Da Fermo a Dallas: un bisogno latente di guerra

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-di ANTONIO MAGLIE-

Due uomini di colore uccisi in Luisiana e Minnesota; cinque agenti ammazzati a Dallas al culmine di quella che è stata definita una vera e propria “azione militare”; a Fermo l’ultrà che ha ucciso l’immigrato nigeriano in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato dice che lo ha fatto perché era convinto che lui e sua moglie volessero compiere una rapina; in Francia si temeva l’arrivo dei “tifosi” dell’Is e invece le strade del Paese sono state messe a soqquadro dai “tifosi comuni”, quelli che dovrebbero essere lì per semplice turismo e che, al contrario, hanno provocato un morto (non c’entrava nulla solo che si trovava in mezzo a una rissa e gli è arrivato un tavolino addosso) a Belfort. Di solito si dice: bisogna tenere sotto controllo i semi della violenza. Ma si ha quasi l’impressione che quei semi siano dentro di noi, che nel suo complesso la nostra società sia percorsa da un bisogno latente di “guerra”, forse perché annoiata di una lunga pace, forse perché ormai le generazioni che raccontavano i lutti e gli stenti non ci sono più, forse perché crediamo che in fin dei conti si tratti solo di una versione più realistica di uno dei tanti videogiochi in circolazione. 

È come se dentro di noi ci sentissimo orfani di un “nemico” e lo cercassimo in una delle tante trincee aperte della nostra quotidianità. Ci lamentiamo della crescita progressiva del tasso di aggressività eppure facciamo pochissimo per imbrigliarlo, per controllarlo. Ognuno di noi è in guerra con qualcosa o qualcuno. Negli Stati Uniti questa percezione è più netta. Prima la strage del locale gay provocata da un estremista islamico dal profilo psicologico abbastanza indefinito e confuso. Ora il massacro di Dallas. Ognuno ritiene le proprie ragioni superiori a quelle degli altri. Forse il termine “esecuzione” non è appropriato per quello che è avvenuto in Luisiana e Minnesota ma si fatica a trovare un sostantivo diverso. Allo stesso tempo è impossibile pensare che quello che è avvenuto a Dallas sia frutto della rabbia incontrollata del momento e non faccia parte di un piano “feroce” (aggettivo usato da Obama) di vera e propria guerra. Perché il problema è proprio questo: quel che sta avvenendo negli Stati Uniti sembra l’annuncio di una vera e propria “guerra razziale”. 

Scontiamo la mediocrità delle élite governanti o che si candidano a governare. Può essere Trump, l’uomo che vuole cacciare i “latinos” e chiudere ai musulmani, l’uomo in grado di sopire questo latente istinto guerresco che alberga in tante zone della società? Dubitarne è quanto mai opportuno. Possono essere Salvini e Giovanardi, campioni di “solidarietà pelosa” in occasione della vicenda di Fermo, a pacificare una società che cerca il “nemico” con la stessa determinazione con cui i cani cercano il tartufo? Anche qui dubitare appare esercizio doveroso. E, d’altro canto, se di fronte all’uccisione di un giovane uomo nigeriano, dopo i “pistolotti” retorici un tanto al chilo, si tira fuori la filastrocca elettorale sugli invasori che vengono dal mare senza peraltro rendersi conto che nel nostro Paese la popolazione è diminuita e non aumentata, allora è evidente che siamo in presenza di una classe politica che ha abdicato al suo ruolo “educativo” preferendo inseguire gli umori e i malumori, provvedendo, poi, ad alimentarli per accrescere il facile consenso, dando così vita a un circolo vizioso estremamente pericoloso. 

E così assistiamo inerti e inermi (e anche un po’ disperati) alla crescita di questo tasso di aggressività. Ne cogliamo i segni agli angoli delle strade, lo tocchiamo con mano attraverso internet un luogo dove, come dice Bauman, non ci si aggrega fra diversi ma solo tra uguali e ai diversi si riservano al massimo gli insulti. In questo modo, inavvertitamente si creano veri e propri “eserciti” cybernetici che non è detto che col tempo non possano diventare anche reali. Un allenatore di pallone per esaltarsi parlava del “rumore dei nemici”. Il guaio è che l’evocazione di quel rumore è uscita da uno spogliatoio, ha invaso la società e sta diventando sempre più assordante.

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