Italiani, popolo di poeti e di esperti di Pil

popolo

-di SANDRO ROAZZI-

Da otto anni il surplus tedesco gigante infrange le regole europee. Bruxelles censura… a parole ma il richiamo assomiglia terribilmente ad un pacca sulle spalle. Nei primi sei mesi del 2016 l’avanzo commerciale made in Germany è stato di 130 miliardi di euro (verrebbe da dire… tedeschi) contro i 123 del 2015. Cosa vuol dire questo? Semplice il bottino tedesco cresce a scapito dei suoi partner europei, vendendo più di quello che acquista dalle imprese degli altri Paesi finendo per ridurne le potenzialità di crescita. Moderazione? La Merkel… non ci sente da quest’orecchio ed appare complicato imporle una visita dall’… otorino. Specie in queste settimane nelle quali la cancelliera sfida l’impopolarità con le aperture sull’immigrazione mentre in giro c’è per giunta una disperata necessita’ di flessibilità sui bilanci pubblici. Logico allora che ognuno si cucia la bocca, consapevole del fatto che senza l’ok tedesco non si va da nessuna parte. 

Ma proprio per questo sale il tasso di ipocrisia nel tenere in vita regole che ormai sono ridotte ad un colabrodo insipido cui manca per giunta la giustificazione primaria: quella politica del rigore che nei fatti è stata ripudiata e non certo in nome della sregolatezza ma di un inevitabile realismo quando alle porte c’è la prospettiva di una nuova stagnazione. Ecco perché però la conoscenza degli eventi economici è in stagioni difficili come questa di grande importanza.

L’Istat ha misurato quella degli italiani: sul Pil ci siamo, il suo valore è identificato con sufficiente approssimazione dal 71,8 dei nostri concittadini (era il 63,7 un anno fa). Il sospetto e’ che ormai il Pil più che un indicatore economico sia considerato un incubo di famiglia. Bassa invece la quota di coloro che si avvicinano al valore dell’inflazione (35,1% rispetto al precedente 33,9), forse perché quando si evocano i prezzi gli italiani hanno in testa solo gli sconti e le promozioni. Il resto dell’attenzione ora va al… risparmio. Ed in calo anche il numero di persone che sanno con precisione a quanto ammonta il tasso di disoccupazione (52,6% contro il 61,9 del 2015) In questo caso non c’è bisogno di statistiche, la realtà che li circonda rende superflui i numeri.

Secondo l’Istat la fonte di informazione per eccellenza, sia pure in lieve ribasso, è la tv con un 78,4%, poi la radio. I giornali sono assai distanziati al 44,2% che scende nelle grandi città
al 44,1, superati peraltro da internet che viaggia a quota 45,9. Sarebbe invece il caso di stendere un pietoso velo sulle capacità di saper informare dei nostri leader che precipita ad un poco onorevole 4,8%. Restano loro i talk show ed i salotti? Ma così non sono un palcoscenico, piuttosto… una riserva indiana. 

Conclusione: stiamo recuperando terreno nella conoscenza dell’inglese e internet specie tra i giovani ha “sfondato”. Ma l’economia no e fino a che, magari in forma di gioco, non verra’ insegnata a scuola anche ai più piccoli allievi, verrà identificata non tanto come una opportunità ma come un mistero ostico che non di rado fa del quotidiano il regno di una angosciante incertezza. Anche se gli italiani, come è noto, finiscono per fare da soli. E vanno avanti.

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