Ornella Buozzi: “Il mio racconto di guerra”

 

Prima pagina Il Nuovo Avanti! 08.08.1936

 

La guerra civile spagnola colse Ornella Buozzi, figlia primogenita del segretario della CgdL in esilio, Bruno Buozzi, in vacanza a Barcellona. Questo suo accorato ed emozionante racconto apparve poco dopo il suo rientro a Parigi sulle colonne del “Nuovo Avanti”

-di ORNELLA BUOZZI*-

Eravamo un gruppo di giovani pronti a conquistare la Spagna turistica armati di zaini e di arnesi da campeggio. E la Spagna ci accolse col sorriso cordiale dei suoi doganieri, coll’aspetto rustico del piccolo porto di frontiera di Port-Bon, nell’aspra bellezza di una città come Gerona, ricca di chiese, di vecchie mura e di frutti dal sapore di sole.

Barcellona ci offriva la sera del 18 luglio l’aspetto di una città animatissima e rumorosa, coi suoi viali (rambla) affollati di uomini in maniche di camicia e di donne senza cappello. Gli autocarri che portavano verso il centro gli sportivi giunti alla “Stazione di Francia” per le Olimpiadi operaie suscitavano al loro passaggio curiosità, simpatia, acclamazioni. Mi venne fatto di domandarmi se tanta animazione risponda alla temperatura normale della Marsiglia catalana o no. Un’impercettibile nota febbrile non sfuggiva neppure al turista straniero. A mezzanotte in un vicolo del quartiere famoso del Barrio Cino, non so chi, uno sconosciuto disse a uno del nostro gruppo che nella notte sarebbe scoppiata la rivoluzione.

SVEGLIA A COLPI DI FUCILE

L’indomani mattina, il 19 luglio, in una pensione della Rambla del centro situata tra la piazza della Catalogna e la piazza della Paz, fui svegliata dai primi colpi di fucile e dal rumore delle mitragliatrici. In tutta la Spagna il popolo si drizzava a fianco delle forze del governo insufficienti a reprimere un tentativo fascista e monarchico. Nell’ignoranza della realtà che si svolgeva altrove, lo spettacolo appassionante della lotta civile a Barcellona cominciava per me. E doveva durare 3 giorni.

Non ho assistito né al combattimento che infierì per ore ed ore nella piazza della Catalogna, dove alcune carcasse di cavalli uccisi rievocavano nei giorni seguenti la rivolta di un gruppo di guardie mobili  voluta da due o tre ufficiali, né alle fucilate dei quartieri  eccentrici, né alla lotta che si svolse presso la chiesa della Sacra Famiglia dove l’incendio solo valse a snidare i fascisti che sparavano dalle grate e dal campanile.

 Ma sulla Rambla ho visto passare la folla della sera prima, appena diradata, con fucili a tracolla e pistole in mano, e nelle vie adiacenti ho visto ergersi le prime barricate, circolare le prime macchine sequestrate nella autorimesse e marcate con le seguenti iniziali: Cnt (confederazione Nazionale del Lavoro Anarchica), Fai (Federazione Anarchica Iberica), Ugt (Unione Generale dei lavoratori Socialista), Poum (Partito operaio di Unità Marxista, Trotzkista), Pc con falce e martello (Partito comunista).

 Dagli sportelli sporgono le punte dei fucili, ai crocicchi si fanno le ultime distribuzioni di armi su tante mani che si tendono, certune non sapranno servirsi perfettamente dell’arma – fucili Mauser e fucili da caccia, rivoltelle mitragliatrici e rivoltelle ordinarie – ma in tutti è uno slancio comune di auto-difesa popolare ed un coraggio ingenuamente sprezzante del rischio che non cesseranno un solo istante di imporsi alla nostra ammirazione. Poiché è il popolo che si batte, cioè operaio, impiegato o studente, quello stesso che ti ha sorriso mentre passavi e che – caratteristica caratteristica di questa gente – continua a sorriderti nei momenti più gravi.

CREPITA LA MITRAGLIATRICE

Ad esempio siamo usciti nel pomeriggio col pretesto di andare fino alla Posta, la verità per essere fuori con loro, nella strada. Loro sono i nostri, i rivoluzionari; gli altri fautori ed attori del tentativo fascista, possono dirsi tutt’al più ribelli. Due aeroplani al servizio di questi seminano il panico tirando dall’alto. Qualche raro passante timoroso circola  agitando il fazzoletto, qualche drappo bianco già appare su alcuni balconi. Ma attraverso il dedalo delle viuzze del quartiere che attraversiamo, i popolani sono sull’uscio e commentano pronti a scansarsi al primo fischio di pallottole come a riprendere immediatamente il loro posto. Camminiamo ondeggiando da un marciapiede all’altro. Dove la via si allarga, presso al palazzo della posta uno squarcio di mare con qualche barca si delinea a destra. Un colpo secco, uno spruzzo sul selciato: è dal Porto che tirano, dai depositi marittimi. Col pugno alzato salutiamo un’auto che si ferma, la circondiamo per chiedere notizie. Appartiene alle Fai. Quattro uomini armati di fucile. Uno di essi, bruno, magro ci risponde in francese, apprendo che è un italiano, un milanese venuto a Barcellona da quattro mesi soltanto. “La fede è grande, l’entusiasmo popolare ammirevole, ma l’organizzazione e le armi insufficienti”. Altri ancora confermeranno e ciò spiega come il paese possa trovarsi in pericolo sebbene la maggioranza del popolo parteggi per le sinistre. Tutta la debolezza della Repubblica risiede in un errore: nel non aver epurato radicalmente i quadri dell’amministrazione statale e dell’esercito. Troppo numerosi sono ancora nei quadri di comando militari i membri di una casta reazionaria e feudale.

Chiediamo ai nostri amici di poterli fotografare al che si prestano allegramente, un certo gusto ingenuo e fanciullesco del gesto teatrale, decorativo non spiace a questo popolo che pur sa a meraviglia il coraggio generoso. Un adolescente di sedici anni al massimo dagli occhi chiari sorride in silenzio (uno dei pochi che a Barcellona ignorino assolutamente il francese: lo guardo non senza inquietudine passarsi la rivoltella fra le labbra quasi fosse uno stuzzicadenti). Prima di partire ci raccomandano di stare in guardia: poco distante ci sono dei palazzi di lusso dai quali i fascisti possono sparare. Cinque minuti dopo gli impiegati della posta ci fanno entrare per forza: appollaiati su sacchi di plichi e di lettere che chissà quando arriveranno a destinazione, ascoltiamo crepitare le mitragliatrici.

La sera ci ritroviamo sani e salvi all’albergo.

UN PASSAPORTO PERICOLOSO

Lunedì 20 luglio seconda giornata di difesa rivoluzionaria.

Un giovane compagno che ha accompagnato fino al nostro albergo due amici nostri a lui sconosciuti fino a un’ora fa, ci propone con una fiamma di fierezza  uno spettacolo che varrà la pena: sulla piazza del Paz dov’è il monumento a Cristoforo Colombo i nostri danno l’assalto ad una polveriera occupata da truppe ribelli. Nella rambla mentre è proclamata una tregua di un quarto d’ora non siamo pel momento i soli non combattenti. Ma non è finita. Ecco sui viali laterali, a destra e a sinistra, le barricate di sacchi e di mattoni con la bandiera rossa e nera degli anarchici. Un cannone di piccolo calibro e una mitragliatrice sono piazzati davanti alla sede del sindacato degli operai metallurgici e dei trasporti. Scorgo di fronte sulla destra un caseggiatone bianco dove sono gli insorti, una chiesa serve loro da sentinella avanzata: fra non molto ne vedrò il parroco in civile, disteso in pieno corso, sotto un materasso, ucciso.

Un crocchio laggiù e un’ultima distribuzione di armi: la nostra guida è mortificata di non avere il suo fucile. Una nube di polvere, una serie di colpi, movimento di folla, invasione degli anditi…

 Dopo aver alzato bandiera bianca l’avversario ha vilmente ripreso l’attacco. Mi trovo vicino ad un albero, tra un armato di fucile ed un uomo elegantemente vestito. Nessuno grida. Un gruppo di nostri avanza a passo di corsa. Salgo su una panca per vedere meglio. Ho il passaporto in mano come i miei amici francesi. Qualcuno mi si avvicina e mi dice in italiano di nascondere il mio libretto azzurro: possono prendermi per fascista.

LA PRESA DI UNA POLVERIERA

Passa una donna di una certa età, capelli grigi, fucile in mano: sorride. Mi dicono che ha due figli che combattono a Madrid e dei quali è senza notizie. Già stamani avevo visto una giovane tedesca di fazione ad un crocicchio, e mi dicono che sia nella lotta, sia negli ospedali l’attività femminile è ammirevole. A un tratto non so come mi trovo appiattata su un autocarro vuoto che aveva servito a trasportare munizioni, mentre dalla polveriera  un fuoco di fila risponde ai colpi delle guardie mobili (uniforme azzurro cupo) e un aeroplano mitraglia dall’alto. Un ferito è raccolto dagli infermieri della croce rossa, in tunica bianca a larghe righe rosse e berretto a visiera nera, mentre i compagni avanzano scavalcando la barricata. Vedo i piedi del prete morto sporgere dal materasso che lo ricopre e mentre la chiesa comincia a bruciare le truppe della polveriera si arrendono. I responsabili che fanno ala stentano a proteggerle dall’ira popolare. E subito dopo assisto a un moto di panico: si sparge la voce che la polveriera stia per saltare, le guardie respingono la folla sulla via laterale mentre i primi panieri di viveri destinati all’approvvigionamento dei combattenti cominciano a circolare. I negozi del corso sono tutti chiusi.

Riconoscendo in noi un gruppo di turisti stranieri, due combattenti ci domandano se abbiamo fame, se vogliamo mangiare. Non ultima prova della natura ospitale di questo popolo.

ASSALTO AL MIO ALBERGO

Martedì 21 luglio. Oggi non ho bisogno di andar lontano in cerca di emozioni. Il caseggiato che abitiamo è il punto di mira di una fucilata vivace. Un fascista è senza dubbio nascosto sui tetti e ogni tanto con regolarità e sicurezza implacabili spara sui rossi che passano. Il caso non è unico. La città è in mano alle forze governative e popolari, ma sussiste ancora una resistenza sorda, isolata che necessita le spedizioni punitive e spiega il susseguirsi incessante e regolare di tanti richiami e segnali di tromba di automobile.

Il rumore che ormai conosco del grilletto che scatta si fa sentire una volta di più. Dal basso la risposta è immediata. Rifugiati nei corridoi vediamo le palle traversare le cornici delle finestre, rimbalzare nella camera di uno di noi. Pochi minuti dopo alcuni uomini salgono trafelati le scale. Mentre i suoi compagni reclamano le chiavi della camere e procedono alla perquisizione, il capo della spedizione pallido e stremato di emozione e di fame – non ha mangiato né dormito dal giorno prima – si lascia cadere su una sedia e si scusa con noi stranieri del dovere che deve compiere: tiene sul braccio una giacca macchiata di sangue, la giacca del compagno che il colpo traditore ha ucciso poc’anzi al suo fianco. Per la prima volta non so trattenere le lacrime.

 Poco dopo Barcellona mi appare pressoché calma. Solo di tanto in tanto un colpo risuona isolato  ed in vari punti della città colonne di fumo si elevano nel cielo catalano: son chiese e conventi che bruciano, sono autodafé improvvisati davanti alle case dei fascisti più noti. Come quello che attira la folla mentre passo all’angolo della piazza del Paz, davanti al locale della Compagnia Italiana di navigazione Cosulich-Lloy Triestina. Dei mobili precipitano dalla finestra con rumore sordo e nastri tricolori si perdono nella fiamma mentre si leva la bandiera catalana gialla e nera. No, il fascismo italiano non è certo benvisto quaggiù…

La folla sulla rambla è numerosa quasi quanto la sera del mio arrivo; sulle facciate dei palazzi risaltano le tracce dei colpi di ieri: raccogliamo nei rigagnoli delle schegge di proiettili; dei compagni mi raccontano ciò che hanno visto all’ospedale clinico e alla “morgue”: il proletariato spagnolo sa pagar cara la sua libertà.

CAMBIAMENTO DI SEDE

Una prova di più: cercavo la sede della Gioventù socialista, Paseo de la Paz. Apprendo che non è più là, ma che Ps, Pc, Ugt hanno il loro quartier generale comune in un edificio della via Layetana che fu sino a ieri dimora della federazione dei proprietari di case. Vasti saloni, lampade lussuose, poltrone, ticchettio di macchine da scrivere. Visi stanchi e forze nuove. Noto un gruppo di giovani che circondano un uomo anziano e brizzolato: sono i volontari che si arruolano per andare di rinforzo a Saragozza dove il fascismo non è ancora domato.Un capo fa l’appello nominale e li divide in pattuglie che partono in autocarri. I passanti li salutano plaudendo.

Un compagno al quale ci presentiamo ci offre pacchetti di sigarette, ci parla degli effettivi dei diversi partiti: la forza maggiore in Catalogna  è senza contestazione quella degli anarchici, ed è una forza effettiva non solo di numero, ma di coraggio e di combattività. In questi giorni si sono battuti eroicamente ed a fianco degli altri partiti: ma fin quando durerà l’accordo? Non vogliono saperne di intesa politica, né di alleanza come quella che pare stabilita anche per il futuro fra i due partiti socialista e comunista e le forze sindacali dell’Ugt (nella quale predomina Caballero) che conta in Spagna più di un milione di membri. Soddisfazione dei capi pel risultato di questi giorni di lotta: preoccupazione forse già ora per il domani: necessità vuole che persista la compattezza del Fronte Popolare.

Nell’uscire vedo passare fra le acclamazioni un’auto scoperta: una figura dritta e severa in camicia azzurra e dall’aspetto giovanile saluta: è Compania il presidente della Generalità della Catalogna.

PARTENZA COMMOVENTE

Mercoledì 22. Due navi in partenza sono nel porto: il “Chelia” e lo “Djienne” inviate per rimpatriare i francesi ed accogliere anche i turisti stranieri.

Non vorremmo partire e la nostra prossima tappa dovrebbe essere Valenza. Ma ci accertiamo che lo sciopero dei trasporti continua, che le comunicazioni sono interrotte in varie regioni  per parecchio tempo. Occupazioni che ci chiamano altrove. E mancanza di fondi.

 Due soli del nostro gruppo rimarranno: medici, possono rendersi utili malgrado la loro ignoranza della lingua spagnola.

Sotto la pioggia inusitata circoliamo sino all’ultimo momento per le vie ancora ingombre di detriti e dove alcuni negozi riaprono i battenti incontriamo dei gruppi di atleti venuti per le Olimpiadi che ripartono dopo essere stati quasi sequestrati tutti questi giorni all’albergo di piazza di Spagna che li ospitava.

Delle macchine con le scritte Cnt e Fronte Popolare trasportano partenti e bagagli. L’imbarco sarà lungo e lento malgrado il servizio d’ordine assicurato dalle autorità consolari e dai giovani universitari.

Un giorno di attesa nel porto dove si delinea, grigia, la corazzata inglese “London”.

Il giovedì, alle sei di sera, si prende il largo. Le braccia dei nostri fratelli spagnoli si agitano salutando dalla banchina. Sul ponte risuona l’Internazionale e ondeggia la bandiera rossa accanto al tricolore francese.

 

* Reportage di Ornella Buozzi apparso l’8 agosto del 1936 sul “Nuovo Avanti”. Titolo: “Quattro giorni a Barcellona”

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