Da un referendum a un altro tra i dilemmi della sinistra

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-di CESARE SALVI-

Il voto del 4 dicembre è stata una vittoria storica: per la seconda volta, dopo il no alla riforma di Berlusconi, la maggioranza del popolo italiano ha difeso il testo del 1948.

È bene ricordarlo, perché rischia di diffondersi un sentimento di delusione e di protesta perché a quel voto non ha fatto seguito il cambiamento politico, e soprattutto di politiche economiche e sociali, che molti sostenitori del no auspicavano ( e continuano ad auspicare).

Ma quel cambiamento non poteva essere il prodotto immediato del voto referendario; anche perché il no è stato il risultato di fattori diversi, e non unificabili, com’è del resto logico in un voto che ha ad oggetto il giudizio su un testo costituzionale, e non su un progetto politico, e ancor meno economico e sociale.

La crisi del governo Renzi era inevitabile, per le modalità con le quali la riforma è stata voluta e fatta votare al Parlamento dal suo governo, e prima ancora per la personalizzazione e l’impegno a dimettersi da parte del presidente del Consiglio durante la campagna elettorale.

D’altra parte, di fronte a due leggi elettorali così diverse come quelle in questo momento vigenti (proporzionale con alte soglie di sbarramento al Senato, ipermaggioritaria alla Camera) la richiesta del voto immediato (avanzata dalla maggior parte delle forze di opposizione e dallo stesso Renzi) era irricevibile, tanto più essendo il c.d. Italicum in attesa del giudizio di legittimità da parte della Corte costituzionale.

C’è piuttosto da aggiungere che la responsabilità di questa situazione è del PD, che ha approvato una nuova legge elettorale solo per la Camera, come se la riforma fosse già in vigore (un discorso analogo vale per le provincie).

Era anche evidente, visti i numeri in Parlamento, che sarebbe spettato al PD e ai suoi alleati di centrodestra garantire un governo in carica per la fase (breve o lunga che sia) di vita di questa legislatura che è ancora necessaria.

Certo, ci si sarebbe potuto aspettare (prima ancora che auspicare) una maggiore discontinuità (nella composizione e nel programma) rispetto al governo precedente. Siamo invece in presenza di un governo fotocopia, come si sa.

Quello che colpisce di più, e che va maggiormente criticato, è che ciò si è verificato senza che nel PD vi sia stata finora una riflessione e un dibattito sulle ragioni del risultato del 4 dicembre. Un tempo, quando ancora esistevano i partiti, dopo ogni elezione o referendum si dedicavano lunghe e approfondite riunioni degli organi dirigenti per quella che veniva chiamata “analisi del voto”. Oggi tutto si è risolto in tre giorni di incontri riservati tra Renzi e i capicorrente (perché le correnti, invece, ci sono ancora), che ha portato come risultato il governo Gentiloni.

Eppure, materia per discutere e riflettere per il PD ci sarebbe stata. Come gli osservatori hanno segnalato, le ragioni della vittoria del no sono diverse (l’ostilità verso Renzi, l’ampiezza dello schieramento politico a favore del no, ecc.), ma un dato è incontrovertibile: il peso determinante che hanno avuto i giovani, e i ceti colpiti dalla lunga crisi economica e sociale, anzitutto nel Sud, ma anche nelle grandi periferie urbane.

In questo senso (ma solo in questo) vi sono punti di contatto con le vittorie della Brexit e di Trump.

Ora anche i commentatori dei grandi giornali si sono accorti dello stretto collegamento tra aumento delle diseguaglianze, del precariato e della povertà da un lato, e i nuovi orientamenti elettorali dall’altro.

Gli effetti sociali negativi della globalizzazione neoliberista determinano, in chi ne è colpito, sfiducia e protesta nei confronti delle élite, e quindi la ricerca di soluzioni politiche diverse da quelle proposte dalle élite.

Anche per questo è stato importante il ruolo svolto dalla sinistra per il no, sia nella sua espressione politica, sia soprattutto in quella sociale: l’Anpi, la Cgil, il sindacalismo di base, i comitati diffusi sul territorio che hanno segnalato, in centinaia di incontri e dibattiti, oltre al merito incredibilmente goffo e sballato dei contenuti della riforma, il nesso tra democrazia parlamentare e partecipata e i principi sociali dalla Costituzione (già colpiti dalla “riforma” dell’art. 81 della Costituzione, votata all’unanimità nella passata legislatura).

È evidente allora che il prossimo passaggio per il “no” di sinistra del 4 dicembre sarà  l’impegno per il “si” ai referendum sul lavoro promossi dalla Cgil. Sono già iniziate le grandi manovre per evitare questo appuntamento: dalla plateale dichiarazione del ministro Poletti, alle meno evidenti ma altrettanto insidiose prese di posizione di commentatori per indurre la Corte costituzionale a dichiarare inammissibile, nel prossimo gennaio, il quesito sull’art. 18.

E la sinistra politica? Vi sono novità, ma molti nodi devono essere sciolti. Che farà la sinistra del PD che fa capo a Bersani e Speranza? E il comitato promosso da D’Alema, che si darà una struttura permanente nei prossimi giorni? A sinistra del PD, d’altra parte, si delineano ipotesi diverse. La più debole mi sembra quella di Pisapia: un “campo progressista” collegato organicamente con il PD guidato da Renzi. Non basta infatti dire di no ad Alfano e Verdini (al secondo ci hanno già pensato il PD e Gentiloni), perché non sono stati loro a volere le scelte sociali di destra di questo triennio, delle quali il c.d. jobs act è la manifestazione più vistosa, ma non l’unica.

Un nuovo centro-sinistra non è in sé da demonizzare, naturalmente, ma richiede un nuovo orientamento nelle posizioni maggioritarie del PD sui temi economici e sociali, del quale non si avverte il minimo segnale.

Un secondo progetto immagina un collegamento con l’attuale sinistra PD, che presuppone però – per dirla apertamente – una scissione, che la minoranza di quel partito, almeno al momento, non sembra volere.

La terza posizione propone una soggettività politica (una lista, in termini elettorali) chiaramente alternativa non solo al PD, ma in generale alle politiche della globalizzazione neoliberista, e quindi all’Unione europea, almeno com’è oggi. Il problema di queste posizioni,  a tacere d’altro, è la concorrenza  del movimento 5 stelle.

Come si vede, una situazione complicata, e probabilmente le scelte, almeno nel breve periodo, saranno legate al mistero (ad oggi) circa la legge elettorale che uscirà dalla sentenza della Corte costituzionale di fine gennaio, e alle (eventuali) modifiche che vorrà introdurre il Parlamento.

A maggior ragione, in questo quadro di incertezza, la sinistra, nelle sue diverse componenti, ha comunque un compito: operare culturalmente e socialmente, utilizzando tutte le risorse disponibili, comprese quelle della democrazia diretta (referendum, ma anche iniziative legislative popolari, partecipazione alla vita politica delle città, ecc.) perché il “patriottismo costituzionale” manifestatosi il 4 dicembre si indirizzi alla sua principale ragion d’essere odierna: l’attuazione dei principi sociali espressi, con straordinaria modernità, nella prima parte della Costituzione.

 

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