Xi Jinping ovvero “capitalisti di tutto il mondo unitevi”

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-di ANTONIO MAGLIE-

Dall’internazionalismo proletario all’internazionalismo capitalistico. In fondo, a suo modo Xi Jinping è coerente. È apparso davanti alla platea del Forum di Davos (per Luciano Gallino una sorta di congresso annuale del partito della finanza transnazionale) e ha tessuto le lodi, lui figlio di un mondo sino a qualche decennio fa molto chiuso, di un pianeta senza confini economici; lui il segretario di un partito che voleva unire i lavoratori di tutto il mondo, ha fatto appello all’unione dei capitalisti di tutto il pianeta spiegando: “È vero che la globalizzazione ha creato nuovi problemi ma questa non è una giustificazione per cancellarla, quanto piuttosto per adattarla”. E ha aggiunto: “Piaccia o no, l’economia globale è l’enorme oceano dal quale nessuno può tirarsi fuori completamente”. Peccato che alcuni lo solchino in yacht transatlantici e altri in barconi che affondano trasformando tratti di mare come il canale di Sicilia in cimiteri sommersi.

Bisogna capirlo, il presidente cinese nonché segretario del partito comunista: l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca ha fatto tornare di moda parole come dazi, protezionismo, confini serrati. Per la Cina una prospettiva simile corrisponderebbe a un terribile problema.

Ma se, come Xi Jinping ha sostenuto, non si può pensare di chiudere la tempesta fuori dalla porta senza correre il rischio che poi nella stanza non entri nemmeno l’aria, non si può neanche pensare che la globalizzazione possa essere superficialmente risistemata con un intervento di manutenzione ordinaria. L’unica globalizzazione che il mondo ha vissuto (e il presidente cinese lo sa bene) è quella del capitale a discapito di quella sociale. Si è affermata (come sanno benissimo a Pechino) sulla compressione dei diritti (fabbriche trasformate in veri e propri campi di lavoro), sul dumping sociale, sul dimagrimento delle buste-paghe, su una libertà di delocalizzazione che è diventata libertà assoluta di licenziamento, su forme nuove di schiavitù (si calcola che nel mondo ventuno milioni di lavoratori versino in queste condizioni garantendo profitti per 150 miliardi di dollari).

Provi Xi Jinping a spiegare ai 1600 lavoratori licenziati di Almaviva o agli operai dell’Alcoa che il benessere consiste nella possibilità di chiudere un capannone qui perché un po’ più avanti c’è qualche altro Paese che ti consente di aprirlo a condizioni migliori cioè “sfruttando” meglio le persone e, per giunta, garantendoti qualche sconto fiscale.

Lo ha spiegato con grande chiarezza il rapporto che Osxfam ha reso significativamente pubblico proprio in occasione dell’apertura del Forum di Davos: la globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta sino ad ora è l’economia dell’un per cento, è il mondo in cui otto ricchi possono contare su un patrimonio pari alla somma dei patrimoni della metà più povera del mondo, cioè tre miliardi e mezzo di persone per essere un po’ più chiari. Non si tratta, come dice il presidente cinese, di “adattarla”, si tratta di riformarla, profondamente; si tratta di costruire prima di tutto un quadro sociale da cui far dipendere le regole della produzione e del commercio; non ci si può più limitare a “correggere”, bisogna completamente riformare elaborando un un alfabeto di diritti che riguardi sei miliardi e novecentotrenta milioni di cittadini di questo pianeta e non i settanta più favoriti dalla sorte, dagli intrallazzi e dalla assidua e felice frequentazione dei paradisi fiscali.

Perché non è una globalizzazione accettabile quella che, ad esempio, prevede che del prezzo all’ingrosso di un iPhone della Apple (che in Cina produce gran parte dei pezzi che lo compongono) il 58,5 per cento si trasformi in profitto e solo il 5,3 per cento venga utilizzato per retribuire il lavoro. In questa semplice sproporzione ci sono proprio tutte le motivazioni di un mondo profondamente diseguale, di una globalizzazione malata costruita non per gli uomini ma contro gli uomini, di un sistema che ha premiato pochissimi (gli americani più ricchi che in trent’anni hanno visto aumentare i propri redditi del 300 per cento) a discapito di moltissimi (la metà più povera degli Usa negli ultimi trent’anni non ha visto aumentare la propria ricchezza nemmeno di un centesimo di dollaro, come si diceva un tempo a scuola: zero carbonella).

I confini sono crollati ma nella maggioranza dei casi sulle teste delle persone. E, allora, non basta una semplice manutenzione, occorre una rivoluzione diversa ma non meno profonda di quella che gli antenati politici di Xi Jinping promettevano alcuni decenni fa non sapendo che un giorno il loro discendente avrebbe dalla tribuna di Davos lanciato un nuovo appello rivolgendosi, però, a George Soros, Warren Buffet, Tim Cook, Jack Ma, Bill Gates e non ai derelitti della terra: Capitalisti di tutto il mondo unitevi, avete solo da guadagnare. In fondo lo avete già fatto. In abbondanza.

antoniomaglie

One thought on “Xi Jinping ovvero “capitalisti di tutto il mondo unitevi”

  1. Un plauso, come sempre, per quanto scritto. Sono poi delle chiare verità ed è mai possibile che la gente non si sdegni di tutto ciò? Ho letto parte del rapporto Oxfam ed è inquietante. Come uscirne? Cordiali saluti.

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