Nenni, tra pagine di diario e appelli alla lotta

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Pietro Nenni ha dedicato alla guerra di Spagna un libro nel quale si può ritrovare una ricostruzione degli eventi in forma di diario. Adeguatamente ampliato, quel testo venne pubblicato nel 1976 dall’editore SugarCo. Titolo: Spagna. Per dare il senso del clima di quegli anni, proponiamo alcuni stralci del diario, un appello, una intervista e una umana e politica celebrazione di Fernando de Rosa, “eroe” socialista della guerra di Spagna.

-di PIETRO NENNI-

Il comandante de Rosa

8 agosto. Stamattina una grata sorpresa. Mi sveglia lo squillo del telefono. È Fernando de Rosa. Anzi, il comandante de Rosa. Dopo pochi minuti è nella stanza. Ci abbracciamo. Mi dice: <Ti aspettavo>. Mentre mi vesto passiamo in rivista gli avvenimenti dal ’34 ad oggi. Ha tante cose da dirmi. Ho tante cose da chiedergli.

<E al fronte?>.

<Al fronte facciamo miracoli. Ma dovremo prendere molte batoste prima di imparare a fare la guerra>.

De Rosa comanda il Battaglione Octubre reclutato fra la Gioventù socialista.

<Vedrai>, mi dice. <Sono bravi ragazzi. Capaci di farsi ammazzare senza ragione o magari di scappare senza ragione>.

<Sanno battersi>, dice, <non combattere>.

Scendiamo. Alla porta ci attende una magnifica Roll-Royce dove deve aver scorrazzato un grosso nababbo.

Andiamo alla sede della Gioventù socialista, ex palazzo Girardelli, un Grande di Spagna. Ci trovo Carillo, Lain, Melchiorre, Aurora, Cazorla, convalescente da una ferita. Anche de Rosa è già stato ferito. Scioglie i pantaloni, tira su la camicia.

<Vedi, la palla è entrata qui, uscita qui. Un lavoro d’artista>.

Infatti la palla deve aver contornato il fegato.

<E’ stato a San Raffaello. Ero in testa ai miei uomini. Il parroco mi ha sparato dalla finestra della canonica. Due giorni d’invalidità>.

Ride. Ridono. Hanno tutti un monte di cose da dire.

<La nostra gioventù>, mi dice Aurora, <ha fornito i primi elementi della milizia. Abbiamo sulla Sierra cinque battaglioni. Fernando è il nostro Napoleone. Capirai, ha studiato strategia sui libri che tu gli mandavi in carcere>.

Andiamo al Gran Peña, un club aristocratico anch’esso occupato dalla Gioventù socialista. Ordine perfetto. La sala del ristorante sembra uno specchio. La biblioteca è in perfetto ordine. Nei corridoi ci sono dei giovani contadini che mangiano sulla punta delle dita pane e sardine. Qui tutto è scintillante di stoviglie in porcellana e di posate d’argento.

<Nessuno tocca niente. Noi prendiamo possesso e non distruggiamo>.

Non sono tutti così…

Si va al Club reale del Campo. Meraviglia di buon gusto, d’ordine. Sala da gioco. Piscina. Campo di golf e di tennis. Provo come una leggera ebbrezza. Un senso pieno della vita. La rivoluzione mi comunica il suo fuoco sacro.

Morte di de Rosa*

16 settembre. Sono le ore venti. Ho passato la giornata da Caballero, del Vajo, Prieto, Carlo Hernandez. Devo partire alle undici per Parigi dove si riunisce l’Esecutivo della IOS. Mi chiamano al telefono. Una voce rotta dai singhiozzi mi dice: <Una grande sciagura. Fernando è morto>.

Fernando è morto!

L’ho lasciato all’alba dopo una lunga seduta alla sede della Gioventù unificata. Mi ha accompagnato all’albergo con Lain. Siamo rimasti d’intesa che se non sale al fronte ceneremo assieme.

Metto al corrente Vespignani, Spinelli, de Simoni. Vado al Palazzo Girardelli. Stamattina le sei hanno telefonato a Fernando che la posizione di Cabeza Lijar, presidiata da una sua compagnia, è stata occupata dai fascisti. È partito sull’istante. Giunto sul posto ha riunito il Battaglione e ha detto <Ragazzi, bisogna riprendere la posizione>. Alle due ha dato ordine di attaccare e come sempre è partito in testa. Dopo due ore di combattimento Cabeza Lijar è virtualmente presa. In piedi su una roccia, il frustino in mano, Fernando indica l’ultimo nido di resistenza. Una palla in fronte lo fulmina. Non ha tempo di dire una parola, di fare un gesto.

Ancora stamattina mi diceva: <Morire non è niente. Basta non soffrire>.

Non ha sofferto.

Ma è vero che morire non è niente?

Ecco arriva un camion col cadavere: lo tirano per i piedi, improvvisano un catafalco. Le linee del volto sono rimaste pure. Adesso che l’hanno lavato e pettinato di direbbe che dorma.

Io penso a quello che poteva essere il destino di questo ragazzo nella rivoluzione italiana.

 

* Fernando de Rosa è morto il 16 settembre 1936

<Hanno pugnalato Rosselli>*

12 giugno. La sera Pacciardi si fa trasportare in barella al comando di divisione. Stiamo risalendo quando la voce chioccia ed afona di Scarselli ci richiama.

<Hanno pugnalato Rosselli>.

<Cosa dici?>.

<Hanno pugnalato Rosselli e suo fratello>.

<Ma cosa dici?>.

<C’è qui Lussu>.

È vero.

C’è Lussu. Arriva da Barcellona. Tutto il giorno ha cercato di raggiungerci. Ha un giornale con le prime notizie sul delitto fascista di Bagnoles…Ci perdiamo in congetture, in ipotesi. Sentiamo tutti che l’antifascimo registra una perdita irreparabile. Poi si fa fra noi un silenzio atroce. Pacciardi e Lussu si coricano in un’automobile. Io in una ambulanza. Non posso chiudere occhio…Rosselli…il ferro freddo di Matteotti…

13 giugno. All’alba siamo in piedi più stanchi della sera precedente. L’azione ricomincia alle otto ma con carattere dimostrativo. Nel pomeriggio lo S. M. dell’esercito dell’Est, riunito a Barbastro, decide il rinvio dell’azione a mercoledì. Pacciardi e Battistelli insistono perché con Lussu io riparta subito per Parigi. L’assassinio di Rosselli è un avvenimento troppo grave, perché l’antifascismo non debba esaminare il da farsi. Mentre scendiamo al piano dove troveremo l’automobile per Barcellona, nessuno di noi due parla, presi come siamo dal pensiero dei compagni dai quali ci siamo separati – quanti ne ritroverò al ritorno? – e dall’angoscioso dramma di Bagnoles. Lussu è affranto. Ogni tanto si passa la mano sulla fronte madida di sudore e lo sento mormorare fra i denti, come parlando a se stesso: <Povero Carlo…Povero Carlo…>.

 

* Carlo e Nello Rosselli vennero uccisi da una banda di esponenti della Cagoule, formazione di estrema destra  francese; ad armare la loro mano i servizi segreti italiani e Galeazzo Ciano

 

Perché i volontari italiani combattono in Spagna

Lavoratori italiani!

Cittadini tutti d’Italia!

Sapete che qui in terra di Spagna vi sono centinaia di volontari italiani socialisti, comunisti, anarchici, repubblicani, senza partito? Essi hanno formato un Battaglione delle Brigate Internazionali che col nome di Battaglione Garibaldi e sotto il comando del comandante Pacciardi si è già fatto molto onore.

Perché questo nome Battaglione Garibaldi? Perché abbiamo voluto riprendere la gloriosa tradizione del volontarismo democratico al servizio della libertà del mondo di cui Garibaldi fu, nel secolo scorso, l’espressione più nobile e più gloriosa.

E perché siamo qui in Ispagna? Per tre ragioni fondamentali.

Perché la causa della Spagna è la causa dei lavoratori di tutto il mondo ed è in modo particolare la causa dei lavoratori italiani. Perché bisognava che degli italiani lavassero, anche a prezzo del loro sangue, l’onta degli aiuti dati dal fascismo italiano al fascismo spagnolo.

Non c’è un onesto italiano, non c’è un lavoratore del nostro paese il quale non abbia fremiti di orrore pensando che gli aviatori che seminano la morte fra i bimbi e le donne di Madrid sono a volte uomini nati nel nostro paese. Ma l’Italia del popolo non è rappresentata dai carnefici, ma da Fernando de Rosa, caduto sul fronte di Somosierra, da Mario Angeloni, caduto sul fronte aragonese, da Giuliano Viezzoli, caduto nel cielo di Madrid, dalla Sezione italiana della Colonna Ascaso, dalla Centuria Gastone Sozzi che ha lasciato molti morti sul fronte di Talavera ed in maniera più completa dal Battaglione Garibaldi che si è coperto di gloria nella difesa di Madrid.

Infine siamo qui per una terza ragione molto importante. Con la costituzione delle Brigate Internazionali la solidarietà ha preso una forma concreta perfettamente adeguata ai tempi di ferro che viviamo. Non bastano più gli ordini del giorno di solidarietà, non bastano neppure le sottoscrizioni. La stessa solidarietà politica deve trovare sostanza nella solidarietà militare. Questo hanno inteso gli uomini che sotto capi esperimentati hanno costituito le Brigate Internazionali, di cui il Battaglione Garibaldi è la Sezione italiana. Oggi le Brigate Internazionali si battono in Ispagna. Domani si batteranno in Italia, in Germania, ovunque la Rivoluzione liberatrice accenderà i suoi fari.

Il vostro dovere, italiani che siete degni della libertà, lavoratori che volete spezzare le catene della servitù, il vostro dovere è di sostenere con tutti i mezzi possibili la Legione italiana delle Brigate Internazionali, promuovendo sottoscrizioni, firmando indirizzi di solidarietà, dando alla Legione dei volontari.

Il vostro dovere è di lottare contro la politica spagnola di Mussolini. Il vostro dovere è di sabotare la produzione militare e i trasporti per i ribelli spagnoli.

Così voi lotterete per la vostra, per la nostra stessa causa, per la rivoluzione italiana che deve dare a tutto il popolo il pane, la libertà, la pace.

Viva la Spagna libera!

Viva l’Italia libera!

Viva il Battaglione Garibaldi!

Viva le Brigate Internazionali!

 

La situazione politica e militare in Spagna.

Intervista col compagno Nenni reduce dal fronte aragonese.

 

Marsiglia, settembre

(Fer.) – Domenica sera, in stazione a Marsiglia. Folla di partenti. Chiasso. Ad un tavolo della buvette trovo, solo soletto, il compagno Nenni.

<Tu qui?>.

<Io qui. Sono partito da Barcellona alle 15. Aspetto il treno di Nizza per andare a trovare i miei>.

<Con questo vento la traversata in aeroplano deve essere stata dura>.

<Pacciardi e gli amici che mi hanno accompagnato all’aeroplano di Barcellona prevedevano una traversata movimentatissima. Invece il viaggio è stato calmo, regolare, magnifico. In due ore, volando quasi sempre a 4500 metri di altitudine, su un mare di nubi, si arriva da Barcellona a Marignane. Una meraviglia>.

<E la situazione, laggiù?>.

<La situazione laggiù non presenta niente di catastrofico. Il settore del Nord ha subìto la sorte che fatalmente doveva subire. La facile vittoria di Mussolini a Santander è, naturalmente, un colpo duro per la Repubblica. Ma non è un colpo mortale, come non sarebbe mortale l’eventuale caduta delle Asturie. Militarmente il destino della guerra si gioca attorno a Madrid e sul fronte dell’Est>.

<Che avviene su questi due fronti?>.

<Su quello di Madrid “No pasa nada”. Dopo l’offensiva di Brunete, la situazione si è stabilizzata. Sul fronte dell’Est le truppe repubblicane hanno attaccato con molto vigore e con successo relativo. La presa di Belchite è molto importante. La posizione era formidabilmente organizzata ed è stata espugnata dopo un combattimento di fortificazione in fortificazione, di via in via, di casa in casa. Saragozza è stata investita da più lati, ma ha potuto sfuggire alla stretta. Le nostre avanguardie erano giunte a Villa Major de Gallego, a pochi chilometri dalla capitale aragonese>.

Una pausa e poi il Segretario del Partito riprende:

<Il problema delle riserve è oggi essenziale. L’offensiva di Brunete e quella di Saragozza hanno confermato che non è possibile sfruttare il successo iniziale di un attacco se non si dispone di riserve fresche>.

<Ma gli uomini ci sono?>.

<Gli uomini ci sono, ma non sono istruiti e non sono armati. La guerra è sempre di più un’arte ed una scienza. Il coraggio non basta. Quest’inverno la Spagna farà uno sforzo enorme per organizzare due nuovi corpi mobili d’esercito il cui ruolo potrà essere decisivo>.

<Tu dici “quest’inverno”. Prevedi un nuovo inverno in trincea, ciò che corrisponde ad un nuovo anno di guerra?>.

<Purtroppo sì. Una soluzione per le armi non può intervenire in qualche settimana o in qualche mese. L’esercito fascista è ancora tecnicamente superiore – a causa dell’apporto italiano e tedesco – ma non è in grado di vincere. L’esercito repubblicano ha fatto grandi progressi, dispone di un buon apparato e di mezzi considerevoli, ma per la mancanza di riserve istruite e armate non è in grado di condurre a fondo una grande offensiva su diversi fronti. Il conflitto perciò non può che prolungarsi>.

<Si diffonde sempre più la convinzione che la soluzione si avrà sul piano politico e non su quello militare>.

<Le frontiere tra il piano politico e quello militare nessuno può tracciarle con esattezza. Se si intende che la guerra finirà con un compromesso, si dice una sciocchezza. Fra antifascismo e fascismo non c’è compromesso possibile. O vince l’uno, o vince l’altro. Se si intende che vincerà chi è capace di una più lunga resistenza morale, allora si dice giusto. Da questo punto di vista la retroguardia ha la stessa importanza, o forse è più importante, dell’avanguardia. Sarebbe un’esagerazione dire che l’entusiasmo della Spagna repubblicana è oggi quale era un anno fa. Ci sono state delle incrinature. Ci sono stati i fatti, anzi i fattacci di Barcellona. Il popolo soffre molto. Ma la sua energia morale non è fiaccata ed è capace di tutte le audacie e di tutti i sacrifici>.

<Come è la situazione politica interna?>.

<Migliore di due mesi fa, ma sempre difficile e delicata. La forza animatrice della guerra e della rivoluzione – intesa in senso concreto e non declamatorio – è rappresentata dal blocco delle forze marxiste, dai socialisti e dai comunisti, uniti da un Patto d’unità d’azione che i nostri compagni conoscono. Gli anarchici hanno compiuto molti errori – che stanno pagando a duro prezzo -, ma stanno dando prova, almeno in certi settori, di senso di responsabilità, di coscienza del dovere. Le forze repubblicane, borghesi e piccoli borghesi, si muovono nel solco del Fronte Popolare e, del resto, non possono fare né molto bene, né molto male. Il grave è che il Partito socialista è diviso. L’ala sinistra, capeggiata da Caballero, sta passando dal piano di una resistenza legittima e doverosa alla cosiddetta “bolscevizzazione”, al piano dell’opposizione alla politica dell’unità d’azione. Per dispetto, o per disperazione, abbozza una politica di accordo con i soli anarchici, che non si vede a cosa possa condurre, se praticata in opposizione al Partito socialista ed al Partito comunista. Ho una grande amicizia, e molta ammirazione, per Caballero. Egli poteva veramente essere il capo indiscusso della rivoluzione spagnola. I comunisti sono stati ingiusti con lui – e con la sua opera. Ma se la sinistra socialista si stacca dal partito, finirà in un sterile settarismo>.

Il compagno Nenni tace un lungo momento, poi dice:

<<Non si ha mai ragione contro il partito, non si ha mai ragione contro l’unità. Senza l’unità dei socialisti coi comunisti, la rivoluzione spagnola naufragherebbe nel particolarismo e nel regionalismo e finirebbe in tutta una serie di sfortunate esperienze localistiche>.

<Previsioni?>.

<Le difficoltà politiche saranno superate. Il senso della responsabilità correggerà gli eccessi degli uni e degli altri>.

<Tu hai una fiducia intatta nella vittoria>.

<Ho una fiducia intatta nel proletariato. Nel proletariato spagnolo ed in quello europeo e mondiale. La vittoria in Ispagna è sicura se la Spagna non è lasciata sola contro Franco più Mussolini più Hitler. Contro Franco bastano gli spagnoli, contro Mussolini ed Hitler bisogna mobilitare tutte le energie dei popoli liberi e che vogliono restare liberi>.

<Un’ultima domanda: Che avviene della Brigata Garibaldi?>.

<La Brigata Garibaldi continua a dare il suo contributo di opere e di sangue alla guerra del popolo spagnolo contro i suoi nemici interni ed esterni. Nella battaglia dell’Est la Brigata ha avuto all’incirca 300 fra morti e feriti. Ricordo, fra i morti, il repubblicano Dario, comandante del Terzo Battaglione, che ha avuto il fegato traversato da una pallottola e che è morto all’ospedale da campo, dopo due giorni di sofferenze stoicamente sopportate. Ricordo il mitragliere Dughetti, già ferito a Villanueva del Pardillo e che, ancora fasciato, ha voluto tornare in linea dove è stato colpito da una pallottola in fronte. Ricordo i giovani Masi (Dobby) e Miazza, che durante un contrattacco fascista sono caduti sulla loro mitragliatrice…Niente di grande è possibile senza grandi sacrifici>.

 

Intanto si è fatta l’ora del treno. Mentre il convoglio parte, chiedo al Segretario del Partito:

<Sabato incomincia il tuo giro di propaganda nel Midi per il quale c’è molta attesa. Quanto conti di restare?>.

<Sono agli ordini del Partito. Farò tutto quello che dipende da me per realizzare le due parole d’ordine del Congresso di Parigi: “Per un Partito più forte. Per una unità più salda”. Un partito più forte, una più salda unità coi comunisti. I due termini sono integrativi. Essi condizionano l’avvenire del socialismo e la vittoria del proletariato.

 

De Rosa: un eroe della lotta fra socialismo e fascismo. Una lettera del Segretario del Partito ai giovani socialisti dell’Est

Cari compagni,

Voi mi avevate fatto nelle scorse settimane il grande onore di invitarmi fra voi per parlare della vita eroica di Fernando de Rosa, in occasione del primo anniversario della sua morte gloriosa sulla Sierra castigliana.

Le circostanze mi hanno impedito di accogliere il vostro invito e di rispondervi.

Lo faccio oggi che una tregua si delinea dopo la crisi violenta che ci ha messo a due dita dalla guerra.

Parlarvi di de Rosa vuol dire parlare di un giovane italiano e socialista di cui la natura e il destino hanno fatto un rappresentante tipico dei tempi in cui viviamo, un eroe dell’epoca della grande lotta tra socialismo e capitalismo e fra democrazia e fascismo.

Nato a Milano il 7 ottobre 1908, Fernando de Rosa era cresciuto in una famiglia borghese, ignorando perfino i problemi della lotta delle classi. Era un ragazzo quando scoppiò la guerra, era giovane studente nel dopoguerra, quando sorse in Italia il movimento fascista. Come tanti giovani della sua classe sociale, egli non aveva visto della guerra che il lato esteriore e grandiloquente, ne aveva respirato l’acre atmosfera carica dei pollini della violenza. Più tardi aveva ravvisato nelle camicie nere i continuatori delle gesta dei soldati che dal Piave avevano ricacciato oltre i confini gli invasori della patria. De Rosa accettava come verità quanto intendeva dire attorno a sé sulla esistenza di un nemico interno da domare e da schiacciare.

I massacri di Torino del dicembre 1922 gli aprirono gli occhi. Lo squadrismo gli apparve quale era: una ciurma di violenti, alcuni in buona fede, i più venduti al capitalismo. Scoprì dietro le frasi altisonanti di Mussolini, la realtà sociale del fascismo, la lotta contro il proletariato colpevole di voler porre fine al privilegio dei borghesi. Conobbe degli operai. Lesse Rivoluzione liberale di Gobetti e il Quarto Stato che redigevamo a Milano Carlo Rosselli ed io. Fu dapprima un ribelle, in seguito un socialista.

Intanto la lotta politica in Italia s’era fatta ancora più aspra e drammatica. Il fascismo era stato sul punto d’essere travolto dopo l’assassinio di Matteotti. Nel 1925 e nel 1926 la delusione per il modo con cui l’opposizione s’era battuta aveva determinato in alcuni strati della opinione popolare la cupa disperazione che esplode a volte negli attentati e, più sovente, sfocia nella rassegnazione.

Gli attentati furono per il fascismo il pretesto per mettere fuori legge l’opposizione. Nel novembre 1926 andò sommerso il poco che restava di libertà di stampa, di organizzazione, di Parlamento.

Il Partito socialista veniva colpito, come ogni altra organizzazione, dal decreto di scioglimento. Fernando de Rosa si mise a lavorare per il Partito.

Nell’esilio di Parigi io cominciai a ricevere, nei primi mesi del 1927, delle lettere da Torino firmate “Rosetta”. Un giovane socialista mi descriveva in quelle lettere la sua rivolta morale contro il fascismo, la gioia che provava a lavorare illegalmente con gli operai e fra gli operai per ritessere la tela dell’organizzazione, le sue speranze, le sue difficoltà.

Convenimmo un incontro al colle di Sestrière. Poi, un giorno – s’era nel maggio 1928 – egli capitò a Parigi, alla popote di rue de la Tour d’Auvergne, dove, attorno alla paterna direzione di Nullo Baldini, noi facevamo vita comune fra le difficoltà dell’esilio. De Rosa rimase con noi, ma nella disposizione di spirito di chi è sempre sul punto di ripartire.

Era il momento in cui io mi affannavo a risolvere il problema dell’unità socialista urtandomi ai pregiudizi e ai risentimenti di una parte dei vecchi quadri direttivi dov’erano molti coloro che – come certi dannati di Dante – camminavano con la testa rivolta indietro, rimuginando sul passato invece di consacrarsi alla preparazione dell’avvenire. Fernando de Rosa sentiva profondamente la causa dell’unità e per conoscere l’opinione dei compagni rimasti in Italia – e per altre ragioni ancora – fece diversi viaggi clandestini in patria, tornando col convincimento che l’unità era fermamente voluta da tutti i socialisti rimasti sulla breccia.

A quell’epoca l’adesione di de Rosa al socialismo era senza riserve, ma la sua formazione intellettuale tutt’altro che compiuta. Dei pregiudizi della sua gioventù, del suo passaggio attraverso il fascismo, delle letture liberali, gli restava una certa dose di individualismo aristocratico, il culto delle élites, il distacco dall’azione di massa considerata troppo volgare e panciafischista.

Le prime difficoltà dell’esilio accentuarono queste tendenze romantiche e individualistiche. Ricordo certe appassionate discussioni in cui io mi sforzavo di convincerlo che era più rivoluzionario diffondere dei manifestini in una fabbrica a Torino, ritessere la tela dell’organizzazione spezzata, che preparare un attentato. Vedevo bene che le mie parole producevano su lui della delusione ed anche dell’amarezza. Io l’incitavo a studiare, a lavorare fra gli operai. Egli sognava d’essere l’Unico che avrebbe vendicato e liberato il nostro popolo.

Fu da questo suo stato d’animo che scaturì l’attentato di Bruxelles contro il Principe Umberto, il 24 ottobre 1929.

Non fu il capolavoro della sua esistenza ed egli se ne rese conto più tardi. Davanti al Tribunale tenne un contegno di grande dignità. Del suo gesto dette la spiegazione seguente: <Credevo che uccidendo il re, il principe ereditario e Mussolini, le cose cambiassero molto. Ho voluto attirare l’attenzione delle democrazie europee sulle sofferenze del mio paese. Ho voluto far comprendere al mondo le responsabilità della monarchia nell’avvento del fascismo. Penso che il vero patriottismo consiste nel lottare per la libertà della patria. Senza libertà non c’è patria>.

Fu condannato a cinque anni di reclusione e liberato dopo di aver scontato metà della pena.

Il carcere fu la sua Università, come è stato l’Università per tanti di noi. Gli inviai la migliore letteratura marxista. La divorò e ne penetrò lo spirito.

Quando fu liberato, era già un altro uomo. Gli mancava ancora l’esperienza del rivoluzionario che non si acquista che nel contatto col proletariato.

Il destino gli riservò la possibilità e la gioia di fare la sua esperienza in Spagna, dopo la rivoluzione di aprile 1931. In verità, egli era andato in Spagna con altri piani e altre intenzioni. Ma i casi della vita lo forzarono a prendere contatto con la classe operaia di Madrid e con quella magnifica Gioventù socialista dal cui seno sono usciti tanti valorosi combattenti.

Bisognerà che un giorno io ricerchi le sue lettere per mostrare come e per quali vie le nozioni teoriche di marxismo prendessero forma concreta nel suo spirito e nella sua azione. La sua visione della vita si allargò. Sentì che la violenza liberatrice non è quella dell’Unico, ma quella della massa, quella del proletariato. Si gettò con impeto nel lavoro di organizzazione rivoluzionaria seguendo la corrente politica che faceva capo a Francisco Largo Caballero, cui spetta il merito, al di là di questo o di quell’errore tattico, di aver dato al proletariato spagnolo la coscienza della sua funzione e della sua forza.

Dopo l’euforia del 1931-1932 venne per la Spagna il biennio negro. De Rosa si consacrò al lavoro illegale di preparazione dei quadri.

Qui comincia, cari compagni, quello che si può chiamare il capolavoro della vita di Fernando de Rosa. L’Io sparisce e si fonde in un lavoro di insieme, duro, faticoso, pericoloso. La Falange prepara le truppe d’assalto della controrivoluzione e la Gioventù socialista prepara quelle della rivoluzione. Il primo scontro avviene nell’ottobre 1934. Le Asturie ne danno il segnale. Il proletariato è vinto e lascia sulle piazze e sulle strade centinaia di morti e nelle carceri migliaia di prigionieri.

De Rosa è fra i carcerati. Nel Carcere Modello ricomincia a leggere e a scrivere. Presagio del domani, stavolta egli non mi chiede dei libri di teoria marxista o di storia, ma dei manuali di strategia e di tattica militare. I suoi compagni di cella mi hanno raccontato che per lunghe ore ogni giorno l’argomento delle sue conversazioni era la tecnica militare. Marxisticamente egli si rendeva conto che l’arma della critica stava per lasciare il passo alla critica delle armi.

I tribunali militari inferivano con una severità che era una espressione più di paura che di forza. De Rosa fu condannato a 19 anni di carcere per aver preso parte ai combattimenti della Città Universitaria. Alzò le spalle, come Gonzales Peña, il quale era stato condannato a morte. Avrebbe potuto dire, come Giordano Bruno, che i giudici avevano più paura nel condannarlo che lui nell’ascoltare la sentenza.

Venne il febbraio 1936. La vittoria del Fronte Popolare spalancò ai prigionieri le porte delle carceri. Restituito alla vita civile, De Rosa non si cullò nell’illusione di un nuovo ciclo di vita tranquilla, di progresso nell’ordine e di riforme sociali e politiche, ma continuò a prepararsi alle lotte drammatiche che presagiva imminenti.

Com’era stato unitario in Italia, così fu unitario a Madrid propugnando l’unità della Gioventù socialista e della Gioventù comunista in una sola associazione la quale doveva, a suo giudizio, tenere un piede nell’Europa occidentale e uno a Mosca, cosa evidentemente alquanto difficile.

Per concorde opinione dei dirigenti della Gioventù spagnola, se nel luglio 1936 la sedizione dei militari si urtò a qualche rudimento di organizzazione militare operaia, una parte del merito spetta al nostro Fernando de Rosa.

Il 19 luglio segnò il momento drammatico in cui dalle parole si passa ai fatti. Fernando fu all’altezza del compito. Uno dei primi battaglioni che entrarono in azione, il Battaglione Octubre N. II era comandato da lui. Fino dai primi giorni della lotta rifulsero le sue doti di coraggio e di organizzatore.

Quando il 5 agosto io giunsi a Madrid per mettermi a disposizione del Partito Socialista spagnuolo, sentii da ogni parte fare l’elogio di Fernando. Al fronte con lui, sulla Sierra, ebbi la gioia di constatare quanto fosse amato. Nel duro combattimento di Peguerinos, l’11 settembre, mi resi conto delle sue qualità d’intuizione militare.

Aihmè! Pochi giorni dopo, il 16 settembre, mi toccava, con alcuni altri compagni italiani, di accoglierne il cadavere nella Casa della Gioventù a Madrid. Il mattino una palla lo aveva colpito in fronte mentre, alla testa di una compagnia, riconquistava la posizione detta Cabeza Lijar, perduta nella notte.

Quando penso a quella sera, quando rivedo i luoghi dove Fernando è caduto, quando rievoco i solenni funerali di Madrid, provo come un senso di sgomento davanti alla crudeltà del destino. Ogni qualvolta, più tardi, ho incontrato sui vari fronti di Spagna i suoi compagni, sempre mi sono posto questa domanda: <Che cosa sarebbe diventato Ferenando?>. Ed ho la certezza che, come Modesto Lister o Mera, egli sarebbe oggi fra i capi dell’esercito popolare spagnolo.

Così non è stato. Fernando dorme il suo ultimo sonno nel cimitero di Madrid, vicino a tanti altri eroici combattenti, non lungi dal mausoleo di Pablo Iglesias, l’abuelo del socialismo spagnolo.

Un giorno, credo, noi potremo recarci sulla sua tomba e dire: <Fernando, il tuo sacrificio non è stato inutile, le orde di Franco sono state disperse. Nel dolore e nella guerra è nata la nuova Spagna, la Spagna della libertà, della democrazia del socialismo>.

Ma, giovani compagni italiani, io so che voi m’avete invitato a parlare di Fernando non soltanto perché ne rievochi le gesta, ma soprattutto perché tragga dall’esempio della sua vita un insegnamento per voi, per noi, per tutti i lavoratori.

L’Italia e l’Europa hanno bisogno di giovani della tempra di de Rosa.

Da tre anni noi assistiamo ad una serie di tradimenti della solidarietà e della pace che hanno permesso al fascismo la lenta corrosione dell’Europa. È di ieri, a Monaco, il primo tentativo di sottrarre la politica europea al controllo dei popoli, per affidarla ad un <club di salumai> che tagliano nelle carni vive dei popoli e delle nazioni per appagare gli appetiti imperialisti. Dopo il Patto a Quattro di Monaco, in cui si è deciso dei destini della Cecoslovacchia sotto la minaccia del coltello hitleriano, si annuncia un Patto a Tre nel Mediterraneo, che deciderebbe dei destini della Spagna all’infuori della volontà del popolo spagnolo.

Se questo avviene, noi avremo, compagni, la pace dei cimiteri, non quella degli uomini liberi.

Ora, questo non può avvenire che se i popoli, ubbidendo ad un nuovo sacro egoismo, si lasciano dividere e battere gli uni dopo gli altri.

Il vostro posto di combattimento, giovani compagni, è nelle prime file del grande esercito proletario che lotta contro il fascismo e contro i suoi sostenitori palesi ed occulti.

Il vostro posto di combattimento è nel Partito socialista, è nei sindacati, nella lotta di classe contro lo sfruttamento capitalista e contro l’oppressione fascista.

Né voi potete o dovete dimenticare, giovani compagni, che Fernando de Rosa è caduto a Madrid guardando a Roma, è caduto per la libertà spagnuola, pensando alla libertà italiana.

Giurate a voi stessi di essere dei combattenti intrepidi della libertà e del socialismo. Temprate la vostra anima, come Fernando aveva temprata la sua, alla fiamma del socialismo. Studiate ed educatevi, giacché non c’è azione rivoluzionaria possibile senza una dottrina rivoluzionaria.

Ciò che è mancato alla generazione che vi precede, è la volontà della lotta. Il marxismo, fatte rare eccezioni, fu annacquato in un positivismo gradualista, in cui perse le sue caratteristiche di filosofia della azione per diventare una specie di determinismo economico e di fatalismo politico. Si attendeva che la dea Evoluzione ci recasse in un piatto d’argento la testa del capitalismo come Giuditta la testa di Oloferne, e la sorpresa fu grande quando invece fece irruzione la barbara controrivoluzione.

Oggi ancora le vecchie democrazie parlamentari, corrose dall’opportunismo elettorale, non sanno opporre al fascismo che barriere di carta. E sono e saranno sempre sconfitte, finché dalle viscere del popolo non sorga una volontà ferrea di lotta che dia al proletariato la capacità di affrontare tutti i sacrifici e tutti i rischi dell’azione.

A coloro che alla violenza del fascismo hanno opposto la non-resistenza o il non-intervento, un giovane della tempra di Fernando de Rosa può apparire come un pericoloso bellicista capace di mettere in pericolo la… digestione della gente per bene.

Giovani compagni, la risposta ai loro dubbi cercatela nei fatti. Essi vi mostrano che da trenta mesi un popolo <sol di rabbia armato> ha fatto fronte vittoriosamente al fascismo internazionale, perché ha freddamente ammesse tutte le ipotesi fuorché quella della capitolazione.

Guardate innanzi a voi, ripensate i problemi della vostra generazione con spirito critico rifiutando l’eredità degli ispe dixit, non lasciatevi abbattere dalle difficoltà, abbiate l’orgoglio della vostra milizia proletaria e socialista, tendete la mano ai vostri fratelli di classe e d’oppressione, sappiate attendere quando è necessario ed attaccare quando è venuta l’ora dell’attacco, senza conoscere altra barriera ed altro limite che l’interesse della Rivoluzione.

Allora voi vincerete e vendicherete quelli che sono caduti nella lotta o quelli che, rassegnati, hanno dovuto chinare il capo davanti all’insolenza del fascismo trionfante.

Vi saluta il vostro

Pietro Nenni

 

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

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