Industria, l’Italia che si vende e si impoverisce

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-di GIULIA CLARIZIA-

Lo scorso 16 gennaio, è stato siglato un accordo di fusione tra l’italiana Luxottica e la francese Essilor, grandi industrie nell’ambito dell’occhialeria. L’azienda italiana in vista di un ricambio generazionale alla sua guida (il presidente Del Vecchio ha attualmente 81 anni), ha deciso infatti di cedere parte del potere decisionale all’azienda francese, al fine di creare un gigante industriale presente in più di 150 paesi e con 140 mila collaboratori. Successivamente, l’azienda ha a sua volta acquisito la brasiliana Oticas Carol accrescendosi ancora di più. Se da un lato quindi il suo fatturato cresce, così come le sue quotazioni in borsa, il made in Italy continua a perdere il suo peso.

Questo infatti sono solo uno dei tanti accordi che negli ultimi anni hanno assestato duri colpi all’industria italiana. Ciò avviene anche per aziende che offrono servizi strettamente legati al nostro paese, come la Telecom, rete telefonica su scala nazionale venduta ai francesi o l’Alitalia, la nostra compagnia di bandiera finita nel portafoglio di Etihad (Emirati Arabi Uniti), così come la vecchia Banca Nazionale del Lavoro ora gestita dalla BNP Paribas.

Ma non solo. Se le eccellenze italiane sono la moda e il cibo, sarebbe logico pensare che queste vengano gelosamente custodite come tali. E invece, tra i grandi nomi ormai nelle mani del capitale straniero abbiamo marchi come Gucci e Valentino. La Nestlé, multinazionale che tra l’altro ha una pessima reputazione dal punto di vista delle politiche e delle materie prime utilizzate, ha acquisito la Buitoni, i Baci Perugina e San Pellegrino.

Se ne potrebbero citare molte altre. Solo tra il 2008 e il 2012 le aziende vendute sono state 437, ed il numero è continuato a crescere.

C’è da chiedersi allora quali sono le cause e le conseguenze di questo fenomeno. L’aumento esponenziale delle vendite a investitori stranieri si pone in parallelo con la crisi economica del 2008. Tale crisi è stata sofferta dalle industrie italiane più profondamente rispetto alle sorelle europee. Infatti, se dopo la diffusione della moneta unica in Italia la borsa era salita del 125% e le aziende erano in ripresa (infatti in quel periodo le vendite erano al minimo), poi con la crisi economica il valore delle imprese italiane è crollato del 55%, contro il 17% e 25% di quelle francesi e spagnole. Questo ha comportato che le industrie italiane sia pubbliche che private, sul mercato internazionale si sono svalutate e quindi sono diventate acquistabili da investitori stranieri a prezzi convenienti.

Secondo alcuni, questo sarebbe un dato positivo. I capitali stranieri infatti avrebbero salvato le industrie italiane in crisi e quindi non solo garantito la loro sopravvivenza, ma anche salvato posti di lavoro e accresciuto il fatturato. Anche se poi storie come quella dell’Alcoa ci dicono che i posti vengono salvati per un tempo breve, sin quando c’è la convenienza e poi vengono cancellati senza problemi.

Gli investimenti stranieri sono utili e produttivi sino a quando raggiungono un paese con un forte sistema industriale, con una presenza ampia, maggioritaria di imprenditori locali, altrimenti si finisce per restare in mezzo ai venti della globalizzazione.

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