Auguri Pierre, innovatore coraggioso e inquieto

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Oggi Pierre Carniti compie ottant’anni essendo nato a Castelleone in provincia di Cremona il 25 settembre 1936. È stato uno dei grandi protagonisti della storia italiana, non solo sindacale, del Novecento. Ed è stato, soprattutto, uno straordinario innovatore. Fu tra i primi a comprendere agli inizi degli anni Sessanta che il sonnolento e per molti aspetti emarginato sindacato degli anni Cinquanta aveva bisogno di essere risvegliato dal letargo e che i discorsi unitari stavano tornando di moda perché le giovani generazioni (il famoso operaio-massa) da un lato reclamava un nuovo protagonismo e dall’altro non riusciva più a comprendere il lessico da insuperabile Guerra Fredda dei decenni precedenti. E intorno a lui, a Bruno Trentin e a Giorgio Benvenuto si consolidò il progetto unitario da cui nacque la Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM). Sei anni al vertice della Cisl (dal 1979 al 1985), dieci anni al Parlamento Europeo, un breve passaggio anche al Senato. Gli ultimi anni alla guida della Cisl furono per lui drammatici: problemi di salute che lo obbligarono a un lungo “soggiorno” in ospedale, figli anche dello stress accumulato nei giorni della trattativa che culminò nel decreto di San Valentino firmato da Bettino Craxi dopo una lunga trattativa che, però, non bastò a superare l’opposizione del correntone comunista della Cgil. Alla fine sul tavolo del presidente del Consiglio arrivarono tre lettere: due (firmate da Carniti e Benvenuto) che consideravano soddisfacenti gli accordi raggiunti (anche su fisco ed equo canone) dando perciò via libera al provvedimento governativo, e una che li bocciava (firmata da Luciano Lama). In un attimo quell’unità faticosamente costruita, anche con grandi sacrifici personali, andò in fumo. Ecco perché abbiamo pensato di ricordare questo anniversario del leader riproponendo un capitolo, a lui dedicato, del libro scritto da Giorgio Benvenuto e Antonio Maglie su quella vicenda che divise profondamente la politica, il sindacato e, alla fine, in un referendum, anche il Paese. Ma soprattutto la Fondazione Pietro Nenni vuole cogliere questa occasione per celebrare un grande sindacalista e una persona talmente libera da sfuggire a tutte le etichette. Auguri Pierre, con la tua storia personale ci hai fornito un concreto esempio di quanto l’inquietudine politica e culturale possa essere benefica per interpretare quel magma a volte confuso che chiamiamo società.

di GIORGIO BENVENUTO e ANTONIO MAGLIE*-

Quando l’8 di luglio del 1985, in una Roma assolata e accaldata, recise con una relazione appassionata il cordone ombelicale con la Cisl, in tanti compresero che un’epoca stava finendo. Giorgio Benvenuto lo ha detto recentemente in un libro: le difficoltà del sindacato sono in qualche maniera legate alle uscite di scena di Pierre Carniti e Luciano Lama. Che, peraltro, non è che si amassero, anzi. Certo, il decreto di San Valentino aveva reso incandescenti i rapporti tra il leader della Cisl e il collega della Cgil, ma la scarsa sintonia risaliva a molto tempo prima. E non era estraneo, in qualche maniera, Eugenio Scalfari, direttore de “la Repubblica” che quando sul suo giornale parlava di sindacato faceva riferimento quasi esclusivamente alla Cgil, scatenando l’irritazione di Carniti che pure guidava all’epoca una organizzazione con tre milioni di iscritti e rispetto alla confederazione socialcomunista non si sentiva “figlia di un dio minore”.

Quando, poi, proprio nei giorni più roventi della polemica sul decreto e sulla rottura, Carniti finì al Policlinico Umberto I per un serio problema cardiaco, Luciano Lama decise di non fargli visita, al contrario di Bettino Craxi che, invece, in quella stanza entrò. «Ma so che ha telefonato spesso per chiedere mie notizie», diceva a Miriam Mafai nel corso di una chiacchierata apparsa su “la Repubblica” il 3 maggio dell’84. «Brusco e accattivante», lo definiva la grande giornalista. Aggettivi quantomai calzanti. Raccontava alla Mafai le sue pene in quei giorni di grandi polemiche, le pene di un “cane sciolto” di sinistra guardato, però, con sospetto, con il sospetto che di solito si riserva ai “traditori del Popolo”: «La nostra democrazia è gracile e noi non riusciamo a sopportarci a vicenda, a trovare un comune terreno d’intesa per andare avanti. Berlinguer è antipatico a Craxi, Craxi è antipatico a Berlinguer. De Mita è antipatico a Longo. Io sono antipatico a quasi tutti. Ma ti sembra serio? Ti sembra responsabile? Adesso vengo accusato di essere amico di Craxi, come una volta venivo accusato di essere amico dei gruppettari».

Amico forse no, ma è chiaro che un certo fascino tra i tanti ragazzi di quegli anni che vedevano nel sindacato anche una forza di trasformazione politica del paese, al di là e, soprattutto, al di sopra dei partiti (e dei loro radicati e non mondabili vizi), lui, il leader dell’Autunno Caldo (subito dopo Macario), che aveva trasformato la Cisl, vecchio sindacato di chiara e stretta osservanza democristiana, in un’agile navicella che solcava i mari evitando abilmente gli scogli del conformismo e dell’ortodossia che induceva soprattutto la sinistra comunista a sentirsi depositaria di una verità assoluta, dogmatica, di contenuto diverso ma di portata analoga a quella degli integralismi religiosi (cattolici compresi), un certo fascino lo esercitava. Forse anche per una certa capacità affabulatoria, per quella robustezza culturale costruita con la passione di chi vuol conoscere e non con il fastidio di chi si sente obbligato a conoscere. Chiudeva quell’intervista con una battuta: «Dicono che sono un po’ matto? Questo forse è vero. Ma chi di noi non lo è, un po’?» Una follia fatta di irregolarità ma anche di una certa coerenza. Se nei confronti di Lama il suo rapporto (e il suo giudizio) nel tempo è cambiato, con Bruno Trentin, nonostante la frequentazione nella Flm, le relazioni erano piuttosto fredde. Non aveva gradito, proprio nella fase del decreto, il “tenersi in disparte” di quello che poi sarebbe diventato anni più tardi il segretario della Cgil e che, ironia della sorte, avrebbe firmato l’accordo nel ‘92 per la “tumulazione” della scala mobile, dopo aver detto, in quell’ormai lontano ‘84, che il Pci (e quindi la Cgil) non avrebbero firmato mai l’intesa, nemmeno se Craxi avesse inserito la corresponsione di un notevole quantitativo di mele d’oro su un vassoio d’argento.

Dal sindacato si staccò spiegando per l’ultima volta l’idea che aveva ispirato la sua azione da segretario: «Noi abbiamo appreso a considerare le diversità una ricchezza, anziché un ostacolo, avendo lasciato indietro l’illusione che qualcuno o qualche ideologia possano monopolizzare la rappresentanza del lavoro». E concetti non diversi aveva utilizzato, ad esempio, Bruno Manghi in una intervento su “il Manifesto” di un anno prima a proposito della rottura: «Tra gli anni Cinquanta e Sessanta matura concordemente tra i lavoratori attivi nel sindacato l’idea che l’obiettivo principale, la condizione di ogni conquista successiva, è l’esser riconosciuti come rappresentanti e interlocutori delle istituzioni. A dispetto delle profonde diversità di allora, si tratta di una idea strategica, di un punto di unione e di solidarietà. Il semplice slogan “Uniti si vince” lega bene la sensibilità di base con gli interessi delle varie organizzazioni. Anzi l’esser diversi sul piano politico, culturale e religioso dà sale all’impasto: sperimentare la fine di un silenzio ostile fra diversi alimenta le speranze e sentimenti fraterni. Proprio perché tra diversi, i patti assumono un significato forte. Invece, quando come oggi nella quotidianità ci si assomiglia tutti, la competizione richiede d’essere alimentata sottolineando le differenze».

Cercare una lettura capziosa delle sue scelte in occasione di San Valentino è una operazione di dubbia onestà intellettuale perché, al di là degli aspetti tattici o degli irrigidimenti dovuti a situazioni contingenti, la scelta fu conseguente alla sua idea di sindacato. Diceva in un dibattito pubblicato su “la Repubblica” il 9 marzo del 1984: «L’unità è andata in crisi tutte le volte che il sindacato ha manifestato in concreto la sua volontà di essere attivo soggetto politico. Questo soprattutto il Pci non lo tollera. Ricordo il caso del Fondo di Solidarietà, ricordo l’intesa del 22 gennaio. Sempre, quando il sindacato è uscito dal suo recinto di pura contrattazione della forza lavoro, l’unità ha subito scossoni molto duri… Per un sindacato progressista e riformatore non esistono garanti, neppure a sinistra… Dentro il sindacato sono anche le ragioni della debolezza dell’unità. Nella sua incapacità a fare politica in proprio. È il sindacato invece che deve essere in prima persona forza di sinistra, progressista per natura e vocazione. Semmai la crisi del sindacato aggrava la conflittualità a sinistra… È il sindacato che deve fare autonomamente politica, altrimenti è subalterno o corporativo». Qualche giorno prima, il 22 febbraio, sull’Avanti!, in una intervista a Giorgio Lauzi, aveva spiegato: «L’accordo esalta il ruolo del sindacato come soggetto politico nella misura in cui esprime una rivalutazione della politica come deve essere intesa in un sistema democratico pluralista». E poi si lamentava: «La tendenza a delegittimare il sindacato attraversa verticalmente la sinistra e la destra, dando luogo a una sorta di cultura hegeliana che separa rigidamente i processi della dialettica sociale». Quella concezione hegeliana finiva per mandarlo in rotta di collisione un po’ con tutti. Ad esempio con Giorgio Amendola: «Non lo amo, diciamo che non sono tra i suoi più grandi e postumi estimatori. Era un dirigente che non ha mai riconosciuto, mai ammesso fino in fondo l’autonomia dei movimenti, intendo l’autonomia politica, il loro diritto e la loro capacità di fare politica a pieno titolo. Anche Amendola soffriva di hegelismo, questa sacralizzazione delle istituzioni e dello Stato a scapito della società». E ovviamente nel suo mirino finivano molti altri perché di hegelismo soffrivano «anche Berlinguer. E anche De Mita, in parte, almeno. Ma De Mita poi si sforza di capire le ragioni dei movimenti. Ma Berlinguer è come Ceausescu. Grandi aperture sul piano internazionale, ma sul piano interno…». Alcune sue analisi hanno retto al tempo che passa, ad esempio quella sulle conseguenze della crisi della politica. Spiegava sempre a Lauzi: «L’alternativa alla politica è il prevalere del mercato, inteso non come categoria economica, giacché come tale non è forse mai esistito se non nella mente di Adamo Smith, ma come regolatore esclusivo dei rapporti di forza».

La sua idea “movimentista” non poteva certo coniugarsi con la logica politica del Pci che non aveva colto il ‘68 mentre nel ‘77 si era preoccupato solo di assumere un atteggiamento in qualche misura “repressivo” senza provare a vedere se in quel magma infuocato vi fosse qualcosa che potesse essere se non recuperato, quanto meno indirizzato verso una civile protesta. Da questo punto di vista, le parole che consegnava a Pasquale Nonno, a marzo dell’84 in occasione di una intervista all’Europeo forniscono il quadro esatto della sua difficoltà a rapportarsi con le rigidità comuniste: «La cultura prevalente nel Pci resta quella che fa riferimento alla Terza Internazionale, malgrado qualche non fortunato contributo al suo superamento. Il primato della politica viene fatto coincidere con il primato del partito, di un partito. Non si riesce a concepire che in una società pluralista moderna, i soggetti politici sono molteplici». E ancora più duro: «Il Pci era convinto che le grandi decisioni che riguardano la sinistra e la società italiana dovessero passare, esplicitamente o implicitamente, sul tavolo o sotto il tavolo, attraverso la sua intermediazione. Il nodo che è venuto al pettine è la pretesa del Pci di voler dimostrare che è la forza egemone ed esclusiva nella sinistra e a livello sociale. È un errore di valutazione. Spero che prima o poi venga il momento in cui si possa ragionare con il Pci. Ora i comunisti sprecano molte forze per dimostrare questa egemonia. E le altre forze progressiste, tra cui la Cisl, devono sprecarne altrettante per contrastarlo… La cultura dell’autonomia per la Cisl è un dato profondo, costitutivo. Siamo una realtà anomala secondo i parametri correnti. Solo una minoranza del gruppo dirigente aderisce esplicitamente a un partito. Di alcuni colleghi con i quali lavoro non so nemmeno per chi votano».

Da un punto di vista elettorale, la sua tendenza a essere un “cane sciolto” lo aveva, ad esempio, portato a votare per Riccardo Lombardi, personalità estremamente eterodossa, probabilmente per i suoi trascorsi nel Partito d’Azione, capace di affascinare chi sognava l’Alternativa ma anche di suscitare grande rispetto in chi non aveva una idea propriamente movimentista della politica come Ugo La Malfa (diceva il leader repubblicano del vecchio compagno del Pd’A: «Non basta avere gli economisti. Bisogna avere anche chi interpreta politicamente gli economisti. Ora secondo me, c’era un solo uomo nel Psi che poteva impostare bene il problema dell’economia moderna in Italia, Riccardo Lombardi. E devo dire che quando Nenni andò per la prima volta al governo mi chiese di convincere proprio Riccardo Lombardi a seguirlo. Nenni in questo aveva le idee chiare, per lui sarebbe stato come il braccio secolare. Io andai da Lombardi per convincerlo e gli dissi: “Voi socialisti mi avete mandato a fare la nazionalizzazione elettrica, a un anno dalle elezioni del ‘63, e io sapevo benissimo che il mio partito l’avrebbe pagata. Se nella battaglia del centro-sinistra io ho fatto i miei cento metri, adesso tocca a te”»). La sintesi del discorso di Carniti relativamente al rapporto tra sindacati e forze politiche era semplice: «La fonte di legittimazione del gruppo dirigente è all’esterno dei partiti; è logico che i partiti impongano limiti, meccanismi di controllo, regimi di autorizzazioni». Nonostante tutto, per molto tempo, all’interno del Pci la stella dell’irregolare Carniti aveva brillato alta e lucente. Poi, quanto meno a Botteghe Oscure, cominciarono a preferirgli Franco Marini, il Segretario Generale Aggiunto che gli sarebbe subentrato: tessitore più paziente, probabilmente meno fascinoso ma anche meno brusco.

Nella sua intervista, Pasquale Nonno chiedeva a Carniti: «In questi giorni lei viene visto spesso come anticomunista, eppure più di una volta ha detto di preferire un governo di cui faccia parte il Pci. Perché?» La risposta non era assolutamente sorprendente, anche alla luce di quel che stava accadendo in quei giorni: «Perché un Pci arroccato, che fa politica guardando al passato, è un problema serio per questo paese. Moro diceva che l’Italia ha una democrazia bloccata che rischia di rimanere incompiuta. È un grosso rischio. Nei fatti al Pci non viene riconosciuta legittimità di forza di governo. Esso stesso contribuisce molto alla sua esclusione. Io personalmente non ho capito chi dovrebbe comprendere questa alternativa democratica, né cosa sia». La sostanza è che proprio con la sua libertà di manovra, Carniti aveva in pochi mesi sconvolto antiche certezze. Era considerato il miglior amico dei comunisti; si ritrovava a essere considerato il miglior amico di Craxi. Conclusione: l’amico del mio nemico è anche mio nemico secondo una logica decisamente in voga, ancora oggi, nella politica italiana. Carniti si era sentito anche un po’ usato nel periodo del compromesso storico e lo faceva notare, indirettamente, nel corso di quel dibattito pubblicato su “la Repubblica” quando ricordava a Lama che «l’accordo del 1977 sulle liquidazioni la Cisl lo avrebbe volentieri respinto». Insomma, l’unità val bene qualche boccone amaro che la Cgil, invece, non era stata in grado, sette anni dopo la storia delle liquidazioni (quella del referendum evitato da Spadolini), di ingurgitare.

Riusciva difficile a molti interpretare le sue scelte come la conseguenza del suo modo di intendere il sindacato come autonomo soggetto politico; più facile considerarle (e rappresentarle) come una forma di tradimento, come manifestazione di “intelligenza con il nemico”. E, d’altro canto, Craxi andava al congresso della Cisl e lo ringraziava definendolo «uomo coerente, capace e generoso». Non è un caso che dai leader di opinione, dai giornali più prossimi a Berlinguer (o anche a De Mita) o a settori della Confindustria che apprezzavano poco l’idea dell’accordo, in quei mesi sia stato scelto come il bersaglio preferito delle critiche, in pratica la causa di tutti i mali. Su “la Repubblica” il primo a criticarlo severamente fu Fausto De Luca, con un corsivo del 18 febbraio 1984. Diceva il famoso notista politico: «Il protagonismo di Carniti all’interno del sistema sindacale surclassa quello di De Mita nel mondo dei partiti, tende anzi a sopravanzare la Dc di fronte al mondo cattolico, a fare della Cisl l’elemento di punta avanzato di un popolarismo che comprende e raccoglie la sfida di Craxi, le risponde andando ancora più avanti nella rottura coi comunisti, con l’ambizione di indicare una via d’uscita al partito tuttora anchilosato nelle vecchie correnti, nelle stantie divisioni, nelle oligarchie immobili, quasi sovietizzate… È la sua presa di posizione più politicamente schierata, più oltranzista si potrebbe dire, dal lato del governo, quasi proiezione di uno schieramento politico all’interno del sindacato, per farsene elemento di forza e di competitività nei confronti delle altre organizzazioni, in primo luogo la Cgil, naturalmente».

Oggettivamente, appare un po’ complicato considerarlo, anche oggi, a tanti anni di distanza, come una sorta di “avanguardista democristiano” lui che, al tempo stesso, veniva definito troppo amico dei socialisti e, comunque, troppo orientato a sinistra (tanto è vero che per riequilibrare in qualche modo l’organizzazione, Franco Marini, dichiaratamente democristiano, forzanovista, era il segretario generale aggiunto). Dopo De Luca, il giornale di Scalfari schierò un editorialista di primissimo piano, Massimo Riva che lo indicava come il vero autore del decreto di San Valentino. Scriveva, alla fine di una articolata analisi sull’esproprio, attuato attraverso l’accordo, delle prerogative parlamentari in tema di politica economica: «Sul significato istituzionale di quanto verificatosi, c’è una conferma autentica che viene dal regista dell’intera operazione, il sindacalista Pierre Carniti». Cosa si era verificato? Non una violazione costituzionale, come pure alcuni all’epoca sostenevano: «Semmai è più fondato il dubbio che esso (il provvedimento, n.d.a.) modifichi una prassi di non intervento governativo su materia finora lasciata alla autonoma disponibilità delle parti». Dunque? «Così come è stato concepito e realizzato, esso configura un vigoroso colpo inferto ai principi dello Stato liberale e un decisivo passo innanzi sul piano inclinato della degenerazione corporativa». Come la premessa (violazione di una prassi di non intervento governativo) possa conciliarsi con la conseguenza (violazione dei princìpi dello stato liberale) è piuttosto complicato da capire. In sostanza, a parere di Riva, il Parlamento aveva approvato bilancio e legge finanziaria ma le «organizzazioni sindacali si sono recate a Palazzo Chigi per rinegoziare daccapo, con il governo, i modi e i contenuti di quanto il Parlamento aveva deciso». Era di salario, di meccanismi automatici di adeguamento che si era parlato a Palazzo Chigi, temi che erano stati sempre al centro della contrattazione sindacale, anche nel momento in cui il governo della non sfiducia, con il sostegno del Pci, aveva provveduto a modificare il sistema di calcolo delle liquidazioni, l’incidenza della scala mobile.

Evidentemente c’era stato anche in quel caso una violazione dei principi dello Stato liberale, ma nessuno l’aveva denunciata. Infine, il 18 marzo scendeva direttamente in campo Eugenio Scalfari per affermare che «il vero autore del decreto è Pierre Carniti e in subordine Giorgio Benvenuto». Il direttore de “la Repubblica” svelava un disegno peraltro reale anche se non nelle forme adombrate: «La Cisl auspica un grande sindacato libero che escluda dalle sue fila i comunisti».

In effetti, l’idea circolava. Ma l’ultimo ad accarezzarla era proprio Carniti. L’uomo che si dedicava con maggiore passione a questo disegno era Claudio Martelli. Immaginava, il “delfino di Craxi”, come veniva definito a quei tempi, un grande sindacato democratico che riunisse Cisl e Uil. Un’idea non nuovissima, che era stata adombrata anche alla fine degli anni Quaranta e Cinquanta, dopo l’uscita dei comunisti e dei socialisti dal governo, l’inevitabile rottura sindacale con conseguente frammentazione. Ma era un guardare indietro e non avanti. Irrealizzabile per un paio di motivi. Tanto per cominciare i differenti valori a cui i due sindacati che avrebbero dovuto fondersi facevano riferimento. Per quanto la Cisl di quei tempi avesse, come diceva Carniti, una quota minoritaria di dirigenti democristiani, restava, comunque, ancorata a valori decisamente diversi, una diversità che, se vogliamo, è emersa anche in tempi recentissimi nella difficile coabitazione delle diverse anime del Pd nel momento in cui si passa a parlare di diritti civili. In secondo luogo, poi il mondo era in grande evoluzione, si avvertivano cedimenti in quello che Reagan aveva ribattezzato “l’Impero del Male”, cinque anni dopo il comunismo sarebbe stato sotterrato dalla Glasnost, dalla Perestrojka di Gorbaciov e, soprattutto, dalle macerie del Muro di Berlino. Organizzare una operazione sindacale di stampo anticomunista sarebbe stato inizialmente inutile e, alla fine, a giochi internazionali fatti, anche un po’ ridicola.

Certo, Martelli si adoperò molto. Il 27 settembre del 1984 organizzò una riunione all’hotel Jolly (quello a due passi dall’ufficio di Luciano Lama in Corso d’Italia a Roma) con i socialisti della Cgil, della Uil e della Cisl. Ma l’iniziativa trovò scarsi consensi. Due mesi dopo, Giorgio Benvenuto riunì i socialisti della Uil e affermò: «Che cosa intende fare il Partito Socialista? Continuare un confronto con i sindacalisti socialisti o metterli in secondo piano e privilegiare il rapporto e l’accordo con la Cisl?» A febbraio, Martelli a un convegno della Uil sul lavoro, dichiarò di essere in disaccordo con la Uil e di concordare, invece, con la Cisl. Sempre nello stesso mese, il 25 febbraio, Martelli in un convegno a Bologna sul riformismo affermò che gli «interlocutori privilegiati del Psi nel sindacato sono i riformisti della Cgil e, soprattutto, la Cisl». La risposta più netta a un progetto che non decollò, Giorgio Benvenuto la diede, però, davanti a una platea di socialisti e di dirigenti socialisti: il congresso che si svolse a Verona dall’11 al 15 maggio (quello dell’acclamazione di Craxi al vertice del partito, dei fischi a Berlinguer e dell’incauto commento del segretario: «Se avessi saputo fischiare, avrei fischiato anche io»). Disse il segretario della Uil: «Non ci piace il tentativo di far crescere sulle macerie della spaccatura una sorta di bipolarismo sindacale: i comunisti di là, di qua tutti gli altri in attesa di chissà quale altra egemonia. Non abbiamo avuto mai la vocazione al sindacato di partito figurarsi se abbiamo voglia di riunirci sotto le anacronistiche bandiere del sindacato anti-comunista. Queste discriminanti appartengono a un passato politicamente remoto. E, comunque, non c’è dubbio che l’alternativa all’unità è il pluralismo».

Seduto al tavolo della presidenza, Martelli prendeva appunti mentre il suo progetto scompariva all’orizzonte. Poteva interessare a qualcuno quel sindacato? Forse qualche attenzione l’aveva suscitata in Franco Marini o in Mario Colombo, ma la realtà è che l’allora vice-segretario del Psi non faceva i conti con un mondo in movimento che se da un lato avrebbe creato difficoltà al sindacato (le stava già creando), dall’altro avrebbe di fatto “frullato” in una sorta di tempesta i partiti e gli equilibri politici della Prima Repubblica. «Claudio Martelli scambia la crisi del sindacato con la fine del sindacato», diceva Giorgio Benvenuto.

Ma in questa babele, si confondevano anche le ragioni della diversità. Perché se è vero che la Cisl e la Uil avevano dato il via libera al decreto di San Valentino, è anche vero che nelle strategie le due organizzazioni seguivano percorsi diversi perché se la Uil parlava la lingua della riforma del salario e della scala mobile, dall’altra la Cisl puntava sulla riduzione di orario e sulla conseguente riduzione di salario. Martelli propendeva per la seconda ipotesi e Benvenuto commentava: «Questa linea è un atto di subordinazione del Psi al solidarismo cattolico». A questo punto, però, occorre ricordare un’altra data drammatica, che segnerà l’ultimo biennio della segreteria di Carniti: 27 marzo 1985. Quel che avvenne quel giorno lo ha ricostruito il figlio della vittima, Luca: «È mercoledì, una giornata di sole caldo. È trascorso un anno dalla scoperta dell’archivio delle Br in cui c’era il nome di mio padre. Poco dopo la lezione, verso le undici, lascia l’istituto di Economia e Commercio di via Castro Laurenziano. Scende in ascensore fino al parcheggio interno della facoltà e sale a bordo della nostra macchina: la stessa Citroen Cx rossa targata Milano con cui andavamo e venivamo da Sabaudia. Gli si avvicina un giovane sui trent’anni, armato di mitra, che lo chiama: “Professor Tarantelli!“ Mio padre si gira e vede l’arma appoggiata al finestrino di sinistra, quello accanto al posto di guida. L’uomo svuota il caricatore contro di lui. Si accascia sul sedile di destra, con diciassette pallottole nel torace. Aveva quarantatré anni… Prima di fuggire via, lascia tra il parabrezza e il tergicristallo della macchina un plico di settanta pagine. È la “risoluzione strategica n. 20″… I due uomini corrono verso il retro, per saltare la rete della facoltà. Dietro Economia e Commercio c’è una zona abbandonata, di sterpaglie e capannoni, da cui facilmente i brigatisti raggiungono viale delle Province, o forse direttamente la Tiburtina». Dirà Craxi, quattro mesi dopo, al congresso di addio di Carniti: «Non è mai esistito quell’asse Craxi-Carniti-Confindustria di cui farneticavano i visionari criminali estensori della risoluzione brigatista, bagnata nel sangue di uomini prodi e innocenti». Ezio Tarantelli era uno di quegli uomini prodi, decisivo nella soluzione adottata per ottenere il raffreddamento dell’inflazione cioè la predeterminazione degli scatti. Ma da un punto di vista ideologico il suo testamento è un articolo che apparve su “la Repubblica” il 5 giugno dell’84. Il titolo era: «Lavorare di meno per occupare di più». Scriveva: «Occorre rendere più flessibile l’uso della forza e l’organizzazione del lavoro in fabbrica e in azienda. Ma occorre farlo lavorando meno per lavorare tutti, senza aumentare i costi per le imprese. Vediamo come ciò sia possibile prendendo a riferimento lo scenario stilizzato che ho appena accennato. Se la produttività cresce al tre per cento, il salario per ora lavorata può anch’esso crescere nella stessa misura. Ma questo non deve significare un pari aumento del salario mensile per occupato se, contemporaneamente, diminuisce il numero delle ore che il lavoratore sceglie di non dedicare al lavoro ogni giorno, mese o anno. Al contrario, la differenza fra il tasso di aumento della produttività del lavoro e l’aumento del salario mensile deve essere esattamente pari all’aumento del tempo libero per occupato».

In un saggio recentissimo e inedito, Pierre Carniti ha scritto: «I fattori di insicurezza che derivano e si riflettono sulla situazione del lavoro sono molteplici. Non ultimo pesa il fatto che la popolazione attiva mondiale è rapidamente aumentata. È infatti passata da 1 miliardo e 200 milioni del 1950, ai circa 3,5 miliardi del 2010. Il risultato è che nel mondo è cresciuta enormemente l’offerta di lavoro, senza che di altrettanto si sviluppasse la domanda… Stando così le cose una domanda diventa spontanea: si può fare qualcosa per cambiare il corso degli avvenimenti? Per cercare di rispondere occorre tenere presente che la questione del lavoro si compone di due aspetti, collegati ma nello stesso tempo sufficientemente distinti. Il primo riguarda la dimensione quantitativa, il secondo quella qualitativa. La risposta al primo aspetto dalle istituzioni pubbliche viene normalmente affidata a riti propiziatori nei quali sono invocati: la crescita, la ripresa, il rilancio dell’economia. Rituale al quale si dedicano (con maggiore o minore convinzione) tutte le istituzioni nazionali e internazionali. Ma a parte la concreta realizzabilità, occorre sapere che queste ipotesi, per non dire semplici auspici… non sono comunque in grado di risolvere né in termini quantitativi e ancor meno qualitativi il problema. Siamo dunque ad una stretta. In quanto ad una serissima difficoltà congiunturale (le conseguenze di una economia finanziaria di rapina) si aggiungono importanti cambiamenti strutturali. Troppo a lungo trascurati. Una delle ragioni che dovrebbe spingere anche a mettere mano agli orari. In funzione di una diversa ripartizione del lavoro. Il motivo per adottare una strategia di questo tipo dovrebbe risultare del tutto comprensibile. E comunque è piuttosto semplice. Poiché il lavoro disponibile non è assolutamente sufficiente ad assorbire l’offerta, occorre ridurre gli orari e redistribuire meglio il lavoro che c’è tra tutti coloro che vogliono lavorare. Peraltro, a beneficio dei più timorosi, occorre ricordare che non si tratta affatto di una scelta sconvolgente, destabilizzante, rivoluzionaria. In quanto è stata ampiamente seguita (sia pure con alti e bassi) per oltre un secolo e mezzo».

Una soluzione che continua a non convincere Giorgio Benvenuto che in un suo libro ha affermato: «Dubito che una ricetta del genere possa produrre risultati in presenza di una congiuntura sfavorevole, in una fase fortemente recessiva. La proposta di Tarantelli (e di Carniti, n.d.a.) si legava culturalmente alle scelte che erano state fatte negli anni Sessanta quando si era in un momento di espansione e il sindacato riusciva a contrattare riduzioni dell’orario di lavoro per favorire l’aumento dell’occupazione. In una economia in crescita e in un mondo che può ancora innalzare barriere doganali, la soluzione può dare dei risultati. Ma nelle crisi e in un sistema economico così aperto e globalizzato non ottieni granché».

* Da: “Il divorzio di San Valentino. Così la scala mobile divise l’Italia”, Fondazione Bruno Buozzi, dicembre 2013, I edizione, pp. 213-226

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