a cercare il futuro “proprio nei pilastri sui quali essi (i fondatori, n.d.r.) hanno inteso edificare la Comunità economica europea: la centralità dell’uomo, una solidarietà fattiva, l’apertura al mondo, il perseguimento della pace e dello sviluppo, l’apertura al futuro. A chi governa compete discernere le strade della speranza, questo è il vostro compito, identificare i percorsi concreti per far sì che i passi significativi fin qui compiuti non abbiano a disperdersi, ma siano pegno di un cammino lungo e fruttuoso”.

Ambizione e, soprattutto speranza: “L’Europa ritrova speranza quando non si chiude nella paura di false sicurezze… non ci si può limitare a gestire la grave crisi migratoria di questi anni come fosse solo un problema numerico, economico o di sicurezza. La questione migratoria pone una domanda più profonda, che è anzitutto culturale”. La ricchezza dell’Europa è stata sempre la sua “apertura” e invece “il benessere acquisito sembra averle tarpato le ali e fatto abbassare lo sguardo”. E così la paura dell’altro, a partire dai migranti che bussano alle porte dell’Europa “trova nella perdita d’ideali la sua causa più radicale”.

Solo in un modo si ritrova la strada giusta: “L’Europa ritrova speranza quando l’uomo è il centro e il cuore delle sue istituzioni” e per questo bisogna tornare all'”ascolto attento e fiducioso delle istanze che provengono tanto dai singoli, quanto dalla società e dai popoli che compongono l’Unione. Purtroppo, si ha spesso la sensazione che sia in atto uno ‘scollamento affettivo fra i cittadini e le Istituzioni europee, sovente percepite lontane e non attente alle diverse sensibilità che costituiscono l’Unione. Affermare la centralità dell’uomo significa anche ritrovare lo spirito di famiglia, in cui ciascuno contribuisce liberamente secondo le proprie capacità e doti alla casa comune” perché “l’Unione Europea nasce come unità delle differenze e unità nelle differenze. Le peculiarità non devono perciò spaventare, né si può pensare che l’unità sia preservata dall’uniformità. Essa è piuttosto l’armonia di una comunità”.

La speranza è l’unica medicina possibile per guarire l’Unione: “L’Europa ritrova speranza nella solidarietà, che è anche il più efficace antidoto ai moderni populismi” perché “i populismi fioriscono dall’egoismo, che chiude in un cerchio ristretto e soffocante e che non consente di superare la limitatezza dei propri pensieri e ‘guardare oltre. Occorre ricominciare a pensare in modo europeo” e “alla politica spetta tale leadership ideale, che eviti di far leva sulle emozioni per guadagnare consenso”

Ma la speranza va coltivata. Non ha dubbi il Papa: “L’Europa ritrova speranza quando si apre al futuro. Quando si apre ai giovani, offrendo loro prospettive serie di educazione, reali possibilità di inserimento nel mondo del lavoro. Quando investe nella famiglia, che è la prima e fondamentale cellula della società. Quando rispetta la coscienza e gli ideali dei suoi cittadini. Quando garantisce la possibilità di fare figli, senza la paura di non poterli mantenere. Quando difende la vita in tutta la sua sacralità”. Sottolinea una contraddizione il Pontefice tra il passato e il presente perché se i padri fondatori volevano”veder cadere i segni di una forzata inimicizia, ora si discute di come lasciare fuori i pericoli del nostro tempo: a partire dalla lunga colonna di donne, uomini e bambini, in fuga da guerra e povertà, che chiedono solo la possibilità di un avvenire per sé e per i propri cari”.

Ma il Papa fornisce anche la sua interpretazione di quella fedeltà alle radici cristiane che non ha nulla a che vedere con l’integralismo strumentale di alcuni “nuovi crociati”. Dice Francesco: ad animare i fondatori “era lo spirito di servizio, unito alla passione politica, e alla consapevolezza che all’origine della civiltà europea si trova il cristianesimo, senza il quale i valori occidentali di dignità, libertà e giustizia risultano per lo più incomprensibili”. Ma, ha aggiunto, “nel nostro mondo multiculturale tali valori continueranno a trovare piena cittadinanza se sapranno mantenere il loro nesso vitale con la radice che li ha generati. Nella fecondità di tale nesso sta la possibilità di edificare società autenticamente laiche, scevre da contrapposizioni ideologiche, nelle quali trovano ugualmente posto l’oriundo e l’autoctono, il credente e il non credente”.

Passato, presente e futuro si legano nel discorso del Pontefice che sottolinea come in questi sessant’anni l’Europa sia cambiata e se allora i Padri fondatori, dopo la guerra, speravano e lavoravano per un futuro migliore, “il nostro tempo è più dominato dal concetto di crisi”, economica, della famiglia, delle istituzioni, dei migranti, “tante crisi, che celano la paura e lo smarrimento profondo dell’uomo contemporaneo”. Ma per Francesco le crisi possono indurre al “discernimento che ci invita a vagliare l’essenziale e a costruire su di esso: è dunque un tempo di sfide e di opportunità”.

Infine l’appello a non scambiare questo appuntamento in un rito, in una gita di piacere: “Ritornare a Roma sessant’anni dopo non può essere solo un viaggio nei ricordi, quanto piuttosto il desiderio di riscoprire la memoria vivente di quell’evento per comprenderne la portata nel presente. Occorre immedesimarsi nelle sfide di allora, per affrontare quelle dell’oggi e del domani. Non si può comprendere il tempo che viviamo senza il passato, inteso non come un insieme di fatti lontani, ma come la linfa vitale che irrora il presente”, E chiude ancora una volta insistendo sul nuovo umanesimo: i Padri fondatori “apponendo la propria firma sui due Trattati, hanno dato vita a quella realtà politica, economica, culturale, ma soprattutto umana, che oggi chiamiamo Unione Europea”.

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