Brexit, prima conseguenza: l’incertezza

image

-di GIANCARLO MERONI-

Un risultato del referendum sulla brexit è assolutamente certo: ha creato e creerà incertezza e paura sui suoi effetti futuri. L’incertezza, come tutti sanno, è la peggiore nemica dell’economia, tanto più se va ad inocularsi in un tessuto economico caratterizzato da una lunga e logorante depressione che l’economista americano Posner, non in vena di pudiche minimalizzazioni, ha pronosticato come una tendenza deflattiva secolare che è stata finora contenuta, ma non domata, da politiche e strumentazioni più sofisticate rispetto a quelle disponibili nella precedente esperienza del 1929. Un fattore di incertezza come quello che determinerebbe l’uscita di un Paese della rilevanza dell’Inghiltera dalla UE non potrà non avere effetti negativi sulla fiducia degli operatori economici e finanziari, dei risparmiatori e dei consumatori e quindi sugli investimenti e sui consumi, ripercuotendosi sull’occupazione e sui salari.

Tutti gli indicatori disponibili, su cui si basano le previsioni degli analisti, dicono che, con varianti puramente dimensionali, quella è la direzione di marcia. A questi elementi, già di per sé probanti, si devono aggiungere importanti componenti di politica interna, come il separatismo scozzese, che riprenderebbe vigore e legittimità e, forse, rinfocolerebbe anche quello gallese ed irlandese, senza contare gli effetti di trascinamento su altri paesi dell’Unione, in cui è forte la spinta nazionalista – populista, che potrebbero acuire sia i dissensi verso le politiche europee che i contrasti latenti fra di essi. Lo si è constatasto drammaticamente nella questione dei flussi migratori e dei profughi con rimpalli di responsabilità e dispiegamenti (o minancce di dispiegamento) di barriere di filo spinato e contingenti militari per controllare quelle frontiere nazionali che, con tanto vigore ed entusiasmo, si erano volute abbattere dopo la dissoluzione del sistema comunista.
Se spogliato dall’ iperbole retorica (peraltro poco assonante con l’understatement britannico: è, anche questo, un indizio crisi di nervi?), l’ammonimento di Cameron che i nazionalismi riemergenti in Europa potrebbero degenerare anche in guerra contiene un nucleo permanente di verità: ne abbiamo avuto una prova con le guerre in Yugoslavia ed Albania negli anni ’90. Situazioni conflittuali latenti o manifeste esistono anche in molti paesi dell’Unione: dalla Catalogna al Kossovo, a Cipro, alla Moldavia, alla Transilvania, ovviamente, alla Scozia e all’Ulster. Ancora di più alle frontiere orientali, dove sono aperti conflitti sanguinosi in Ucraina e Georgia che coinvolgono la Russia, e quindi gli equilibri geopolitici europei e internazionali. Ciò che ha consentito di preservare o restaurare la pace è stata la partecipazione, pur con tutte le sue debolezze e contraddizioni, ad un’Europa politica ed economica sovranzionale,Verso questa Europa il Regno Unito ha storicamente tenuto un comportamento oscillante e, per molti versi, ambiguo, condizionandolo ad un quadro geopolitico che lo trascendeva, privilegiando le relazioni politiche e con gli Stati Uniti e con il suo ex impero.
Dopo la disintegrazione dell’impero sovietico, lo sviluppo del processo di integrazione economica e politica della UE, l’ingresso sulla scena della Cina come potenza mondiale e di nuove potenze regionali e continentali come l’India, lo spazio per un ruolo internazionale dell’Inghilterra si è praticamente annullato. Di ciò hanno preso atto gli Stati Uniti che, sia nella versione unilaterlista di G.W Busch che in quella multilateralista di Obama, non includono la Gran Bretagna come partner strategico. Il pesante sostegno di Obama a Cameron è determinato dal ruolo strategico, sia in campo economico che politico e militare, che gli Stati Uniti attribuiscono all’UE in scacchieri cruciali come il Mediterraneo, il Medio Oriente, e l’Europa Orientale e nei rapporti economici e commerciali transatlantici.
In questa visione strategica è di un’Europa più forte ed unita, capace di un maggiore governance interna e internazionale, anche militare, che gli Stati Uniti hanno bisogno. L’operazione Brexit va invece in senso opposto: indebolisce l’Unione senza alcun vantaggio, anzi con probabili gravi danni economici, per l’Inghilterra. Nel caso, poi, che il nuovo presidente americano fosse Trump (cosa assai improbabile) è certo che né l’Europa, né tanto meno l’Inghilterra, sarebbero determinanti nel suo programma di governo. Dato che Cameron non è uno sprovveduto questo scenario deve essergli noto. Ci si interroga quindi sul perché abbia voluto drammatizzare i contrasti spostando l’asse politico dal tavolo dei negoziati, dove necessariamente si decidono questioni di questa complessità e rilevanza e a cui è giocoforza ritornato, alla deriva plebiscitaria. La scelta del referendum non è discesa da un disegno politico di ampio respiro, ma da due fattori contingenti: le elezioni politiche del 2015 e la crescita esponenziale dei partiti populisti ed in particolare del UKIP di Nigel Farage, sotto la spinta del fenomeno migratorio. L’appello referendario doveva servire a due scopi concomitanti: rassicurare gli elettori di sentimenti populisti che l’ultima parola sulla permanenza del Regno Unito nella UE sarebbe spettata al popolo e costringere l’Unione, sotto la minaccia del referendum, a rinegoziare lo status britannico al suo interno. Come siano andate le cose lo sappiamo: un accordo è stato faticosamente trovato sulle condizioni per la permanenza del Regno Unito nella UE e i conservatori, inopinatamente, hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento. A questo punto Cameron si è trovato, come ha scritto il professor Bernard Cassen dell’Università di Parigi su Le Monde diplomatique, “intrappolato nella sua stessa trappola”. Quella promessa di referendum che aveva fatto da specchietto per le allodole per vincere le elezioni ora può diventare lo strumento che può scalzarlo dal potere appena conquistato; da qui la frenesia dello scontro politico, i toni assai poco britannici del dibattito e la chiamata in soccorso di quell’Obama e di quella bistrattata UE che non avevano fatto mancare le loro critiche alla politica europea di Cameron e del suo governo.
D’altronde, quand’anche, come tutti ci auguriamo, al referendum prevalgano i “remain” l’applicazione dell’accordo siglato deve essere tradotto in norme e misure giuridiche tutte da definire. Se, invece prevalessero i “leave”, oltre alla probabile uscita di scena di Cameron, si aprirebbe un tormentato e pericoloso processo di riposizionamento politico sia del Regno Unito (se esisterà ancora) che della stessa UE. Quello che è certo è che l’attuale meccanismo decisionale nella situazione attuale non è in grado di garantire il governo dell’Unione e, quindi, la sua coesione. Senza politiche comuni e istituzioni capaci di elaborarle e farle applicare il pericolo che l’UE regredisca verso un modello di zona di libero scambio a gestione intergovernativa può divenire reale. Questo schema non è accettabile da parte della maggioranza dei paesi della zona Euro e persino dell’Inghilterra per cui sarà giocoforza avviare da subito un processo politico che preveda la possibilità di un’ Unione a diversi livelli di integrazione in cui i Pesi membri che lo vogliono adottino un grado più elevato di sovranazionalità in termini di politiche comuni in campo economico e monetario (politiche di bilancio e fiscali), di politiche dell’occupazione, del lavoro, della formazione e dell’educazione, del welfare, della sicurezza, della difesa e della politica estera. Questo modello di Unione implica una un alto livello di partecipazione, quindi, una forte democratizzazione dei processi decisionali e di controllo a livello sovranazionale .
Le vicende della Brexit, della Grexit, del diritto di libera circolazione e dei profughi, della sicurezza e del terrorismo indicano che questo deve essere il ruolo storico dell’Europa.

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

One thought on “Brexit, prima conseguenza: l’incertezza

  1. Analisi molto corretta, ma non condivido. Sono ormai otto anni che stiamo attraversando una crisi molto profonda in Europa da cui non si vede termine. Quindi rischiamo di essere condannati alla stagnazione con tanta disoccupazione, crescita delle bocche da sfamare, molta povertà e crescita della disperazione. La verità è che non si vede un futuro! Gli USA sono usciti dalla grande depressione con il new deal e dopo con la seconda guerra mondiale. Apprezzo il primo è disprezzo la seconda! Oggi non vedo alcuna iniziativa capace di ribaltare questa situazione. Il popolo, salvo eccezioni non è più capace di reagire e la politica che conta non è capace di avviare iniziative coraggiose. Molti dicono che è solo un problema di disponibilità finanziarie agli investimenti. Ma non basta, anzi forse non servono! Draghi ha fatto la più grande iniezione di liquidità nel sistema ed una forte svalutazione dell’Euro ed ancora non abbiamo visto alcunché. La verità è che l’Europa continua a promuovere leggi che impediscono la libera iniziativa, impongono lacci e laccioli e nuove difficoltà. Marcatura molto stretta fra noi stessi e nessun rilancio verso il resto del mondo. La Brexit? Si minaccia la tragedia ma non si dimostra alcunché. Cosa succederà? Vedremo! Comunque pur non essendo d’accordo penso che uno scossone tremendo possa convincere l’Europa ad una forte reazione ed a scelte coraggiose! Ricordo che nel dopoguerra per rispondere al problema della disoccupazione non è stata creata la cassa integrazione e neanche incentivi alle imprese per assumere. Sono stati avviati molti cantieri per realizzare lavori pubblici, poi la crescita delle PP SS ed è stato promosso il rilancio dell’agricoltura. Vorrei ricordare anche che il ns miracolo economico è stato prodotto dalle cambiali e dalla libertà di intrapresa nelle piccole aziende che sono cresciute fino a diventare medio grandi. Ragazzi di bottega sono diventati artigiani e poi industriali. Oggi ci sono leggi che hanno sottomesso la libertà di intraprendere alla burocrazia ed al fisco dimenticando che il pastore prima di mungere e tosare la pecora deve farla ingrassare. Oggi si chiedono tasse ancora prima che i soldi siano stati guadagnati. Moltissimi sono i casi di soggetti che chiedono prestiti in banca per pagare le tasse, tutte. Comprese quelle locali. Purtroppo stiamo difendendo un sistema fallimentare quando invece avremmo il il dovere di riformarlo. E le nostre false riforme servono solo per perpretare questo sistema. Avanti così verso il nulla. Il mio non è pessimismo ma un invito alla capacità di reagire.

Rispondi