De Rosa, struggimenti privati di giovane un eroe

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-di ANTONIO MAGLIE-

“Sarà bene che tu mi adotti d’innanzi un notaio e che faccia legalizzare l’atto dal console di Spagna”. E’ il 9 ottobre del 1933 quando Fernando De Rosa scriveva alla madre, Umberta Zanetti questa lettera. Per anni, Pietro Nenni l’ha custodita gelosamente. Con il giovane ardimentoso anti-fascista, eroe della guerra di Spagna (insieme a Sandro Pertini, era il più insoddisfatto delle prudenze dei vecchi oppositori di Mussolini), aveva costruito un rapporto solido, cominciato nei primi mesi del 1927 quando il ragazzo (allora aveva diciannove anni, ma in quell’Italia si cresceva decisamente in fretta), abbandonati i furori fascisti e definitivamente convertitosi al socialismo, gli inviava lettere firmandosi “Rosetta”. Queste tre missive inedite sono accompagnate da alcune foto sul retro delle quali Nenni aveva vergato delle vere e proprie didascalie, come quella commovente che illustra l’immagine della mamma di De Rosa, affranta davanti alla tomba del figlio: “La madre che dà generosamente i suoi figli alla lotta, è sempre la figura più bella e più drammatica della guerra. Ecco qua, come un simbolo di questo grande dolore materno, la madre di Fernando De Rosa, che visita la tomba del grande lottatore socialista, comandante del Battaglione Octubre, una delle figure più interessanti del partito”.

Era stato proprio lui, Nenni, ad annunciare la terribile notizia a Umberta Zanetti. Con poche commosse parole: “Egregia signora, un crudele destino mi ha riservato l’ingrato compito di chiudere gli occhi a suo figlio”. E ricordava in un libro di memorie: “Pochi giorni dopo, il 16 settembre, mi toccava, con alcuni compagni italiani, di accogliere il cadavere (di De Rosa, n.d.a.) nella casa della Gioventù di Madrid”. In Spagna, Nenni era arrivato un mese prima, il 5 agosto del 1936. La guerra civile infuriava. A luglio c’era stato l’ “alzamiento” dei “cuatro generales”, Francisco Franco, Emilio Mola, Gonzalo Quejpo de Llano e José Enrique Varela. Ve ne era anche un quinto, José Sanjurjo, quello che era considerato il vero capo, ma il 20 luglio morì in un incidente areo, probabilmente un attentato. De Rosa in Spagna c’era arrivato da tempo, il 10 agosto del 1932: poco più di un anno prima, il 4 aprile del 1931, era stata proclamata la Repubblica. Aveva vissuto i grandi entusiasmi e poi le durezze del biennio “negro”, con lo scontro senza esclusione di colpi tra destra e sinistra. Aveva visto trionfare il Fronte Popolare nelle elezioni del 16 febbraio del 1936 godendo della successiva amnistia che lo aveva fatto uscire di prigione molto prima dei diciannove anni che gli erano stati inflitti per un reato di cui si era autoaccusato (una sparatoria contro la Guardia Civil nei giorni della Rivoluzione delle Asturie).

Quando la guerra era scoppiata, lo avevano voluto immediatamente alla testa del battaglione Octubre: era ritenuto uno dei pochi a conoscenza di tattiche militari, rispettato da vecchi leader della sinistra e da giovani come Santiago Carrillo. Ripeteva a chi gli era vicino: “Morire non è niente, basta non soffrire”. Non soffrì quando alle 16,30 del 16 settembre 1936, ottanta anni fa, a Cabeza di Lijar una pallottola lo colpì dritto in fronte: era lì, indifferente al pericolo, che indicava ai suoi compagni come liberare un focolaio di resistenza. “Sembrava che dormisse”, disse Nenni, dopo averlo visto. In un libro anni dopo avrebbe raccontato quella giornata: “Giunto sul posto ha riunito il Battaglione ed ha detto: “Ragazzi bisogna riprendere la posizione”. Dopo due ore di combattimenti Cabeza de Lijar è virtualmente presa. In piedi su una roccia, il frustino in mano, Fernando indica l’ultimo nido di resistenza. Una palla in fronte lo fulmina, non ha avuto il tempo di dire una parola, di fare un gesto”. Alla Puerta del Sol, all’annuncio della sua morte, si levò un urlo: “De Rosa, De Rosa no pasaran”.

Un opuscolo che uscì in Francia un anno dopo la morte cominciava con queste parole: “Ci sono vite che ricordano le scie delle comete: brevi, alte, luminose”. Ma sempre in quel vecchio opu- scolo del 1937 redatto sulla base degli articoli di Nenni, Rugginenti e altri compagni e amici del fuoriuscitismo italiano, c’è una seconda frase che nelle lettere che qui pubblichiamo può trovare una risposta: “Nato nel 1908, un mistero avvolge la sua nascita che lui si sforzerà per tutta la vita di svelare. Lui sapeva, perché glielo aveva detto lei, che l’ammirevole donna che lo ha adottato non è sua madre e lui avrebbe voluto ritrovare quella che lo aveva messo al mondo”.

E’ un aspetto secondario di questa straordinaria vicenda umana. Eppure questo mistero ha in qualche misura angosciato la breve vita di Fernando De Rosa. Era convinto, come dimostrano queste lettere in cui chiede alla signora Zanetti di compiere un atto ufficiale d’adozione, che in realtà la sua madre naturale fosse un’altra. Forse, alla base di questa convinzione, la condizione familiare irregolare che in un ragazzo abituato alla chiarezza creava qualche disagio. “A me basterebbe poter far sparire il “di ignoto”, le virgolette negative dove dovrebbero essere il nome del padre e della madre”, scrive in un’altra lettera che porta la data del 27 settembre del 1933. Quel cruccio lo ha accompagnato per tutta la sua avventurosa vita. Era nato a Milano, il 7 ottobre del 1908, da una relazione tra Umberta Zanetti, insegnante di origini bolognesi, e Francesco De Rosa che partito da un paese del potentino era approdato in America Latina, dove tra mille sacrifici aveva avuto la fortuna di realizzare un’invenzione e di rastrellare un po’ di denaro attraverso lo sfruttamento del brevetto. Tornato in Italia nel 1905 aveva conosciuto Umberta. Era scomparso nel 1914, alla vigilia della Grande Guerra, consegnando alla Zanetti un lascito morale e uno materiale. Con il primo la invitava a dare al ragazzo registrato inizialmente all’anagrafe come Lencioni il suo vero cognome, De Rosa; con il secondo, settecentomila lire, una somma di tutto rispetto per quegli anni, la metteva nelle condizioni di garantire a Fernando una vita tranquilla e una istruzione di buon livello (che l’eroe interromperà affermando, come scrive in una delle tre lettere che qui pubblichiamo, che la laurea in legge non serve a nulla). Considerata la situazione poco chiara da un punto di vista familiare, la questura di Torino (città nella quale la Zanetti si era trasferita da Milano) consigliò alla donna di mandare Fernando in un collegio. Ma la signora di allontanare quel figlio non aveva alcuna voglia e nel 1918, dando seguito all’invito del compagno morto e incalzata anche dalle pressioni di Fernando, provvide a dargli ufficialmente il nome del padre.

Furono probabilmente queste vicissitudini che lo portarono a maturare quella convinzione che lo accompagnerà per tutta la vita (“Forse non tutta”, precisa Giuseppe Loteta autore di una bio- grafia). In realtà madre e figlio avevano caratteri molto simili e come spesso accade in questi casi, il figlio, pur amandola moltissimo, faticava a identificarsi in lei. Fernando aveva la stessa indole melanconica di Umberta, anche se non era un “musone”, anzi nel complesso appariva cordiale ed estroverso. La signora Zanetti a Fernando era legatissima, talmente legata da finire per essere possessiva. E ansiosa: temeva che senza di lei il figlio non sarebbe stato capace di affrontare le difficoltà della vita. Nonostante l’imperfetto processo di identificazione tra i due, Umberta finì, comunque, per incidere sulle scelte del figlio, almeno sulle prime, quelle adolescenziali. Convinto dalla madre, decise di mandare un biglietto a quel principe ereditario, Umberto, che anni dopo, a Bruxelles, avrebbe provato ad ammazzare: “A voi futuro erede della Corona Savoia il saluto rispettoso di un bimbo che vi ama tanto. Il piccolo De Rosa”. L’episodio è stato ricordato in un libro da Mario Giovana. Su questa vicenda, nei giorni del processo di Bruxelles apparve anche un articolo su “La Stampa” di Torino.

Indirettamente la signora orientò anche le iniziali scelte politiche del ragazzo, fascista a tredici anni, consacrato “alla causa” con una pistola donatagli dai “camerati”: l’oggetto avrà un ruolo non secondario nel suo successivo pentimento. Avendo parenti in Romagna, l’estate partivano in vacanza: lì Fernando entrò in contatto con gli interventisti di matrice ex repubblicana. Qualche anno dopo, però, l’abiura legata in buona misura a un tragico evento: nel tentativo di scaricare la pistola che gli era stata regalata più o meno come alla comunione i genitori regalano un orologio, un colpo fortuitamente partito aveva ucciso un giovane pensionante egiziano che aveva trovato sistemazione nella casa della madre. Avrebbe voluto suicidarsi. Lo fermarono in tempo. Andò immediatamente alla polizia ad accusarsi per quel tragico fatto. Evitò la galera perché minorenne e perché la dinamica dei fatti apparve chiarissima: non c’era stata né intenzione né premeditazione. Non impiegò molto a ca- pire che i suoi ideali non collimavano con quelli degli squadristi torinesi guidati dal quadrumviro De Vecchi e con una lettera si dimise. Provarono a farlo desistere da quelle intenzioni con le consuete maniere fasciste: picchiandolo. Poi, come ha raccontato Giorgio Veronesi in uno scritto intitolato “Fernando De Rosa” e pubblicato il 1° ottobre del 1949 su “Movimento Operaio” (ripreso successivamente da Giovana), lo salutarono annunciandogli che se non avesse ritirato le dimissioni “gli avrebbero passato il ventre con un punteruolo”.

Ma ormai Fernando aveva rivisto le sue posizioni, sotto l’influenza del professore che gli dava lezioni private, Guglielminetti, e del dottor Gaisca, socialista, padre di Luigina, il suo primo amore (ma il corteggiamento al dottor Gaisca non era particolarmente gradito, soprattutto in virtù delle imprese di Fernando in esilio). Poi le lettere a Nenni, il rapporto con Carlo Rosselli, la frequentazione di Luigi Passoni, il ragioniere che si preoccupava di portare in Francia partendo da Torino, i soldi per sostenere l’esilio degli antifascisti parigini. E quando Passoni finì in galera a causa della “soffiata” di Alberto Giannini, direttore del “Becco Giallo” e spia dell’Ovra, del “trasbordo” si occupò Fernando. Rue D’Auvergne, tra Montmartre e Pigalle, era una piccola isola italiana. In una casa di quella via viveva Claudio Treves insieme al figlio. E lì trovò sistemazione anche Bruno Buozzi appena arrivato a Parigi. Poi c’era la “Popote” dove transitavano tutti i socialisti in esilio, compreso Nenni che, alla morte di De Rosa, incaricò Buozzi, che si occupava delle questioni internazionali, e, quindi, anche della guerra civile spagnola (sarà sua figlia Ornella, in viaggio a Barcellona, a scrivere uno dei primi articoli per il “Nuovo Avanti!” sul conflitto) di organizzare il reclutamento di un battaglione di volontari che avrebbe preso il nome di Fernando. Quei tempi, un anno dopo la morte di De Rosa, Nenni li avrebbe ricordati così: “Un giorno – s’era nel maggio 1928 – capitò a Parigi, alla Popote di rue de la Tour d’Auvergne, dove attorno alla paterna direzione di Nullo Baldini, noi facevamo vita comune tra le difficoltà dell’esilio. De Rosa rimase con noi ma nella disposizione di spirito di chi è sempre sul punto di partire”.

Alla madre che avrebbe voluto presentare domanda di grazia in occasione del processo per l’attentato al principe Umberto (su intuizione di Carlo Rosselli, il collegio di difesa lo trasformò in un atto d’accusa internazionale contro il fascismo), rispose più o meno nella stessa maniera in cui Pertini rispose a sua madre: “Se domandassi grazia mi distruggeresti. Ti amo molto, ma amo più di te, più di me stesso, più di tutto al mondo, la libertà della Patria”. Si difese in maniera decisa ma non mostrando particolare orgoglio per il gesto compiuto: “Voi non potete comprendere. Vivete in un paese libero, garantiti da istituzioni democratiche. In Belgio non approverei il ricorso alla violenza. Non voglio fare qui l’apologia dell’insurrezione ma penso che essa è legittima in un paese dove il popolo, con la violenza, è stato spogliato di tutti i suoi diritti”. Pietro Nenni dopo la morte dell’eroe, ricordò l’episodio per sottolineare gli impeti ma anche la rettitudine morale del ragazzo: “Non fu il capolavoro della sua esistenza (l’attentato, n.d.a.) ed egli se ne rese conto più tardi”. Nella lettera del 9 ottobre del 1933, scriveva alla madre: “Potrei divenire cittadino straniero e godere di libertà e diritti che oggi il fascismo nega ai non conformisti. Ma tra cittadino straniero e suddito italiano, opto per il suddito purché italiano”. Un anno dopo la sua morte, Nenni avrebbe rivolto questo invito ai giovani socialisti: “Né voi potete o dovete dimenticare, giovani compagni, che Fernando De Rosa è caduto a Madrid guardando a Roma, è caduto per la libertà spagnola, pensando alla libertà italiana”. Esattamente come la scia di una cometa: alta e luminosa. Purtroppo breve.

LETTERE ALLA MADRE

de rosa

9 ottobre 1933

Cara Mamma,

ti ringrazio pei soldi e pei documenti. Sarà bene che tu mi adotti d’innanzi ad un notaio che faccia legalizzare l’atto dal console di Spagna. Coll’atto di battesimo e con questo documento, risolverò il problema. Non credere che voglia farmi spagnolo. Al di sopra dei partiti v’è la Repubblica, ed al di sopra della Repubblica e della monarchia, dell’antifascismo e del fascismo, v’è l’Italia. Potrei divenire cittadino straniero e godere di libertà e di diritti che oggi il fascismo nega ai non conformisti. Ma tra cittadino straniero e suddito italiano, opto per il suddito purché italiano. Se rinnegassi la mia Patria, sì che sarei degno di essere fucilato nella schiena. Il fascismo non avrà da me altro mai che beffe, ingiurie e pistolettate, perché credo, duro come il ferro, duro come la mia testa più dura del ferro, che la dittatura non risolverà nessun problema. Il giorno che cadrà il regime, si ripresenteranno gli stessi problemi del ’22, più gravi, in forma più tragica. Il movimento operaio sarà più estremista, perché inasprito da questi anni di schiavitù. L’anticlericalismo (oh trattato del Laterano!) farà furore. Le minoranze allogene se ne vorranno andare. Bisognerà che tutti i repubblicani lottino colle unghie e coi denti per salvare il paese dal comunismo e dalla rovina. Sì, io sono antifascista perché serve più l’Italia una politica di pace, di libertà e di coraggiose riforme sociali, che una coreagrafica dittatura. Posso ingannarmi, ma gli stessi miei avversari dovrebbero rispettarmi perché li ho sempre combattuti a viso aperto e perché non rinnego il paese. Essi non lo sanno, non lo possono, perché sono dei barbari ed io me ne rallegro perché questa altra prova della loro sensibilità di cannibali mi conferma che la mia battaglia è la buona. Non temere quindi. Sono e sarò sempre italiano. L’Italia io l’ho nel sangue, come altri hanno nel sangue la sifilide! Giovedì mi diranno qualcosa per il lavoro mio. Spero così che non dovrai aiutarmi per molto tempo ancora.

Un abbraccio Fernando.

16 settembre ’33

Cara Mamma,

scusami se non ho risposto subito alla tua lettera, ma passo giornate nere perché sono disoccupato e senza il becco di un quattrrino. Se Dio vuole, ricomincerò presto a lavorare e così sarò più tranquillo. Non mi iscrivo all’università perché la laurea in legge non mi servirebbe a nulla. Ti prego invece di spedirmi la pagella elementare ed i certificati della licenza ginnasiale e di quella liceale. Mi faresti pure cosa grata (a Barcellona me l’offristi) “riconoscendomi” ed inviandomi anche i documenti, che provano che tengo diritto a portare il nome di mio padre. Non ho mai bussato a dinero perché so che la tua situazione non è buona, ma son proprio coll’acqua alla gola. Non do- mando aiuto ai miei amici per non contrarre debiti di riconoscenza e debbo già più di trecento pesetas (più di un mese) alla pensione. Se puoi trovare un po’ di soldi mi servirebbero. Potrei così aspettare di trovare lavoro.

Però il più importante è quel che ti domando nella prima parte della lettera. Verranno giorni meno tristi Ti abbracciode rosa2

Fernando.

27 settembre 1933

Mia cara Mamma,

grazie dei soldi, grazie soprattutto perché so che essi per te significano un sacrifizio. Grazie quindi ancora. Mandami tutti i documenti che sai, perché voglio vedere se v’è mezzo di far qualcosa. A me basterrebbe poter far sparire da tutte le mie carte il “di ignoti”, le virgolette negative dove dovrebbe esserci il nome del padre e della madre. Col certificato di battesimo e con un tuo atto di adozione, forse vi riuscirò.

Io non domando un aiuto mensile né a te né a nessuno perché ho venticinque anni. Quel che è necessario è che io possa resistere sino a quando non incontri lavoro. Io conosco molta gente e vi riuscirò, ma non debbo fare il morto di fame per ottenere qualcosa. Se sanno che sono ridotto alla disperazione, mi gettano un boccone di pane e debbo ancora ringraziare. Se invece posso restare senza lavorare altri quindici giorni, spero di poter ottenere un buon posto che m’han promesso e che creeranno apposta per me. Io mi metterei a fare il facchino se non sapessi che dieci persone approfitterebbero che io lavoro per strapparmi questa possibilità di vivere decentemente. L’uomo è lupo per l’uomo.

Non credere però che il mio morale sia cattivo. Vedrai che si arrangerà tutto e che le cose andranno meglio. Grazie ancora. Grazie di tutto.

Ti abbraccio

Fernando

 

 

 

antoniomaglie

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