In gioco il cambiamento? No, democrazia e diritti

elettori

-di ANTONIO MAGLIE-

La vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane accompagnata dall’ultima debacle dei sondaggisti (non è che in questi anni abbiano sbagliato solo negli Usa) ha avviato un coro, a livello di opinionisti, così sintetizzabile: “Vince il cambiamento”. La parola “cambiamento” ha assunto lo stesso significato generico della parola “riforma”. Per decenni, almeno sino agli anni Ottanta, la “riforma” aveva un preciso significato: costruire le condizioni per dare equilibrio alla società, per garantire diritti a chi non li aveva, per favorire, attraverso un uso mirato della leva fiscale, la redistribuzione del reddito in maniera tale da limitare le distanze tra i più ricchi e i meno ricchi o più poveri.

Le elezioni americane per uno strano paradosso della storia, associano adesso la parola a un neo-presidente che viene dallo stesso partito che oltre trent’anni fa si preoccupò di cambiare il significato di quella parola. Quel “cambiamento” (rafforzato dalla contemporanea presa del potere in Gran Bretagna da parte di Margaret Thatcher: si può in effetti ritrovare qualche parallelismo tra quella e questa situazione con la May da una parte e The Donald dall’altra) ha determinato la società attuale. Insomma, siamo davanti al paradosso: quello che viene considerato il “nuovo Reagan” ha vinto sostenendo che combatterà gli effetti perversi di ciò che il “primo Reagan” contribuì (insieme alla Thatcher) a creare (spinta spregiudicata alla globalizzazione e alla finanziarizzazione).

Le parole “cambiamento” e “riforma” assumendo un carattere apparentemente neutro vengono messe al servizio di pulsioni di destra veramente poco rassicuranti. Si dice che in Europa in tanti temano il contagio, da Renzi a Hollande alla Merkel. Molti “esperti” sostengono che il successo nelle urne dipende dalla capacità di presentarsi come un momento di rottura rispetto all’establishment. Ma nessuno specifica di che tipo debba essere la rottura. Siamo all’ideologia del “cambiamento per il cambiamento” con la conseguenza che, in realtà, come Arlecchino quella parola serva più padroni o in particolare uno la cui identità è preferibile non svelare. Perché il contagio di cui si parla oggi è cominciato da tempo e riguarda la sottile pervasività di teorie e di comportamenti che puntano a dimezzare la democrazia, a eliminare i diritti (la conseguenza di una operazione del genere è sempre l’indebolimento dei più deboli), ad abbattere garanzie.

Dietro alla parola “cambiamento” depurata da ogni riferimento di tipo progressista (anzi!) si cela il desiderio di un rafforzamento delle leadership funzionale all’esigenza dei poteri forti economici (i veri destinatari delle cessioni di sovranità) di gestire con mano sempre più libera (e indifferente alle esigenze delle persone) i propri affari globali. Un messaggio che fa breccia in vasti strati della pubblica opinione convinti che davanti al caos, un più alto livello di benessere e sicurezza possa essere molto meglio garantito da un potere privo di condizionamenti, in grado di prendere decisioni (da altri ispirate) con grande velocità, al servizio della rapidità delle scelte dei circoli finanziari che, essendo impazienti di speculare e monetizzare, non possono tollerare quella “pazienza” che a parere di Norberto Bobbio è il tratto essenziale della democrazia. Ci sono stati altri tempi, altri momenti, altri luoghi in cui il mondo si è esaltato con il mito della velocità: le conseguenze come dovrebbe essere noto sono state nefaste.

La posta in gioco, insomma, non è il cambiamento inteso come trasformazione riequilibratrice, ma la scarnificazione della democrazia, il finale prosciugamento di quella idea di società che si era affermata dopo la guerra, che in alcune zone del mondo aveva cominciato a manifestarsi anche prima (pensiamo alla Svezia e al suo welfare) e che ha trovato il suo momento più esaltante in quelli che vengono definiti ancora oggi i “trenta gloriosi” cioè gli anni di una crescita prolungata, forte e, soprattutto, diffusa. Trump è così tanto intenzionato a combattere le lobbies che pensa di attribuire la poltrona di ministro del tesoro a un banchiere. Tra i candidati, Jamie Dimon, amministratore delegato di J.P. Morgan, cioè di quella istituzione finanziaria che il 28 maggio del 2013 elaborò un documento sull’Europa di sedici pagine in cui si leggeva questo significativo passaggio: “Quando la crisi è iniziata era diffusa l’idea che questi limiti intrinseci avessero natura prettamente economica: debito pubblico troppo alto, problemi legati ai mutui e alle banche, tassi di cambio reali non convergenti, e varie rigidità strutturali. Ma col tempo è divenuto chiaro che esistono anche limiti di natura politica. I sistemi politici dei paesi del sud, e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea. Quando i politici tedeschi parlano di processi di riforma decennali, probabilmente hanno in mente sia riforme di tipo economico sia di tipo politico. I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. I sistemi politici e costituzionali del sud presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori; tecniche di costruzione del consenso fondate sul clientelismo; e la licenza di protestare se vengono proposte sgradite modifiche dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”.

Dietro la genericità della parola “cambiamento” si scopre la sostanza del “nuovo” che si intende costruire. Per illustrarlo con chiarezza ci affidiamo alle parole di Antonio Agosta, politologo illustre, docente di sistema politico italiano all’università RomaTre, che parlando delle nuove forme di democrazia in cui conta “chi vince e solo chi vince”, spiega così la deriva imboccata: “Una democrazia delegata, quella che qualcuno ha chiamato democradura, che non è una dittatura ma una democrazia dura, aspramente competitiva, dove chi ha vinto può usare toni forti nei confronti di chi ha perso”. Questo sembra essere il “cambiamento” inseguito da molte leadership. Ma non sembra essere il più auspicabile.

antoniomaglie

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