1985: l’ultimo referendum che spaccò l’Italia

Bettino Craxi ed Enrico Berlinguer

Il 9 e 10 giugno del 1985 l’Italia andò alle urne per cancellare o confermare il decreto varato il 14 febbraio 1984 da Bettino Craxi che tagliava 4 punti (poi diventati tre) di scala mobile (il meccanismo che adeguava automaticamente i salari all’aumento del costo della vita). Quella vicenda è raccontata in un libro scritto da Giorgio Benvenuto e Antonio Maglie e portato in libreria dalle Edizioni Bibliotheka in questi giorni caldi pre-referendari. Titolo: “Il divorzio di San Valentino. Così la scala mobile divise l’Italia”. Si tratta di una terza edizione arricchita con documenti inediti e una analisi dei flussi elettorali realizzata da Antonio Agosta. Quello che presentiamo è il capitolo (“la resa dei conti”) dedicato al referendum (riuscì a prevalere, a sorpresa, il “sì”), alle polemiche che lo accompagnarono e a un clima generale non molto diverso da quello che stiamo vivendo in questi giorni. In realtà il libro, prendendo spunto da quello che venne ribattezzato il decreto di San Valentino analizza un decennio, dal 1975 (anno in cui venne siglato l’accordo sul punto unico di contingenza) all’85 (l’anno del referendum) raccontando le vicende drammatiche non solo sindacali che caratterizzarono quel periodo difficile e i protagonisti che furono al centro di quegli avvenimenti, da Bettino Craxi a Enrico Berlinguer, da Ciriaco De Mita, a Giovanni Spadolini, da Luciano Lama a Pierre Carniti, da Vittorio Merloni a Luigi Lucchini, da Bruno Trentin a Sandro Pertini. Un racconto unico costruito, però, come la somma di tanti racconti legati da un unico “filo rosso”.

-di GIORGIO BENVENUTO e ANTONIO MAGLIE*-

La prima sorpresa di quella giornata la regalarono gli industriali che prima di conoscere i risultati, decisero la disdetta della scala mobile. La seconda, forse anche spiazzando gli imprenditori, la regalarono le urne. Il decreto che aveva diviso l’Italia, creato enormi tensioni, spaccato a metà come una mela il sindacato, offerto ai terroristi la macabra motivazione per imbracciare nuovamente la mitraglietta Skorpion e scaricare un caricatore addosso a una vittima innocente, Ezio Tarantelli, era uscito intatto dalla verifica popolare, «più bello e più superbo che pria», avrebbe detto un Ettore Petrolini travestito da Nerone. Ma la sorpresa non era tanto (o non solo) nell’esito finale, ma per i modi in cui quell’esito si era manifestato. Il Nord, quello industriale, si era schierato per il mantenimento del decreto; il sud e le isole, con l’eccezione di Puglia, Abruzzo, Molise e Sicilia, per l’abrogazione. La sintesi migliore la offrì Carmelo Barbagallo, all’epoca segretario della camera sindacale di Palermo: «Ha votato contro la contingenza chi ce l’ha e a favore chi non ce l’ha».

Il voto fece venir meno tantissime certezze. La prima a cadere fu quella relativa alla partecipazione. Tutti immaginavano che quel provvedimento non avrebbe portato alle urne tanti elettori non avendo la questione quel carattere popolare e trasversale, dal punto di vista sociale, che avevano avuto altri due appuntamenti referendari, quelli sul divorzio del ‘74 e sull’aborto dell’81. Una bassa affluenza avrebbe potuto favorire i “promotori”, i sostenitori del “Sì”, cioè il Pci. I favorevoli al provvedimento, però, avrebbero potuto fare campagna a favore del non voto perché, di converso, l’obiettivo per il non raggiungimento del quorum, sarebbe stato a portata di mano. E la seconda ipotesi all’interno del “partito del No” rimase in piedi quasi sino alla vigilia del voto. Tanto è vero che ancora il 4 maggio, cioè trentanove giorni prima dell’apertura delle urne, avvenuta il 10 giugno del 1985, in occasione della prima manifestazione nazionale favorevole al mantenimento del decreto (vi parteciparono Franco Marini, Ottaviano Del Turco, Giorgio Benvenuto, i vice-segretari di Dc e Psi, Vincenzo Scotti e Claudio Martelli), la posizione a favore dell’invito ad «andare al mare» era ancora fortissima. La sosteneva in maniera estremamente convinta Pierre Carniti (e questo fu un motivo di contrasto tra lui e Benvenuto) e il presidente del Consiglio, Bettino Craxi (che poi attuerà la strategia nel referendum elettorale proposto da Mario Segni, rimediando una bruciante sconfitta che si trasformò nel segnale più evidente del suo definitivo declino).

Era accaduto, infatti, che Marco Pannella, all’epoca massimo stratega referendario, con due grandi successi alle spalle (ma anche qualche insuccesso), incontrando il premier, fosse riuscito a convincerlo che non vi erano altre strade per evitare una sconfitta che a tutti appariva scritta nella roccia con il bulino dell’antipatia popolare contro un provvedimento che, come si dice spesso oggi ma si diceva molto meno allora, «metteva le mani in tasca alla gente». In una lettera aperta del 10 aprile 1985 il leader radicale rendeva pubblica questa posizione invitando i partiti da un lato a «non sottovalutare il grave danno conseguente al tentativo di impedire la tenuta dei referendum regolarmente richiesti e convalidati dalla Corte Costituzionale con espedienti legislativi», dall’altro a prendere atto che «è assolutamente impossibile non vincere la prova referendaria facendo ricorso all’ipotesi – politica oltreché numerica prevista dall’art. 75 della Costituzione – del rifiuto del voto di oltre il 50% degli aventi diritto, mentre sarebbe pressoché impossibile vincerla percorrendo la strada del “no”. Infatti nel primo caso si tratta di aggiungere al massimo un 25 % (ma in realtà molto meno) di astensioni dal voto spontaneo. Nell’altro si tratta di rinunciare a fare pesare come disinteressate o ostili al referendum tutte le persone che non si recheranno a votare, per andare a confrontarsi, invece con la totalità di coloro che sono invece favorevoli».

Benvenuto (e anche Franco Marini), invece, la pensava diversamente e lo disse tanto a Craxi quanto a Carniti: «La sconfitta è quasi certa ma non possiamo pensare di vincere con l’astuzia». Non si trattava di un ingenuo moto di fiducia nei confronti della maturità dell’elettorato perché in quel momento i segnali erano tutti contrari. Era una questione di chiarezza: era stato fatto un negoziato, era stato raggiunto un accordo, quell’accordo aveva trovato forma in un decreto che aveva evitato in qualche maniera di dare un carattere ufficiale alla rottura sindacale (le firme su un pezzo di carta), bisognava comportarsi di conseguenza di fronte agli italiani, assumersi tutte le responsabilità che la vicenda imponeva.

Gli spazi erano più che ridotti, erano inesistenti. Almeno tali apparivano. Anche all’epoca i sondaggisti sbagliavano le previsioni un po’ come i meteorologi. A pochi giorni dal voto, nelle segreterie circolavano numeri che non lasciavano dubbi sull’esito della consultazione, in alcuni casi si parlava di un ottanta per cento a favore della cancellazione del decreto. Il settimanale “Panorama” pubblicò un significativo sondaggio il 31 marzo del 1985, cioè una settantina di giorni prima della consultazione. Lo aveva realizzato la Swg ponendo semplicissime domande a un campione di 1.561 cittadini rappresentativi della vasta e complessa realtà sociale italiana; il campione era stato testato alla metà del mese, cioè il 15, 16 e 17 marzo. Craxi, Carniti e Benvenuto potevano solo essere presi dallo sconforto. Il 50,2 per cento diceva che avrebbe votato per la cancellazione; appena il 10,1 per la conferma del decreto. In mezzo un 40 per cento di indecisi. Risultato in bilico? Per nulla visto che i sondaggisti sottolineavano che il divario tra favorevoli e contrari era tale che non poteva essere, a poco più di due mesi, ribaltato, anche perché non tutti gli indecisi avrebbero optato per la conferma del decreto, molti avrebbero deciso per la sua cancellazione. Ma l’analisi diceva anche altre cose che sembravano confortare i promotori del referendum.

Tanto per cominciare, i comunisti sembravano avere ragione: il 73,1 per cento degli operai erano contro il provvedimento di Craxi. Ma mica solo gli operai erano così compatti. Per un tratto di penna sul decreto erano anche il 60 per cento degli impiegati pubblici, il 59,4 per cento dei privati, il 58,6 per cento degli insegnanti e, addirittura, un 56,5 per cento dei lavoratori autonomi. Sembravano venir meno tutte le teorie sulla nuova stratificazione sociale, sui nuovi lavori, sull’appiattimento che penalizzava i portatori di maggiori competenze. Dal sondaggio emergeva, insomma, un’Italia ancora ferma all’operaio-massa, semmai avviata verso un lavoratore-massa. Tanto è vero che favorevoli all’abolizione del provvedimento craxiano si dichiarava il 63,3 per cento degli occupati nell’industria e il 57,9 degli occupati nel terziario. Immaginare che in queste condizioni dalle urne potesse uscire un risultato diverso della sconfessione di quel che a Palazzo Chigi era stato fatto il giorno di San Valentino, era molto più di una pia illusione, era come credere alla befana ben oltre la maggiore età.

Che le cose potessero andare solo in una maniera ne erano convinti a Botteghe Oscure. Achille Occhetto in interviste successive ha fornito l’immagine di un Alessandro Natta preoccupato, poco convinto, ma il clima che si respirava nel palazzone a due passi da Piazza Venezia era decisamente euforico. Lo ha descritto in maniera molto puntuale proprio Luciano Lama, in quella sua lunga intervista rilasciata a Giampaolo Pansa. Nelle riunioni il segretario della Cgil sosteneva spesso che il referendum poteva essere un «bagno di sangue», poteva risolversi in una clamorosa sconfitta con conseguenze incalcolabili sull’unità sindacale. Lo ripeteva per provare a raffreddare gli animi di chi, al contrario, sosteneva che «il referendum va fatto per molte ragioni, e anche per una in più, che tanto lo vinciamo! Io replicavo ai miei compagni: guardate che non è per niente sicuro che lo vinciamo. Può darsi che la maggioranza dei lavoratori dipendenti sia d’accordo con noi. Ma siccome il referendum non è tra i lavoratori dipendenti, bensì tra i cittadini della Repubblica Italiana, il rischio di perdere è molto forte, perché quelli interessati alla difesa della scala mobile sono una minoranza robusta, ma sempre una minoranza. Alla fine, la mia, è risultata una previsione persino troppo ottimistica. È successo che siamo andati peggio proprio nelle regioni dove il numero di lavoratori dipendenti è più alto».

Val la pena a questo punto, fare un flash back partendo, però, da un dato di quel referendum. A Milano, capitale dell’Italia industriale, secondo le raffigurazioni degli anni del boom economico, e, quindi, anche in un immaginario collettivo che spesso fatica ad adeguarsi ai fatti nuovi, il “sì” all’abolizione del decreto raccolse il 42,9 per cento dei voti; il “no” con il 57,1 per cento spazzò via molte illusioni, anche quelle più trinariciute che, ad esempio, erano venute drammaticamente allo scoperto il 21 novembre del 1984. Palcoscenico: piazza del Duomo. La Uil il 26 giugno aveva lanciato la campagna «Io pago le tasse e tu?» pubblicando un elenco di nomi dal quale risultava che commercianti e professionisti guadagnavano, secondo le dichiarazioni ufficiali dei redditi, meno dei loro dipendenti. Nonostante San Valentino, nonostante le polemiche e la difficoltà a ritrovare un punto di incontro sulla questione della contingenza e della riforma della struttura del salario, le confederazioni ebbero sul fisco un sussulto di unità. Il 15 novembre, poi, la Confindustria annunciò pure che non avrebbe pagato gli annosi decimali. Di lì la proclamazione di quattro ore di sciopero. A Giorgio Benvenuto venne affidato il compito di chiudere la manifestazione milanese, proprio sotto la “Madunina”.

Il segretario della Uil ebbe appena il tempo di cominciare a parlare e immediatamente dai settori della piazza occupati da Democrazia Proletaria, dalla Lega dei Comunisti Rivoluzionari e da Lotta Comunista, partì una violenta contestazione. Fischi, urla, poi lattine, bulloni, biglie d’acciaio. Carlo Tognoli, il sindaco di Milano, con prontezza di riflessi, evitò che una di queste biglie (avvolta in una palla di carta) colpisse Benvenuto. Molto peggio andò al segretario regionale della Uil, Loris Zaffra (un bullone in testa) e al segretario provinciale della stessa confederazione, Amedeo Giuliani (un oggetto nell’occhio sinistro). Deliranti le reazioni dei contestatori. Dp scrisse in una nota: «Di rilevante dimensione è stata la contestazione della piazza verso Giorgio Benvenuto, il cui ruolo nel famigerato accordo del 14 febbraio non è stato dimenticato da nessuno». I comunisti rivoluzionari, a loro volta, quasi riecheggiando certi volantini brigatisti, aggiunsero con orgoglio (anch’esso, evidentemente, rivoluzionario): «Rivendichiamo la partecipazione, peraltro insieme alla maggioranza della piazza, alla contestazione a Benvenuto». Tognoli parlò senza mezzi termini di «gruppi di provocatori bene e preventivamente organizzati». Chiese le scuse ufficiali ai comunisti locali ma la richiesta cadde nel vuoto. Il segretario della Uil, invece, in una conferenza stampa si limitò a dire: «Quanto è accaduto oggi non può essere strumentalizzato dagli oppositori del progetto Visentini, dai falchi della Confindustria e dalla Confcommercio… La contestazione era diretta contro l’accordo del 14 febbraio sulla scala mobile. Una intesa che sta dando i suoi frutti sul piano dell’abbassamento dell’inflazione e della ripresa dell’economia». Diverso, molto diverso rispetto a quello degli allievi di Mario Capanna, fu l’atteggiamento di Luciano Lama: «È assolutamente deplorevole che in una giornata costata tanto lavoro e tanta fatica alle forze unitarie del sindacato, sia stato impedito di parlare a un segretario nazionale… Chi si comporta così lavora per la causa opposta a quella per cui hanno manifestato oggi i lavoratori».

I risultati milanesi del referendum scardinarono probabilmente le certezze di quella minoranza rumorosa e aggressiva, dotata di buona mira ma di scarso intelletto: non erano i depositari di un sentire diffuso, avevano semplicemente confuso l’autoreferenzialità ottusa con la rappresentatività. La migliore risposta a certi abbagli politici e storici è forse nel pacato racconto di Lama: «Il vertice del Pci era convinto di vincere il referendum sulla scala mobile. E anche attraverso questa strada, pensava di riacquistare una forte influenza sulla politica nazionale. Se avessimo vinto il referendum, il Pci avrebbe potuto dire al governo Craxi, ai socialisti, alla Dc: vedete, voi avete preso delle decisioni, ma il vostro decisionismo non piace alla maggioranza degli italiani e questa maggioranza è schierata con il Pci. L’illusione della vittoria appannava anche i timori per l’unità sindacale. Si diceva ancora: Lama ha paura che si spacchi il sindacato, ma quando il referendum sarà vinto, anche la Cisl e la Uil dovranno tornare sui loro passi, capiranno che hanno preso una strada che le porta alla sconfitta».

Quello di piazza del Duomo, fu uno degli episodi che avvelenò la lunga marcia verso la catarsi del referendum. Non l’unico, purtroppo nemmeno il più tragico. Perché quelli erano ancora Anni di Piombo, anni in cui fra sparutissime minoranze albergava l’idea che si potesse mestare nel torbido delle problematiche sociali per realizzare un humus rivoluzionario. Logiche fuori dalla ragione e dentro una idea di “guerra di popolo” senza, però, il popolo, schierato, fortunatamente, da un’altra parte.

Ezio Tarantelli era un giovane e brillante economista, di idee e formazione culturale progressiste. Collaborava con Pierre Carniti, aveva ottimi rapporti con Walter Galbusera e Giorgio Benvenuto, votava comunista pur non condividendo tutte le posizioni di quel partito. Era perfettamente dentro quella Cisl fatta, in buona parte, di “cani sciolti” alla Carniti, gente che immaginava che dal sociale potesse nascere una sinistra di governo, senza compromessi, senza cedimenti ai “poteri forti”. Una sinistra che sapesse parlare di compatibilità e di politica dei redditi, di equità ma anche di profitto, di tutele per i più deboli ma anche di innovazione tecnologica, di orari di lavoro inseriti in una riorganizzazione strutturale. Alla questione della scala mobile aveva offerto una soluzione, quella poi adottata da Craxi (che il giorno dell’agguato mortale disse: «Uno degli economisti più aperti alla sfera del possibile, tra i meno faziosi. Dobbiamo purtroppo constatare che proprio questa sua scienza, questa sua intelligenza, questa sua generosità ne hanno segnato la condanna a morte»): la predeterminazione. E l’atteggiamento della Cgil lo aveva disorientato: «Il punto è che la Cgil ha difficoltà ad accettare non la centralizzazione della contrattazione, che dovrebbe essere normale per un sindacato marxista, ma la categoria dello scambio politico, almeno fino a quando, purtroppo a mio avviso, il Pci è all’opposizione. Ma questo è un errore fatale che toglie alla sinistra qualsiasi possibilità di intervenire per la trasformazione sociale del paese».

Aveva messo la sua conoscenza al servizio della politica e del sindacato ma guardava alle cose con atteggiamento distaccato: «Io vengo considerato il padre della proposta della predeterminazione ma ci tengo a dire che non ho alcuna intenzione di essere considerato il padre del decreto». Poi, però, aggiungeva: «Io non avrei certo desiderato che la mia proposta passasse per decreto. Ma in quale altro modo sarebbe potuta passare? Una parte importante della sinistra italiana, purtroppo, non solo ha combattuto il principio della predeterminazione, ma in tre anni di dibattito non è stata in grado di fornire un’alternativa degna di questo nome». Quel decreto lo difese, sino all’ultimo. Nella borsa che aveva accanto quando gli scaricarono addosso il caricatore della mitraglietta Skorpion centrandolo con diciassette proiettili fatali, aveva il documento che stava mettendo a punto insieme a Pietro Craveri e Gino Giugni. Qualche sera prima del terribile 27 marzo ne aveva parlato con Carniti e Benvenuto. Si era preoccupato di spiegare in quei pochi fogli gli effetti negativi che sarebbero potuti derivare a livello economico dalla cancellazione del decreto. Quel documento vide la luce esattamente una settimana dopo la sua uccisione. Il titolo era: «No al referendum, no nel referendum».

L’occhiello sottolineava: «Appello degli intellettuali». Si confidava ancora in un accordo che, trasformato in legge, potesse impedire l’apertura dei seggi. Ma nessuno scommetteva cifre cospicue su un simile esito. Nel documento si leggeva: «La sola proposizione del referendum ha già prodotto conseguenze gravi. Ha distolto le forze politiche e sociali dal proseguire l’azione economica positivamente avviata in seguito all’accordo del 22 gennaio del 1983 e al protocollo del 14 febbraio 1984, che hanno contribuito ad abbassare l’inflazione con il consenso di larga parte del movimento sindacale, garantendo al contempo la difesa del potere di acquisto dei lavoratori occupati e dei pensionati e che hanno favorito dopo anni di crisi, la ripresa dello sviluppo. Il confronto sul referendum ha già fatto perdere mesi preziosi, ostacolando la continuazione di quell’impegno sui più gravi problemi economici tuttora aperti: la lotta contro la disoccupazione; il consolidamento della ripresa e della produttività del nostro sistema economico; la tenuta ulteriore del potere d’acquisto, tramite il controllo dell’inflazione e della spesa pubblica; la continuazione della battaglia per un più equo sistema fiscale… Con essa (la campagna referendaria, n.d.a.) si possono indebolire le posizioni riformatrici, favorendo una demagogia populista basata su false promesse e senza sbocchi politici e facilitando, per la prima volta dopo tanti anni, il coagularsi delle forze conservatrici intorno a un progetto di pura e semplice stabilizzazione liberista.., Per il sindacato in particolare la proposizione del referendum in materia salariale ha segnato una espropriazione del proprio ruolo di soggetto contraente… Un prevalere del sì nel referendum, cioè un eventuale esito abrogativo, determinerebbe ancor più gravi conseguenze economiche, sociali e politiche, quali l’occasione data alla Confindustria per bloccare la contrattazione collettiva e per disdire la scala mobile; l’inevitabile accentuazione delle tensioni inflattive, che pregiudicherebbe il valore reale del risparmio delle famiglie e la difesa del potere d’acquisto, in particolare dei meno abbienti; il conseguente indebolimento della nostra moneta sul piano internazionale, con la prospettiva finora mai verificatasi di una caduta dei salari reali, l’inevitabile pregiudizio di una più efficace politica dell’occupazione, che è il problema nazionale più urgente, a partire dal Mezzogiorno». Quel documento venne sottoscritto da studiosi come Luciano Gallino, Carlo Dell’Aringa, Valerio Castronovo, Massimo Severo Giannini, Andrea Manzella, Federico Mancini, Luciano Cafagna, Francesco Alberoni.

Sull’Avanti! quattro giorni dopo l’agguato, Giorgio Benvenuto scrisse: «La nostra società non deve fermarsi, ma abbiamo il dovere morale e politico, tutti, di attenuare i toni di scontro, di tornare a ragionare… Non c’entra per nulla il ragionamento che mette in rapporto lotte sociali e azioni terroristiche. Sono due termini che non confinano: è assurdo pensare che ci sia una contiguità. Se questo è fuori discussione come ignorare però che, in particolare da un anno, l’aria nelle fabbriche è irrespirabile per colpa di un settarismo che impedisce ogni discussione… Eppure c’è chi soffia continuamente sul fuoco, nella sinistra, nei luoghi di lavoro e aggiunge danno a danno, contribuendo a incancrenire tensioni che finiscono con lo svilire anche manifestazioni unitarie su temi di grande valore come è successo a Milano e a Bari sul fisco… Perciò il problema dei guasti che un linguaggio settario e violento, una continua demonizzazione delle idee degli avversari, una rancorosa intolleranza stanno creando nelle fabbriche, nel sindacato, nel tessuto sociale del Paese va posto e subito. Può essere vero che il referendum sia solo un voto per il “sì” o per il “no”, come è stato detto, ma occorre vedere su cosa poggia questa vicenda referendaria: se essa si snodi lungo una tranquilla coscienza democratica o se, invece, essa approfondisca le lacerazioni sociali e riduca l’autonomia, la forza e la proposta del sindacato. Basta dunque con la storiella che col referendum possa risorgere un sindacato più forte e più libero… In questi ultimi cinque anni praticamente tutti i dirigenti sindacali sono stati fatti oggetto di atti di una preconcetta contestazione che nulla ha a che vedere con l’espressione di un legittimo dissenso… C’è un clima terribile nel movimento operaio italiano ed è umiliante osservare che quando Amendola lucidamente lo inchiodò alle sue prime avvisaglie fu isolato nel suo stesso partito… La nostra insistenza sul tema del linguaggio e dei comportamenti non va quindi travisata come un elemento di contrapposizione politica. Si compia una riflessione su questo fenomeno, per esempio interrogandosi su quanto tutto questo abbia nuociuto all’esperienza di un movimento operaio che gradatamente da forza di progresso generale della società, ha perso vitalità ed alleati importanti… intellettuali e forze vive del paese… Tarantelli è rimasto, lo abbiamo sostenuto in molti per dare un contributo di idee svincolato da calcoli di parte. Ora non c’è più, ma è giusto dire che non solo la sua lezione può continuare, ma che dobbiamo ridare alle parole il senso del rispetto reciproco».

Dirà Pierre Carniti, venticinque anni dopo, il 26 marzo del 2010, in occasione di un convegno internazionale su Ezio Tarantelli organizzato dalla “sua” facoltà di Economia e Commercio alla Sapienza: «Purtroppo un fatto, più precisamente un misfatto separa come un macigno da venticinque anni le nostre parole ed il suo silenzio. Per la sua morte non ci sono parole, tranne quelle che speravamo avrebbero pronunciato i giudici nei confronti degli assassini. O meglio, è accaduto tardivamente e solo parzialmente. Lasciando dolorosamente irrisolto il bisogno di verità e giustizia. Per quel che mi riguarda posso solo dire che ai sicari che hanno compiuto quel crimine orrendo non si potrà mai concedere la simulazione di un significato politico. Non si potrà mai stabilire una relazione – sia pure antagonistica – tra Tarantelli e chi lo ha trucidato. Anche per questo penso che la solitudine della sua morte vada tutelata. Perché sia ancora più chiaro che il più alto onore della vittima è quello di non poter venire mai accostato, neanche indirettamente, ai suoi carnefici».

Quel referendum fu lungo, troppo lungo. Durò un anno. Un anno di tensioni, in cui, come aveva scritto Tarantelli (con Giugni e Craveri) il mondo si era fermato. A volte rumorosamente, in maniera assordante. Come quando a Bari, Franco Marini subì la stessa sorte di Benvenuto a Milano: costretto a interrompere il suo intervento a causa dei tumulti esplosi in piazza in maniera certo non improvvisa né imprevedibile. Lo stesso giorno in cui la Corte Costituzionale decise che il referendum andava fatto. Era il 7 febbraio. Anni dopo, Franco Marini, in tono un po’ divertito (d’altro canto, il tempo stempera le tensioni e addolcisce i ricordi) ha raccontato quel che avvenne nel capoluogo pugliese. Ecco il suo ricordo: «Mentre stavo parlando a un certo punto spuntarono due, trecento persone che cominciarono a marciare verso il palco agitando la prima pagina di un giornale. “L’Unità”, infatti, era uscita con un titolo a caratteri cubitali: “Referendum”. Noi sindacalisti alle piazze un po’ agitate siamo abituati e poi a Bari la Cgil era forte ma lo era anche la Cisl. E così mi interruppi e dissi: “Se volete parlare di referendum, parliamone”. A quel punto la piazza cominciò a rumoreggiare. Io continuai a parlare con il commissario di Ps che doveva gestire l’ordine pubblico che mi diceva di chiudere perché la situazione stava diventando complicata. Continuai ma quando vidi volare giù dal palco un dirigente sindacale, decisi che era il momento di smettere». Ricordando quella fase di grandi lacerazioni, l’ex segretario generale della Cisl aggiunge: «Si è parlato di rottura eppure già cinque, sei mesi dopo San Valentino noi tornammo a fare accordi unitari. Nella Cisl, negli anni Settanta, ero tra quelli che non ritenevano possibile, a causa dei condizionamenti internazionali e nazionali, l’unità organica. Forse sbagliavo, ma la pensavo così. Quei condizionamenti, però, non ci sono più, la situazione dei lavoratori è diventata estremamente più difficile e fare il sindacalista adesso è più complicato, molto più complicato di allora perché nelle aziende ritrovi dipendenti con contratto a tempo indeterminato, a tempo determinato, a partita Iva, ti muovi insomma in una vera e propria giungla di tipologie contrattuali. Lo dico con grande sincerità: oggi l’unità io la farei».

Il 12 dicembre, la Corte di Cassazione aveva già detto che, dal suo punto di vista non esistevano impedimenti alla chiamata a raccolta del «popolo sovrano». Nei confronti del decreto erano state sollevate anche questioni di legittimità costituzionale dagli stessi promotori del referendum. Se una di quelle eccezioni fosse stata accolta, ufficializzando la tesi che gli effetti del provvedimento erano cessati il 31 luglio dell’84, i punti sarebbero stati immediatamente recuperati e il referendum sarebbe venuto meno.

In quella sentenza (la numero 35), adottata il 6 febbraio e pubblicata il 7 (a firma del presidente, Leopoldo Elia e del futuro presidente, Livio Paladin) si sosteneva che «stando così le cose non giova discutere se gli effetti giuridici del “taglio” si siano esauriti allo scadere del semestre febbraio-luglio 1984, lasciando perdurare i soli effetti economici… o se, viceversa, la ridotta operatività del meccanismo della scala mobile continui a ripresentarsi, in termini giuridicamente rilevanti sulle retribuzioni periodicamente dovute ai lavoratori subordinati. Qualunque sia la risposta, è infatti palese che non può essere la Corte a fornirla».

La Consulta, insomma, preferì trasferire la questione agli elettori e lo fece motivando la sua decisione in questo modo: «Da un punto di vista formale è incontroverso che le misure di politica economica prefigurate nel decreto-legge n. 10 e quindi realizzate nel decreto-legge n. 70 non sono state puntualmente precisate dalla legge finanziaria 1984… né recepite dalla legge finanziaria del 1985». In sostanza, l’Avvocatura dello Stato aveva sostenuto che quei provvedimenti erano da considerare alla stregua di leggi di bilancio e, quindi, non sottoponibili al referendum. La Corte Costituzionale non accettò questa tesi e aggiunse: «Dal punto di vista sostanziale poi, le disposizioni in esame non riguardano in modo specifico la “manovra di bilancio”, né il fabbisogno della finanza pubblica, bensì hanno di mira… “il contenimento dell’inflazione nei limiti del tasso programmato per l’anno 1984, al fine di favorire la ripresa economica generale e mantenere il potere di acquisto delle retribuzioni”». Venne anche respinta un’altra obiezione e cioè che con il referendum si chiedeva agli elettori di esprimersi solo su un pezzo del provvedimento. Spiegava la Consulta: «Del pari, non ha pregio sul piano giuridico la tesi per cui la richiesta in esame sarebbe incongruamente formulata, e dunque dovrebbe venire dichiarata inammissibile per non aver coinvolto l’intero complesso dei provvedimenti adottati con il decreto-legge n. 70. Queste misure si differenziano profondamente, infatti, sia per i loro contenuti sia per i soggetti che vi sono interessati; sicché non si riscontra, nel presente caso, quella “contraddittorietà ed incoerenza abrogativa di alcune norme e la prevista permanenza di altre nello stesso contesto normativo”». Conclusione: «Si dichiara ammissibile la richiesta di referendum popolare per abrogazione dell’articolo unico della legge 12 giugno 1984, n. 219 (conversione in legge con modificazioni del decreto legge 17 aprile 1984, n. 70 contenente misure urgenti in materia di tariffe, di prezzi amministrati e di indennità di contingenza)… e dichiara legittima l’ ordinanza 7-12 dicembre 1984 dell’ufficio centrale per il referendum, costituito presso la Corte di Cassazione».

La sentenza della Consulta suscitò le perplessità di un giurista illustre come Norberto Bobbio che con un articolo su “La Stampa” del 14 aprile prendeva due piccioni con una fava nel senso che esprimeva il suo dissenso rispetto all’operato dei giudici ma anche rispetto all’atteggiamento di Marco Pannella che chiedeva di non far ricorso a “espedienti legislativi” per evitare la consultazione. Bobbio nel suo intervento sottolineava che «in un referendum la questione da risolvere non può essere posta ai votanti se non sotto forma di “aut aut” o di “sì” o di “no”. Un tale modo di porre la domanda può valere per le grandi questioni di principio, monarchia o repubblica, matrimonio o divorzio, liceità o illiceità dell’aborto, domani dell’eutanasia. Non vale o vale molto meno quando sono in gioco interessi economici contrapposti, che consentono anzi esigono in una democrazia pluralista che si fonda sull’equilibrio, se pure dinamico, delle parti in contrasto, soluzioni di compromesso». Una analisi che induceva a una conclusione: era stato «se non un errore, una decisione discutibile l’accoglimento della richiesta da parte della Corte Costituzionale, giacché in futuro qualsiasi categoria che si ritenga danneggiata da un provvedimento di politica economica potrà chiederne l’abrogazione». Conclusione: «Ora l’errore più grande sarebbe quello di non riuscire ad evitarlo (il referendum, n.d.a.), la decisione più discutibile quella di lasciarlo svolgere». L’articolo induceva Giorgio Benvenuto a scrivere a Bobbio una lettera personale il 22 aprile in cui manifestando il suo consenso alle analisi del grande giurista, affermava: «Ancora una volta il tuo pensiero esprime un coraggio intellettuale ed una chiarezza d’opinione che giustamente non può collocarsi all’interno di nessuna logica di parte». Ma concludeva, manifestando un certo scoramento per la piega che le cose stavano prendendo: «L’appuntamento referendario appare difficilmente eludibile e soluzioni sicuramente soggettive come quelle avanzate dai radicali non appaiono facilmente praticabili, anche perché occorre fare ogni sforzo fino all’ultimo per evitare il voto referendario. Per questo ti confermo la decisione della scelta compiuta da parte della Uil del “doppio no al referendum e nel referendum”, scelta confortata come saprai dalla adesione di decine di intellettuali all’appello promosso dai professori Craveri, Giugni e Treu anche a nome dello scomparso Ezio Tarantelli».

Ad ogni modo, sulla base di quella sentenza, il consiglio dei ministri il 3 aprile provvide a convocare il referendum per il 9-10 giugno, a metà strada tra le elezioni amministrative (12-13 maggio) e quelle presidenziali (il 24 giugno Francesco Cossiga subentrò a Sandro Pertini). In virtù delle decisioni della Consulta si provvide a stampare il quesito referendario che, si può presumere, nella cabina elettorale quasi nessuno si preoccupò di leggere anche perché scritto in stretto burocratese, lingua piuttosto misteriosa dal punto di vista dei canoni classici dell’italiano: la comprensione sarebbe risultata impossibile. La domanda diceva: «Volete voi l’abrogazione dell’articolo unico della legge 12 giugno 1984, n. 219 (pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 163 del 14 giugno 1984) che ha convertito in legge il decreto-legge 17 aprile 1984 n.70 (pubblicato in Gazzetta ufficiale n. 107 del 17 aprile 1984) concernente misure urgenti in materia di tariffe, di prezzi amministrati e di indennità di contingenza, limitatamente al primo comma, nella parte che ha convertito in legge senza modificazioni l’art. 3 del decreto-legge suddetto che reca il seguente testo: “per il semestre febbraio-luglio” 1984 i punti di variazione della misura dell’indennità di contingenza e di indennità analoghe, per i lavoratori privati, e della indennità integrativa speciale di cui all’art. 3 del decreto legge 29 gennaio 1983, n.79, per i dipendenti pubblici, restano determinati in due dal 1 febbraio 1984 e non possono essere determinati in più di due dal 1 maggio 1984″, nonché al penultimo comma limitatamente a quelli di cui all’art. 3 di quest’ultimo decreto-legge, che reca il seguente testo: “Restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono salvi gli effetti prodotti ed i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto legge 15 febbraio 1984, n.10 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 47, del 16 febbraio 1984)“». Per un amante di cruciverba, un vero divertimento. In realtà, però, tutti sapevano di cosa si trattava: un taglio di quattro punti di contingenza.

Nell’anno intercorso tra il decreto e il referendum, qualche segnale positivo era arrivato dagli indicatori economici: al 31 dicembre del 1984 l’inflazione era scesa al 10,8 per cento con contemporanea crescita del Pil nella misura del 2,6 per cento. Restava, invece, altissimo il tasso di disoccupazione. Cosa che induceva Giorgio Benvenuto, il 25 marzo dell’85, a scrivere sull’Avanti!: «Quello che abbiamo alle spalle non è un anno sprecato. Tutt’altro: sono arrivati importanti risultati per la nostra economia… Ma per qualcuno rischia di essere un altro anno perduto. Lo è per i giovani, i disoccupati, i cassintegrati se la battaglia referendaria, sempre più imminente finirà per fare da carta assorbente nei confronti dell’occupazione… Non si condanni questo paese all’immobilismo per le prossime settimane. Ci sono molte cose da chiarire, molte di più da fare in fretta: tutti i provvedimenti per l’occupazione, innanzitutto, vera e propria questione morale per il Governo, il Parlamento, le forze sociali».

Ci sarebbe voluta un’intesa per aggirare l’ostacolo, cioè per evitare il referendum. Tutti dichiaravano il proprio impegno a trovarla ma alla fine non fu trovata. In realtà ci fu un gran fervore di incontri ufficiali e ufficiosi. E se Carniti aveva provato a convincere Berlinguer a ripensarci (con scarsi risultati), Benvenuto aveva contatti continui con Gerardo Chiaromonte, esponente di spicco dell’area liberal, per provare a indirizzare la storia verso un altro epilogo trovandosi sempre di fronte alla medesima risposta: a una sola condizione il Pci poteva retrocedere, ritiro del decreto e un negoziato che lo coinvolgesse e che poteva portare anche a un accordo «più generoso». Nel frattempo, agli inizi dell’85 la Confindustria proseguiva nel consolidamento della sua linea Maginot, cioè il rifiuto del pagamento dei decimali (confermato a marzo, poi, dalla Federmeccanica), nonostante gli inviti di Craxi a comportarsi diversamente. La ricerca di una intesa si fece frenetica: il 3 aprile Lama, Del Turco, Carniti, Marini, Benvenuto e Veronese in un incontro con il ministro del lavoro misero sul tavolo la proposta di semestralizzazione della scala mobile in cambio, però, di un impegno del governo su fisco e occupazione, e della Confindustria sul pagamento dei decimali. Il 20 maggio la Cgil rilanciò la sua proposta di mediazione (che non essendo equivalente dal punto di vista economico, non riusciva a coagulare la totalità dei consensi) cinque giorni dopo ci provò anche De Michelis beccandosi il rifiuto degli industriali ormai determinati ad andare alle urne perché, come vedremo nel prossimo capitolo, avevano una strategia, come dire, alternativa.

Il ministro del lavoro aveva pensato di mettere sul tavolo la semestralizzazione della scala mobile prevedendo una indicizzazione totale del sessanta per cento dei «salari minimi conglobati» o «quella equipollente in termini di copertura, di un minimo indicizzato al cento per cento di 615.000 lire sommato ad una indicizzazione del quindici per cento della parte residua rispetto ai minimi tabellari conglobati». Inoltre proponeva, nell’arco di vigenza contrattuale, la riduzione di due ore degli orari di lavoro. Una mediazione evidentemente poco affascinante non solo per gli industriali (che, per giunta, di riduzioni degli orari non volevano sentir parlare), ma anche per la Cgil che con una lettera a De Michelis del 26 maggio, firmata da Luciano Lama e Ottaviano Del Turco, chiuse di fatto le danze: «In ordine alla revisione del meccanismo della scala mobile, constatando le distanze che esistono fra le ultime posizioni manifestate dalla Cgil e l’ipotesi da Lei formulata, la delegazione della Cgil chiede al Governo se è in condizione di presentare nuove proposte e di riprendere il confronto nelle prossime ore».

Furono settimane e mesi di contatti, di proposte, di ipotesi. Ad esempio, quella di una legge concordata tra democristiani e comunisti che Benvenuto bocciò così sull’Espresso il 27 gennaio: «Un simile accordo tra i partiti comporterebbe l’emarginazione del sindacato. E oltretutto non capisco l’atteggiamento schizofrenico della Dc che con Goria invoca il rigore e con Scotti ipotizza modifiche sostanziali all’accordo anti-inflazione del 14 febbraio 1984». Contemporaneamente Felice Mortillaro, direttore generale della Federmeccanica (un “falco”, lo si definiva all’epoca) faceva sapere che gli industriali erano interessati solo a una soluzione che comportasse il sostanziale azzeramento della scala mobile: «Penso semplicemente che gli industriali e l’economia italiana non possono permettersi nessun aggravio del costo del lavoro. Una legge simile (quella ipotizzata da Dc e Pci, n.d.a.) sarebbe inaccettabile». Tutti incontravano tutti. Natta, segretario del Pci, incontrava Carniti il 18 febbraio, senza cavare un ragno dal buco. «Pensano a un negoziato che sconfessi sostanzialmente l’accordo del 14 febbraio e pensano, con accattivante candore, che questo negoziato si possa fare con la Cisl», dicevano gli uomini di Pierre Carniti che nelle riunioni sindacali ribadiva: «L’unità sindacale funziona se scontenta tutti i partiti». Qualche giorno prima, precisamente il 15 febbraio, sempre Natta aveva visto Benvenuto che alla fine diceva: «Natta mi è sembrato attento ai problemi che il referendum solleverebbe. Ha detto di apprezzare la posizione della Cgil e il tentativo della Uil di trovare una soluzione. Ha aggiunto che il Pci appoggerà un accordo sindacale». Poi aggiungeva: «Senza il Pci non si fa un governo di stampo socialdemocratico europeo. Allora perché scavare un solco tra i due partiti della sinistra storica?». Dall’altra parte, Lama vedeva Spadolini e illustrava a Ciriaco De Mita (il 6 febbraio) la proposta della Cgil per far ripartire il negoziato. Una proposta la lanciava anche Claudio Martelli: una parte del salario totalmente protetta dalla scala mobile, una seconda tutelata in misura decrescente con il crescere del reddito; restituzione dei quattro punti ma non in busta-paga bensì per finanziare un fondo per l’occupazione alimentato per un terzo dallo Stato, per un terzo dai lavoratori e per un terzo dalle imprese (una ipotesi che risentiva molto delle elaborazioni di Carniti). Anche i repubblicani cercavano una via d’uscita proponendo un salario con una fascia totalmente protetta ma una scala mobile che sarebbe scattata solo una volta all’anno. Alla fine fu più un esercizio di stile. Perché mancavano gli uomini giusti e i tempi altrettanto giusti per evitare il referendum. Enrico Berlinguer, che aveva l’autorevolezza per prendere una decisione coraggiosa, non c’era più. Nel frattempo, incombevano le elezioni amministrative che per Alessandro Natta erano il primo banco di prova da segretario.

Alla fine tutti accettarono una sfida che, a parole, nessuno voleva. L’accettò Natta, che pure nutriva qualche perplessità, ma sentiva intorno a sé l’ottimismo dei militanti, l’ottimismo di un partito che confidava di bissare il successo dell’anno prima all’Europee, sottovalutando l’effetto emotivo della scomparsa di un leader molto amato da chi votava per il Pci e molto stimato anche da chi non votava quel partito o, addirittura, lo avversava (diceva di lui Indro Montanelli, un giornalista che non ha mai coltivato simpatie di sinistra: «Uomo introverso e malinconico, di immacolata onestà e sempre con una coscienza esigente, solitario di abitudini spontanee, più turbato che allettato dalla prospettiva del potere, e in perfetta buona fede»). La sfida l’accettò anche chi sembrava destinato a perderla. Perché alla fine Benvenuto vinse la sua battaglia convincendo i partiti favorevoli al “no” a puntare sulla scommessa delle urne e non sulle “scappatoie vacanziere”. Il 27 maggio, infatti, in un vertice decisero di marciare a ranghi (quasi) compatti verso il referendum.

Con qualche tentennamento e qualche colpo basso. Biagio Agnes, direttore generale della Rai, uomo di Ciriaco De Mita, ad esempio, impedì a Bettino Craxi di presentarsi alla tribuna elettorale che concludeva il ciclo tele-referendario per l’appello finale (consueto all’epoca). Il Presidente del Consiglio fece, però, una mossa a sorpresa che ebbe notevoli conseguenze sul voto: annunciò che si sarebbe dimesso se il decreto fosse stato cancellato, inducendo Alessandro Natta a escludere un simile automatismo. Doveva, insomma, restare al suo posto anche nel caso di sconfitta referendaria. Dal canto suo, Luciano Lama lasciò a una Cgil divisa, la libertà di coscienza. Aveva firmato per il referendum e la cosa era stata presa molto male dai suoi colleghi, Carniti e Benvenuto. Lui si è poi difeso così: «Firmando legittimavo sia i comunisti della Cgil per la firma, sia i socialisti della Cgil per l’ostilità alla firma, e per la propaganda contro il referendum. Firmando aprivo la strada a Ottaviano Del Turco e agli altri compagni socialisti che volevano esprimersi pubblicamente in modo contrario al mio. Se mi fossi astenuto dal firmare, loro sarebbero stati meno liberi di muoversi di come si son mossi contro il referendum». Ma i socialisti della Cgil avevano anche un’altra paura: cosa sarebbe accaduto all’interno della Confederazione se la cancellazione del decreto fosse passata? Quali spazi avrebbero avuto con un “garante” come Lama in uscita? Lama, però, si comportò da grande leader e aprì gli spazi televisivi anche a chi all’interno della Cgil dissentiva: «La Rai-Tv aveva invitato i segretari delle confederazioni, uno alla volta, perché esprimessero la loro opinione sul referendum. Io dissi: ci vado, in tivvù, soltanto se viene anche Del Turco».

I sondaggi, come abbiamo sottolineato inizialmente, non confortavano la speranza del “partito del No”. Quello di “Panorama” veniva commentato così da Giorgio Benvenuto, sullo stesso settimanale: «Il test fotografa lo stato del dibattito. La verità è che il Pci ha già da tempo iniziato una martellante campagna elettorale per il “Sì”, mentre finora noi, la Cisl e lo stesso governo siamo stati impegnati a evitare che il referendum si facesse. In definitiva, la campagna elettorale per il “No” deve ancora iniziare ed è abbastanza logico che il sondaggio registri questo ritardo». Il venerdì 7 giugno il “fronte del No” riuscì a organizzare una manifestazione in Piazza Navona: per dare un effetto di grande partecipazione venne invasa dai taxi che con il loro colore giallo “impastavano” in un magma indistinto i monumenti barocchi e le persone. Lo stato d’animo, però, rispetto al sondaggio di marzo era un po’ diverso. Alla base di questo cambiamento di umore, i risultati elettorali. I dati non sembravano confortare le scelte del Pci che perdeva colpi sia alle comunali che alle regionali: il 33,3 delle Europee si era trasformato (nei comuni con oltre cinquemila abitanti) in un misero 28,5 e alle regionali (statuto ordinario) nel 30,2; risaliva leggermente la Dc (dal 33 delle Europee al 34 delle comunali al 35 delle regionali); cresceva il Psi (dall’11,2 dell’anno prima, arrivava nelle comunali al 14,9 e nelle regionali al 13,3); arretrava il Pri che continuava a beneficiare solo parzialmente dell’effetto-Spadolini (4 per cento alla regionali, 4,8 alle comunali).

Numeri che aprirono all’interno del Pci un “processo” contro Lama: «C’era chi pensava che le elezioni amministrative le avevamo perse anche per gli errori miei alla Cgil, per gli errori del gruppo dirigente sindacale, per il mio dissenso troppo manifesto rispetto al referendum e, soprattutto, per il modo in cui avevo preso le distanze dall’ultima fase della segreteria Berlinguer».

Il 10 giugno, quando le urne vennero aperte, la sorpresa fu straordinaria, almeno quanto quella che il 12 maggio, contemporaneamente alle amministrative, si era prodotta sui campi di calcio con la vittoria dello scudetto da parte di una squadra di provincia, il Verona, ai danni della potentissima Juventus dell’Avvocato Agnelli (che poi in quello stesso mese visse il dramma dell’Heysel, la vittoria di una Coppa Campioni con trentanove morti ai bordi del campo, trentadue italiani). Fu tutto sorprendente. L’affluenza, ad esempio, notevolmente alta: 34.959.404 italiani su 44.904.290 (il 77,9 per cento); il risultato finale: 18.384.788 italiani, cioè il 53,3 per cento si era opposto alla cancellazione del decreto di San Valentino; 15.490.855, quindi il 45,7 aveva risposto positivamente all’invito a cancellare il provvedimento (le bianche e le nulle furono in tutto 1.113.761). Ma la sorpresa era anche nella scomposizione del dato: il “no” vinceva nelle regioni industriali (Lombardia, Liguria, Piemonte); il sì resisteva nelle roccaforti elettorali del Pci (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria). La regione che in massa votava per il mantenimento del decreto era il Trentino Alto Adige: 75 per cento; la città che in percentuale esprimeva il maggior numero di “no” era Bolzano, 82,1. Ma la conferma del decreto poteva contare su un buon dato regionale in Lombardia (61,3) e su un buon dato comunale a Milano (57,1). Il “sì” otteneva in Calabria (55,2) le stesse percentuali della Toscana, faceva il pieno a Siena (61,4). Con una circolare a tutte le strutture, Giorgio Benvenuto, però, «invitava a non fare trionfalismi». E aggiungeva: «Vogliamo mettere l’accento sul fatto che il dato referendario deve favorire una riflessione da parte di tutti… È necessario ridare spazio all’autonomia del movimento sindacale, dando nuove regole alla democrazia sindacale, in modo da recuperare il rapporto con i lavoratori, e rendere possibile la partecipazione reale alle scelte che il sindacato dovrà compiere». Luciano Lama con franchezza ha spiegato anni dopo che la sconfitta nel referendum non lo sorprese: «In qualche modo l’avevo previsto. M’è dispiaciuto perdere. Se l’avessimo vinto, il Pci avrebbe avuto in seguito meno difficoltà. Ma non sono sicuro neppure di questo. Sì, i risultati materiali del decreto sulla scala mobile sarebbero stati annullati. Però avremmo ristabilito con più lentezza e forse con maggiori problemi i rapporti unitari con la Cisl e la Uil».

* Dal libro di Giorgio Benvenuto e Antonio Maglie: “Il divorzio di San Valentino. Così la scala mobile divise l’Italia”, con un saggio di Antonio Agosta: “Referendum, un’analisi”. Terza edizione. Bibliotheka Edizioni, 2016, pp 617, euro 35,00

antoniomaglie

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