Cronache (dell’Avanti!) dall’8 settembre 1943

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-di ANTONIO MAGLIE-


L’8 settembre nel calendario degli italiani non è una data qualsiasi. Sul suo significato, sul senso profondo, da un lato immorale e dall’altro morale, si discute da settantatré anni. Ugo La Malfa, in una antica pubblicazione del Partito d’Azione scrisse: “Fra il 28 ottobre 1922 e l’8 settembre 1943 l’Italia come Stato nazionale ereditato dal Risorgimento, è stata distrutta”. E ancor più severamente: “Il grande esercito di Badoglio fu e morì in Italia l’8 settembre del 1943”. Quel giorno morì l’Italia. Eppure la sintesi più più efficace di quel che avvenne in quei giorni, anzi in quelle ore, l’ha fornita Norberto Bobbio affermando che morì la patria ma nacque l’amor di Patria. Nacque, ad esempio, nel pomeriggio del 9 settembre, intorno alle 18,30 quando in via Poma a Roma si riunirono Pietro Nenni, Giorgio Amendola, Alcide De Gasperi, Ugo La Malfa, Meuccio Ruini e Alessandro Casati per costituire il Comitato di Liberazione Nazionale. Nacque il mattino dopo a Porta San Paolo quando, in una Capitale abbandonata dai generali che avrebbero dovuto difenderla, un pugno di uomini, tra i quali Sandro Pertini, Bruno Buozzi, Mario Zagari, Giuseppe Gracceva, alcuni armati soltanto di una bandiera tricolore, provarono a fermare le truppe di occupazione tedesche. Nacque il 23 settembre quando Bruno Buozzi, Achille Grandi, Ezio Vanoni, Guido De Ruggiero, Giovani Roveda, Oreste Lizzadri e Gioacchino Quarello invitarono con un appello i lavoratori “a preparare la riscossa nazionale contro ogni reviviscenza fascista e contro l’occupazione tedesca insieme alleati ai danni della Patria”.


Si potrebbe dire che in quei giorni l’Italia riuscì a dare il peggio di sé e, contemporaneamente, anche il meglio. Da un lato il maresciallo Badoglio che dopo aver comunicato al mattino ai tedeschi ancora alleati che mai l’Italia si sarebbe piegata il pomeriggio alle 18 alla radio faceva annunciare l’armistizio comunicato a Hitler con un telegramma che si concludeva: “Non si può esigere da un popolo di continuare a combattere quando qualsiasi legittima speranza non dico di vittoria ma financo di difesa, si è esaurita. L’Italia, ad evitare la sua totale rovina, è pertanto obbligata a rivolgere al nemico una richiesta di armistizio”. Il tutto senza preoccuparsi di difendere in qualche modo i romani che venero abbandonati alla mercé dei nazisti, riscattati dallo moto d’orgoglio di chi avrebbe voluto combattere ma non venne messo nelle condizioni di farlo nel miglior modo possibile perché la richiesta di distribuire armi alla popolazione non venne soddisfatta. Nei documenti che proponiamo (le cronache dell’Avanti!) questo ultimo tradimento viene sottolineato (in particolare nell’articolo del 26 settembre 1943).


Giornate in cui l’Italia si “spezzò”. Faticosamente nel centro-nord veniva organizzata la Resistenza che poté contare anche sul contributo di una parte di quell’esercito abbandonato e sbandato, che decise di continuare a combattere ma questa volta contro la Germania (in alcuni prevaleva la lealtà nei confronti della corona; in altri, invece, era ancora vivo il ricordo della tragica ritirata dal fronte russo con i tedeschi che si rifiutavano di aiutare quelli che erano ancora i loro alleati, privi di mezzi di trasporto ed equipaggiati in maniera a dir poco inadeguata). Al Sud, invece, Vittorio Emanuele cercava di ricostruire il suo regno, nel discredito generale, abbandonato anche da personaggi di grande carisma intellettuale come Benedetto Croce.


Con la dichiarazione di guerra del 13 ottobre l’Italia riapparve sulla scena bellica, con altri alleati. Ha scritto in un bellissimo libro (Una guerra civile, Bollati Boringhieri 1991), Claudio Pavone: “Gli antifascisti distinguevano ovviamente il fascismo dall’Italia; ma i più pensosi tra loro avvertivano che un mero ribaltamento del fronte non era sufficiente a fugare le ombre che si erano addensate sull’identità nazionale. Nella sua accezione più elementare, la guerra alla Germania, dichiarata dal regio governo del Sud il 13 ottobre 1943, poteva apparire null’altro che la continuazione della guerra precedente, dalla parte giusta e per di più vincente; e non c’è dubbio che a un certo numero di combattenti nelle formazioni partigiane, e non soltanto in quelle “autonome”, essa apparve tale. Ma si è visto come nemmeno ai chiamati a combattere nell’esercito del Sud questa motivazione riuscisse ad apparire sufficiente… L’atteggiamento più radicale e nello stesso tempo più fecondo era quello che dava per scontata la finis Italiae”.


Non è un caso che nel suo diario Ada Gobetti abbia scritto: “La notizia (della dichiarazione di guerra alla Germania, n.d.r.) non m’ha fatto nessuna impressione. Per noi non c’è differenza. Forse avrà una certa importanza per quelli che aspettavano gli ordini da Badoglio (i quali però se ne sono tornati ormai tranquillamente a casa): non certo per i nostri montanari di qui, né per gli operai di Torino. La guerra siamo noi che la facciamo, la nostra guerra – e poco importa i crismi di un’autorità invilita a cui più nessuno crede”. Fu questo il lascito dell’8 settembre: una “morte” e una contemporanea resurrezione; nuovi protagonisti che subentravano ai vecchi, disperati e sciagurati, la finis Italiae non era la fine degli italiani che, in larga misura inconsapevolmente, riannodavano il filo rosso con quegli altri italiani del Risorgimento che in quel ventennio indicato da La Malfa erano stati umiliati nel ricordo. Non cambiavano le alleanze; cambiavano gli attori. Come scrisse Vittorio Foa: “La responsabilità di creare il fatto nuovo che salvi l’Italia grava tutta su quelle forze antifasciste le quali, nell’assenza di ogni autorità, devono costituirsi esse stesse in autorità con iniziativa autonoma. Solo a questa condizione l’Italia, oggi passivo campo di battaglia, cesserà di essere una semplice espressione geografica”.

“La guerra fascista è finita”*

Oggi 8 settembre è stato finalmente diramata al popolo italiano la notizia che dal 25 luglio attendeva: per l’Italia la guerra di Mussolini, la guerra di Hitler è finita. E’ stato concluso l’armistizio con le forse anglo-americane.
Questo è quanto doveva avvenire.
Perché noi avremmo dovuto continuare a combattere una guerra non nostra, perché avremmo dovuto continuare ad assistere alla distruzione delle nostre città, alle stragi delle nostre famiglie per fini che non sono i nostri, che sono anzi opposti ed avversi ai nostri?
Il governo Badoglio ha raccolto il grido che si leva unanime dal popolo itali8ano: basta con questa guerra. Il governo Badoglio, compiendo quanto era auspicato dal popolo tutto, ha fatto quanto a lui stava fare.

Ed ora?
Ora non è finita la nostra lotta, non è finita la nostra vigilanza. Altri pericoli minacciano il nostro paese e il nostro popolo. E di fronte ad essi noi dobbiamo essere pronti.
Accetterà il falso alleato di ieri il verdetto del popolo italiano, il verdetto della storia? O non tenderà piuttosto in un ultimo impeto di feroce barbarie di scatenare la sua potenza offensiva sul popolo italiano, magari soltanto per un’azione di rappresaglia degna dei suoi costumi?

Non dobbiamo scrutare l’avvenire per improvvisarci profeti; ma dobbiamo prepararci, e prepararci al peggio, per essere in migliori condizioni di lotta di fronte a qualunque evenienza.
Se Hitler tentasse, in qualunque modo, di far violenza alla libera volontà del popolo italiano troverebbe nel popolo tutto, troverebbe in ciascuno di noi la resistenza più ferma e decisa.

Quando l’esercito italiano retrocedeva di fronte all’attacco anglo-americano, e i nostri bollettini, prima e dopo il 25 luglio, parlavano di “preponderanza delle forze nemiche” noi, proprio noi, ci permettevamo di dubitare di tale asserto e consapevoli del valore reale del nostro popolo, non potevamo fare a meno di pensare che se il nostro esercito si ritirava così, non era soltanto per insufficienza di mezzi: il nostro esercito e il nostro popolo, per le case proprie e per le proprie famiglie avrebbero diversamente combattuto. Ciò era perché esercito e popolo sentivano che questa guerra non era la loro guerra e non potevano farsi massacrare per fini altri ed opposti al loro.

Ora è un’altra cosa. Ora tutti siamo disposti a batterci fino all’estremo delle nostre capacità, fino all’estremo della nostra resistenza, fino all’estremo della nostra vita, contro il nostro vero e solo nemico: contro Hitler, contro il fascismo tedesco.

Abbiamo visto stasera il popolo esultante nelle piazze gridare questa sua volontà.
Contro i tedeschi, se tentassero di venirci a soffocare, saremmo tutti disposti a combattere; né di fronte a tale guerra inevitabile, necessaria per i fini della nostra politica indipendente, lamenteremmo più, come tutti hanno fatto fino a ieri, uno stato di guerra che tutti forzatamente costringe a tante strettezze.
Saremmo tutti disposti a combattere per il nostro paese, per il nostro popolo, per noi stessi e il nostro avvenire. E non ci spaventerebbero pericoli, avversità, né preponderanza di forze. E non esiteremmo a combattere secondo le direttive stesse del governo: avremmo tempo poi per regolare tra noi le nostre faccende interne; ma di fronte a questo pericolo straniero – e questo si che minaccerebbe davvero la nostra patria e la nostra libertà – saremmo tutti uniti in una soloa volontà di resistenza e di lotta.

La guerra fascista è finita. L’Italia si avvia a libertà.

Oggi l’imperativo è difenderci: dal fascismo nostrano, dal fascismo tedesco, dal fascismo e dall’oppressione comunque minaccino il popolo lavoratore del nostro paese.
Domani, nelle forme che la situazione determinerà, continuerà la nostra lotta per la libertà, per il socialismo.

“Nel nome dei morti i vivi promettono”*

La guerra fascista è finita. Le conseguenze graveranno a lungo sul popolo italiano e gronderanno lungo e profondo odio verso chi ha voluto e commesso questo delitto contro tutto il paese.

La guerra non era volta ad alcun vantaggio per la nazione nostra, era destituita di ogni ragione, di ogni carattere nazionale. Ed è costata rovine e distruzioni innumerevoli per tutto il territorio, è costata migliaia e migliaia di invalidi e di morti.

Perché tanti giovani italiani hanno dovuto dare il loro sangue, la loro vita?
Il consuntivo di questa guerra, ora che è conclusa, è tragico e più tragico è il fatto che nulla in nessun senso, neppure per ogni caduta alternativa, potesse bilanciare tante perdite.

Mai la folle presunzione di un uomo criminale e infame tanto potè pesare su tutto un popolo.
Non guardiamo al carico che lasceranno su noi nel futuro il fascismo e la sua guerra. Alta raccogliamo questa eredità: eredità di odio e di amore. Torneranno i reduci di questa guerra, provati nelle carni e nello spirito dal lungo sacrificio cui furono costretti, che non aveva ragione. Non torneranno i caduti.

Trovino in noi, quelli che torneranno, l’eco del loro odio, l’amore fraterno che li accolga con comprensione piena e affettuosa; trovino, con noi, nella riedificazione che non potrà essere se non socialista, il loro posto nella vita e nel lavoro.

“Appello ai soldati tedeschi in Italia”*

Traduciamo dal tedesco il testo di un volantino diretto ai soldati tedeschi in Italia.

Il popolo italiano ha posto termine alla guerra, ed è libero di dedicarsi alle opere di ricostruzione della pace.
Questa guerra che ai nostri popoli è stata imposta da governanti estranei alla nostra volontà e violentemente oppressori di noi tutti, è giunta al suo epilogo.
Perdura ormai per forza di eserciti, per forza di cose e di ragioni che erano nella sua stessa natura, questa guerra è finita per l’Italia, deve finire ben presto per la Germania.

Innanzi a noi sono le vie della pace e della libertà. Tuttavia non è escluso che i vostri governanti, gli oppressori del vostro popolo, vogliano tentare di opporsi con la forza al nostro paese, di occupare il nostro territorio, in parte, al solo scopo di fare durare un poco più a lungo, con le loro folli speranze, le rovine e le distruzioni della nostra vita civile.

Soldati, se i vostri comandanti volessero imporvi questo, non vi prestate al loro gioco. Noi resisteremmo: perché dovreste mettere a repentaglio la vostra vita, perché dovreste portare la rovina e la morte sul nostro popolo – solo per gli interessi del ceto ristretto e privilegiato che opprime voi pure?

Affratellatevi a noi, e noi vi saremo fratelli.
Noi che sappiamo come un popolo possa essere costretto alla guerra, senza volerla, senza aver nulla contro gli uomini e i popoli che un’artefatta propaganda disegna come nemici, noi vi comprenderemmo, vi accoglieremmo con la gioia e senza alcun rancore, perché sappiamo che non voi, lavoratori del popolo tedesco, ma soltanto i vostri governanti, a voi estranei ci sono nemici.
Non combattete contro il popolo italiano che, come voi, vuole la pace e la libertà. Non combattete più e la guerra sarà finita per tutti. E grazie al vostro atto sarà possibile la pacifica ricostruzione di un’Europa concorde formata da popoli fratelli, nella quale neppur voi sarete considerati nemici da alcuno.

Rendetevi indipendenti dal fascismo, dall’oppressione nazista, da Hitler.
Le vie della pace e della ricostruzione sono aperte per i popoli di buona volontà: e per esse siamo tutti uniti, tutti fratelli.

La parola d’ordine del partito*

Lavoratori

L’armistizio con le Nazioni Unite è stato firmato.
E’ questo il primo passo, così ansiosamente atteso dal Popolo italiano verso la Pace.
Ma perché questa sia veramente tale, perché si possa intraprendere il duro e faticoso cammino verso la ricostruzione del Paese, verso la vostra liberazione dalla schiavitù capitalistica, vi sono vari problemi urgenti che devono essere subito risolti:
Bisogna che i tedeschi, espressione del nazismo, se ne vadano subito dall’Italia.
Il loro ritiro oltre il Brennero costituirà un passo decisivo verso la fine del nazismo e della guerra in Europa; inciterà gli altri popoli ancora tenuti sotto il feroce tallone nazista a ribellarsi.
I vostri compagni francesi, belgi, olandesi, danesi, romeni, bulgari, jugoslavi, ungheresi, finlandesi, norvegesi, svedesi seguiranno il vostro esempio e vi saranno riconoscenti e solidali.
Difendete la Pace contro chiunque e con ogni mezzo!

Via i nazisti dall’Italia!

Resta ancora in Italia la monarchia che non è la sola ma la maggiore responsabile del fascismo e della guerra.
Finchè in Italia resterà la monarchia non potrete mai aspirare alla vostra liberazione.
Via il Re fascista!
Finchè perdura la dittatura militare non vi è libertà.
Esigete un governo popolare che vi ridia la libertà e che avvii alla vostra suprema aspirazione: la Repubblica Socialista!

IL PARTITO SOCIALISTA DI UNITA’ PROLETARIA

* Tutti i testi sono tratti dall’Avanti! Dell’8 settembre 1943. I titoli sono quelli originali

Responsabilità*

Eccoci dunque sotto i tedeschi. Ecco i nostri muri tappezzati dai loro insolenti manifesti che minacciano morte, le nostre strade percorse spavaldamente dalla loro soldataglia, le nostre case invase, perquisite e derubate, i nostro soldati disarmati e denudati, i nostri fratelli uccisi a sangue freddo. Ed ecco infine, grottesco contorno a tanta tragedia, rispuntano le camicie nere e i fasci littori: i pretesi difensori dell’onore nazionale, ignobilmente scomparsi di fronte all’ira popolare, mostrano il loro coraggio all’ombra delle baionette naziste.
Un senso di tragico stupore aleggia sulle nostre città. Il popolo italiano si chiede esterrefatto come tale disastro abbia potuto verificarsi. Di chi la colpa, di chi la responsabilità? Chi è stato la causa prima dell’immane sfascio, che ha consegnato l’Italia alla rabbia di Hitler? Chi ha impedito la resistenza, disarmate le nostre divisioni, vietato al popolo di battersi?

La risposta è facile. Siamo stati traditi. Siamo stati traditi da chi aveva interesse a farlo, da chi solo nel tradimento vedeva la possibilità di salvataggio della propria posizione. Gli interessi di casta si sono anteposti a quelli del popolo italiano. Il tradimento ne è la logica conseguenza.

Il re, Badoglio e tutta la loro cricca ci ha traditi. È bene che il popolo italiano apra gli occhi, che fissi una volta per sempre le responsabilità. È bene che si parli chiaro su questa famosa monarchia, che si sappia di quanti mali è stata cagione per l’Italia. Per troppo tempo è stata lasciata nella penombra, per troppo tempo si sono taciute le sue colpe. Ora la misura ha passato il segno. Gli avvenimenti di questi giorni la inquadrano perfettamente, tolgono gli ultimi dubbi sul presente e sul passato. Soprattutto, ci mettono esattamente in guardia per l’avvenire. Oggi questa monarchia si atteggia a salvatrice dell’Italia. Sbandiera il proprio antifascismo, si vanta di aver posto fine all’odiato regime. Ma guardiamo un poco i fatti, facciamo un po’ di storia.

Chi consegnò l’Italia al fascismo nell’ottobre del 22? Il re. Il re come capo naturale di tutte le classi reazionarie italiane, che sentivamo minacciati i loro privilegi politici ed economici dalla precisa volontà del popolo italiano, deciso a rivendicare i suoi interessi proletari contro tutte le vecchie caste parassitarie. Monarchia e plutocrazia, il re e i grossi industriali, i grandi latifondisti, i ricchi banchieri, videro nel fascismo il loro naturale alleato, il regime che meglio di ogni altro garantiva la conservazione del trono e la tutela degli interessi capitalistici che a esso fanno capo. Anche allora c’erano i cavalli di frisia per sbarrare l’ingresso alla capitale, anche allora c’erano le divisioni pronte a far naufragare nel ridicolo la famosa “marcia”. Ma Vittorio Emanuele preferì allearsi con Mussolini, e si rimangiò lo stato d’assedio.
E da allora, il suo consenso alla politica fascista fu chiaro, pieno, incondizionato. Firmò le leggi repressive, acconsentì al colpo di stato, permise che l’Italia fosse imbavagliata, imprigionata e depredate. Arrivò ad ammettere che il gran consiglio si ingerisse nella successione al trono, cedette la suprema direzione delle forze armate, condivise il maresciallato dell’Impero,. Lasciò che il paese fosse trascinato in una politica di aggressioni, accettò i nuovi troni. Parlò alla “Patria Fascista”, inviò il figlio al “Covo”, si recò lui stesso in processione a Predappio.

Infine, dichiarò guerra alle democrazie e alla Russia sovietica: questa guerra che è l’origine di tutti i nostri mali, che ha distrutto le nostre città, fatto morire i nostri fratelli, aperto ai nazisti le porte d’Italia. Sapeva della profonda avversione del popolo italiano, ma non ne tenne alcun contro, nella speranza degli utili suoi personali e della classe che egli rappresentava.

Tutto questo non va dimenticato. Anche se, quando le cose volsero al peggio, quando lo spettro della sconfitta s’avanzò a grandi passi, si incominciò a sentire in giro che la monarchia era contraria al fascismo, che in casa reale si cospirava contro il dittatore. Il giuoco era chiaro. Si voleva evitare che monarchia e fascismo cadessero insieme, benché piena e palese, per italiani e stranieri, fosse la loro corresponsabilità politica e morale.

Ma Vittorio Emanuele voleva salvarsi. Ed ecco che si mise d’accordo con i suoi generali, coi suoi nobili, coi suoi banchieri, con suoi industriali, cogli stessi fascisti, con tutti coloro che si sentivano compromessi. Bisognava rifarsi la faccia, apparire vittime, procurarsi un titolo di merito, staccarsi dal complice ventennale.
Così il 25 luglio Vittorio fece arrestare l’affezionatissimo cugino Benito.

Ma il popolo italiano non abboccò. Non credette in questi troppo interessati “liberatori”, non si fidò della nuova dittatura protetta dal coprifuoco e dallo stato d’assedio. Vide chiaramente la manovra, e lasciò intendete che si riservava di liquidare i conti. Né abboccarono gli anglo-americani, che non mutarono le condizioni di resa imposte al fascismo.

S’imponeva quindi il problema della pace, e con esso quello della resistenza di fronte all’immancabile aggressione nazista. Ma poteva il nuovo regime veramente preparare e organizzare questa resistenza? Esso, che era nato e che viveva sul compromesso, che aveva dato le stellette alla milizia, vestito in grigioverde gli squadristi, affidato a De Vecchi il comando di una divisione? Quale energia poteva esprimere la vecchia classe dirigente, che aveva fatto carriera sotto il fascismo e in mezzo a cui la quinta colonna avrebbe mietuto collaboratori?

Solo il popolo lavoratore poteva condurre la lotta contro il nazismo, rinfrancare l’esercito, dar nuovo vigore ai nostri soldati. Bisognava quindi dar le armi al popolo. Ma il re non volle armarlo.
Questo è il punto. Partecipando alla lotta, il popolo ne sarebbe divenuto protagonista, il solo, il vero, ineliminabile attore. Avrebbe chiesto di essere guidato dai suoi capi, e non da chi fino al giorno prima aveva fatto causa comune con il fascismo. I titoli di merito di re Vittorio e dei suoi generali sarebbero svaniti in fumo. La volontà antimonarchica del paese si sarebbe ineluttabilmente affermata. La monarchia avrebbe chiuso la sua infausta giornata.

Per questo non fu organizzata la resistenza. Forze per difendersi ce n’erano, ma furono lasciate senza comando, senza istruzioni, senza disciplina, facile preda del disfattismo della quinta colonna. Il popolo chiedeva le armi, ma alla polizia fu dato ordine di arrestare chi le otteneva. Dopo aver garantito che si era in grado di resistere, il re e Badoglio non avrebbero potuto presentarsi agli anglo-americani come l’unico perno intorno a cui organizzare la partecipazione italiana alla lotta antifascista. Premeva loro di poter apparire gli esponenti e i protagonisti della volontà nazionale.

Ma la manovra è sfacciata. Essa si affida al buon cuore e a una presunta ingenuità politica del nostro popolo, per riuscire. Re Vittorio vorrebbe rientrare al seguito degli eserciti alleati per apparire come liberatore. Vorrebbe così far dimenticare le sue colpe, per imporre di nuovo il proprio dominio. Sa di non poter contare sul nostro consenso, e cerca di estorcerlo.
Il popolo italiano non si lascerà ingannare. I lavoratori italiani sanno ciò che debbono alla monarchia. Sanno che essa è l’ultimo baluardo dietro il quale la plutocrazia italiana cerca di barricarsi, la maschera istituzionale dietro cui le vecchie classi parassitarie nascondono il loro dominio. Sanno che l’Italia deve essere liberata dai lavoratori traditi, e non dal re, nostro traditore; che l’Italia deve essere ricostruita da noi che la impersoniamo, e non da Vittorio Emanuele, che ha tentato di distruggerla.

In questa consapevolezza è la morte della monarchia. Giacché il popolo italiano rifiuta di credere che la resurrezione di essa possa venirgli imposta dai firmatari della Carta Atlantica.

* Avanti! clandestino del 26 settembre 1943

antoniomaglie

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