L’addio di Renzi (“ho fatto gli scatolini”) libera Gentiloni

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“Ho chiuso l’alloggio del terzo piano di Palazzo Chigi. Torno a casa davvero. Mi sono dimesso. Sul serio. Non per finta. Lo avevo detto, l’ho fatto”. Su Facebook Matteo Renzi saluta i suoi numerosi fans e, soprattutto, lancia un chiaro segnale al presidente, Sergio Mattarella, che è poi anche un via libera: il capo del Pd si sfila, non si farà rinviare alle Camere, non concederà il bis. Dunque, la patata bollente del governo passa a Gentiloni (che ha ricevuto in effetti l’incarico all’ora di pranzo). La sua avventura a Palazzo Chigi era cominciata con un quaranta per cento che gli ha probabilmente fatto perdere il senso della misura ed è terminato con un altro quaranta per cento che non sembra che gliel’abbia fatta ritrovare. Perché la sua narrazione d’addio (anzi, di arrivederci) è analoga a quella che ha fornito di sé e della sua attività di presidente del consiglio nei suoi “mitici” mille giorni, cioè ricca di enfasi, per qualche tratto fondata, ma per il resto ampiamente sovradimensionata.

E questo sovradimensionamento emerge già dall’immagine che della sua temporanea uscita di scena vuol dare: non da vinto ma da vincitore. E infatti scrive: “Di solito si lascia Palazzo Chigi perché il Parlamento ti toglie la fiducia. Noi no. Noi abbiamo ottenuto l’ultima fiducia mercoledì, con oltre 170 voti al Senato. Ma la dignità, la coerenza, la faccia valgono più di tutto. In un Paese in cui le dimissioni si annunciano, io le ho date”. La coerenza certo, la faccia, certissimo. Ma alla base c’è la sconfitta al referendum costituzionale scelto e imposto agli italiani come una sorte di fonte battesimale di un potere che avrebbe dovuto conquistare con i risultati (soprattutto sociali ed economici) perché mancante di una legittimazione popolare.
La narrazione è evidentemente epica, quasi omerica. Racconta: “Sono stati mille giorni di governo fantastici. Qualche commentatore maramaldo di queste ore finge di non vedere l’elenco impressionante delle riforme che abbiamo realizzato, dal lavoro ai diritti, dal sociale alle tasse, dall’innovazione alle infrastrutture, dalla cultura alla giustizia. Certo c’è l’amaro in bocca per ciò che non ha funzionato”. Un accenno autocritico superficiale, di striscio. Perché l’elenco potrebbe anche essere contestato. La riforma del lavoro sbandierata comincia a cedere, come era prevedibile, nei numeri confermando che non si crea occupazione a colpi di sgravi a pioggia ma con investimenti che, al contrario, non sono ripartiti. Si potrebbero ricordare i numerosi incrementi del Pil annunciati ma non realizzati. Una eccessiva accondiscendenza nei confronti dei poteri forti finanziari. Un certo flirtare a correnti alternate con quei vertici europei che poi lo hanno sostenuto nella sua battaglia referendaria, forse più danneggiandolo che aiutandolo. Un moto di sincerità trasuda da una frase a proposito delle dimissioni e della sua coerenza: “Ho mantenuto l’impegno, come per gli 80 euro o per l’Imu. Solo che stavolta mi è piaciuto meno”. In questo caso c’è da credergli sulla parola.

Come per gli attori che escono di scena, però, non vale la prestazione fornita durante tutta la rappresentazione ma la qualità dell’ultima battuta che normalmente è finalizzata a ottenere la standing ovation finale. Ecco, l’ultima battuta, gli è mancata e al momento è ricordato per quella: “C’è tanta delusione per la riforma costituzionale. Un giorno sarà chiaro che quella riforma serviva all’Italia, non al Governo e che non c’era nessuna deriva autoritaria ma solo l’occasione per risparmiare tempo e denaro evitando conflitti istituzionali. Ma quando il popolo parla, punto. Si ascolta e si prende atto. Gli italiani hanno deciso, viva l’Italia”. Forse, però, i segnali avrebbe dovuto ascoltarli in tutti questi mesi in cui trasformava lo scontro sulla riforma costituzionale nella “madre di tutte le sue battaglie”. Si sarebbe accorto che c’era qualcosa che stonava, che lui e il Paese parlavano lingue diverse. Non ha avuto, però, la lucidità e, soprattutto, l’umiltà per farlo. Probabilmente è stato anche tradito da un “cerchio (o giglio) magico” dedito più all’attivazione dell’applausometro che alla valutazione delle dinamiche sociali e politiche.
In ogni caso, non è un “addio”. Lo scrive con chiarezza dando appuntamenti ravvicinati ai suoi fans: “Ai milioni di italiani che vogliono un futuro di idee e speranze per il nostro Paese dico che non ci stancheremo di riprovare e ripartire. Migliaia di luci brillano nella notte italiana. Proveremo di nuovo a riunirle. Facendo tesoro degli errori fatti ma senza smettere di rischiare: solo chi cambia aiuta un Paese bello e difficile come l’Italia”. E poi aggiunge: “Noi siamo quelli che ci provano davvero. Che quando perdono non danno la colpa agli altri. Che pensano che odiare sia meno utile di costruire. Insieme”. Ecco, anche qui la narrazione appare distorta. Almeno per un aspetto: il costruire che è meglio dell’odiare. In assoluto le cose stanno così. Ma in questi mille giorni, il presidente del Consiglio si è preoccupato di individuare nemici (veri o falsi) contro i quali scagliarsi per il “bene dell’umanità”, di dividere un Paese che di laceranti contrapposizioni già soffriva acutamente, di costruire la filosofia del “noi contro loro”. Ha “bacchettato” tutti, senza distinzioni e senza indulgenze, ha manovrato con disinvoltura lo strumento del populismo non riuscendo a capire che quello strumento nelle mani di un uomo che abita a Palazzo Chigi è inefficace. Sembrava, la sera della sconfitta, una settimana fa, di essersi reso conto di questi errori nel momento in cui ha affermato: “Non pensavo di essere così antipatico”. Invece, sbollita un po’ la rabbia sembra riemergere il Renzi di sempre. Peccato perché nel deserto della vita politica lui potrebbe ancora essere una possibilità. Però deve cominciare a capire che un grande paese si governa con la coesione non con la contrapposizione, non ci sono “noi contro loro”, ma “noi tra di noi”.

Nel suo ultimo messaggio da Palazzo ha provato a solleticare le corde del sentimento: “Ho sofferto a chiudere gli scatoloni ieri notte, non me ne vergogno: non sono un robot. Ma so anche che l’esperienza scout ti insegna che non si arriva se non per ripartire. E che è nei momenti in cui la strada è più dura che si vedono gli amici veri, l’affetto sincero. Grazie a chi si è fatto vivo, è stato importante per me”. Tornerà a riflettere a Pontassieve. Buon viaggio.

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