L’Europa fallita di Jeroen Dijsselbloem

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Ricordando la firma del trattato di Maastricht avvenuta il 9 dicembre del 1991, a cui parteciparono dodici paesi europei, il presidente dell’eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem ha detto che “l’Europa non è la risposta a tutto”. Ha sbagliato: l’Europa in questo momento non è la risposta a nulla. Ma la colpa non è di un progetto europeo, come ha sostenuto lui, che è nato in una temperie diversa, nel mondo diviso in blocchi e in un continente litigioso e insanguinato che voleva dare radici più solide alla pace (riuscendovi pure tanto è vero che il 10 dicembre di sette anni fa all’Unione è stato assegnato l’apposito Premio Nobel). La colpa è di una classe politica, di cui Dijsselbloem è autorevole e significativo rappresentante, incapace di anteporre l’interesse generale agli “utili” personali. Affetti da inguaribile cecità, gli esponenti di questa Europa 2.0 non riescono a immaginare il futuro mancando di visione e, a maggior ragione, di pre-visione. Abituati ad accettare solo il possibile si guardano bene dall’inseguire l’impossibile e così, difettando in coraggio, si accucciano obbedienti alle gambe (soprattutto quelli della sinistra da cui l’olandese, strano a dirsi, proviene) dei padroni della finanza cedendo a loro quel primato (e insieme anche buona parte delle sovranità nazionali) che i “sognatori dell’Europa Unita” attribuivano alla politica. Il problema non è il progetto ma il fatto che agli architetti che avrebbero dovuto realizzarlo si sono sostituiti gli aridi ragionieri. Non è fallita l’idea, è fallita l’interpretazione che dell’idea hanno dato i Dijsselbloem, le Merkel, gli Junker, gli Schaeuble, gli Hollande e i Renzi.

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