Boccuzzi: la lezione della tragedia Thyssen

boccuzzi

-di VALENTINA BOMBARDIERI-

Antonio Boccuzzi lei oggi è deputato del Partito Democratico, unico rappresentante in Parlamento di una classe operaia che, come dice il regista Ken Loach, tutti hanno dimenticato, anche il cinema che pure la scoprì proprio in Italia attraverso il neo-realismo. Lei è l’unico sopravvissuto alla tragedia della Thyssen Krupp del 2007 dove persero la vita sette suoi compagni di lavoro. Su quella vicenda è calato il sipario a livello giudiziario qualche giorno fa. Giustizia è fatta, si dice. Ma di quale giustizia parliamo dal momento che solo qualche settimana fa a Carrara, nelle cave di Colonnata, una tragedia per molti aspetti simile, seppur più “contenuta” nei numero delle vittime, si è ripetuta? E’ il segnale che questo paese dal punto di vista della sicurezza non vuole trarre lezioni da fatti così gravi? Che l’indifferenza ci sta chiudendo gli occhi e anestetizzando l’anima?

“Sicuramente giustizia è stata fatta. Bisogna approcciarsi anche a cosa sia la giustizia in sé e al suo significato. Credo che debba andare al di là della sentenza Thyssen e al di là del numero degli anni che sono stati necessari per giungere alla conclusione, anche su questo si può aprire una discussione approfondita, su quanto vale la vita delle persone. Alla fine dobbiamo fare una fredda analisi degli anni e dividerla per sette morti. Credo che sotto questo punto di vista possiamo affermare che giustizia non sarà mai fatta. Il fatto stesso che non puoi riportare in vita le persone è la manifestazione di una giustizia incompiuta, al di là di quanti anni di carcere si possono infliggere agli imputati. Per una persona che in galera non c’è mai stata anche solo un mese immagino possa avere un contraccolpo pesante. Rispetto all’incidente di Carrara, che si era ripetuto in maniera analoga qualche tempo prima, sicuramente sotto alcuni aspetti la Thyssen non ha insegnato nulla. A distanza di otto anni dal faro della legge 81 molti decreti attuativi non sono ancora pronti per rendere la normativa completamente usufruibile. Allo stesso tempo mi ricordo quando ci fu la sentenza di primo grado, quando venne riconosciuto l’omicidio volontario con dolo eventuale, come accolse il mondo imprenditoriale quella sentenza, dicendo che in Italia non si sarebbe più investito. Per me quella era una grande balla a cui penso che gli imprenditori virtuosi avrebbero dovuto rispondere. Non credo che possano essersi spaventati per una sentenza. In Italia il vero problema è che abbiamo la miglior legislazione a livello europeo, questo a detta di tutti, e allo stesso tempo abbiamo anche una grande elusione delle leggi e delle regole. Mi riferisco al lavoro nero, che si sta cercando di combattere, anche con le nuova legge che tra un po’ vareremo in Parlamento. Speriamo che si possa dare un colpo decisivo al fenomeno dei rapporti irregolari. C’è un’elusione dovuta anche a un dato statistico: a causa del limitato numero di esperti a disposizione delle strutture istituzionali, un’azienda può essere controllata una volta ogni trent’anni. Se il rischio di essere scoperto è così basso, inevitabilmente riterrò più vantaggioso non rispettare le regole sulla sicurezza”.

Attraverso Facebook un signore l’ha accusata di aver rovinato, per motivi mediatici, la vita di Marco Pucci (uno dei condannati insieme all’amministratore delegato, Herald Espenhahn, Gerald Priegniz, Daniele Moroni, Giuseppe Salerno e Cosimo Cafueri), manager che, tra l’altro, con il processo ancora in corso, era stato nominato, con una scelta a dir poco inopportuna, direttore generale dell’Ilva. Non vede in atteggiamenti come questi una certa mancanza di sensibilità che arriva sino a invertire i ruoli con le vittime che vengono presentate come carnefici? 

“Non conosco personalmente Marco Pucci poiché lui operava a Terni e non ho mai avuto modo di incontrarlo. Pucci, per quanto mi riguarda, potrebbe essere anche la persona migliore del mondo, però era uno degli imputati. La scelta di nominarlo direttore generale penso sia stata, da parte dei commissari dell’Ilva di Taranto, infelice e sbagliata. Anche perché non avrebbe potuto onorare quel ruolo essendo stato condannato lo scorso venerdì pomeriggio. Quel messaggio, che mi è arrivato su Facebook, oltre a non comprenderlo lo considero un attacco gratuito. Peraltro il signore in questione è legato a una posizione politica diversa dalla mia. Anche per questo comprendo le motivazioni dell’attacco: l’uomo che ha scritto quelle cose conosce personalmente il signor Pucci e tempo fa ha pubblicato sul suo profilo una sorta di difesa del manager.  Penso che abbiano sbagliato anche gli avvocati degli imputati, nel senso che avrebbero dovuto seguire linee di difesa autonome mentre, quando hanno sentito mancare la terra sotto i loro piedi, hanno cominciato a rimpallarsi le responsabilità. All’inizio erano uniti poi, una volta fallito il tentativo di scaricare su sette operai che non ci sono più e su di me le responsabilità di quanto accaduto, hanno cominciato a rinfacciarsi le colpe”.

Le persone che perdono la vita sul posto di lavoro sono ancora troppe. Dopo la Thyssen Krupp cosa è stato fatto? E, soprattutto, cosa non è stato fatto o resta da fare? Si dice che il “rischio zero” non esista, ma almeno stiamo provando ad avvicinarci a quell’obiettivo, seppur in maniera parziale o approssimativa?

“Per troppo tempo ci si è soffermati sui dati, credendo che i numeri degli infortuni sul lavoro, sia mortali che non, stavano calando. Ho sempre ritenuto che questo calo era necessario analizzarlo nel particolare contesto in cui ci trovavamo e in cui ci troviamo. In un contesto di crisi in cui c’è tanta gente che il lavoro l’ha perso, un contesto di cassintegrati, di persone lavoratori in mobilità. Se non si lavora non c’è il rischio di infortunarsi. Nell’ultimo anno invece l’occupazione sta aumentando ed è evidente l’aumento degli infortuni. A distanza di quattro mesi dall’incidente Thyssen che mi ha visto coinvolto, è stata varata una legge attesa da trent’anni, la 81.  Il problema è che per l’intera legislatura precedente a quella attuale non si sono varati i decreti applicativi. Questa legislatura deve ancora lavorare per farlo, anche se abbiamo appena messo costituito l’Agenzia Unica per le ispezioni. Se riuscissimo a far funzionare bene questa struttura potremmo fare realmente un salto di qualità, cercando di controllare tutte le aziende, non sempre le stesse. In caso contrario la Thyssen si presenterà come un messaggio non recepito. Credo che attendere otto anni e mezzo per avere giustizia non è stato un deterrente per gli imprenditori non virtuosi, però da questo momento anche loro devono necessariamente mettersi nella condizione di porre al centro della loro attività il lavoratore anche perché non facendolo, aumentano per loro i rischi di finire in carcere in caso di incidenti. La sentenza Thyssen crea un precedente: qualcuno dovrà porsi con un atteggiamento diverso nei confronti del tema della sicurezza sul lavoro”.

Il 2015 segnala un paradosso: meno incidenti più morti. Perché?

“Non ritengo che ci siano particolari correlazioni. Sicuramente è un paradosso ma i dati spesso sono difficili da analizzare. Dentro quei numeri non ci sono i lavoratori non iscritti all’Inail, non ci sono le partite Iva, non ci sono neanche quei lavoratori che muoiono in un fondo agricolo. Mancano tutti i morti legati al sommerso, al lavoro nero. È difficile accostarsi a un tema come questo solo partendo dai numeri, soprattutto per me che conosco bene la sofferenza e il dolore delle famiglie che sono dietro quei numeri”.

Ritiene che il suo Partito e il Premier Renzi si siano sino ad ora impegnati sufficientemente sul tema del lavoro nei suoi veri aspetti?

“Potremo dare una risposta chiara e definitiva quando nel 2016 finiranno tutti gli incentivi legati alle assunzioni, previsti anche dalla Legge di Stabilità. Dal punto di vista delle agevolazioni per le assunzioni si è registrato un impulso positivo. Se, invece, guardiamo al Jobs Act, cioè alle complessive regole del gioco, sicuramente ci sono alcune lacune che vanno colmate. In commissione lavoro le abbiamo segnale fin dall’inizio. Ad esempio, i licenziamenti collettivi  rischiano di creare una disparità di trattamento tra assunti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act e assunti con il contratto a tutele crescenti. Bisogna fare un ulteriore salto di qualità. C’è stato un errore nel modo in cui al tema si è accostato il mondo del lavoro nel suo complesso, mi riferisco alle associazioni imprenditoriali e anche ai sindacati. Penso alla discussione sull’articolo 18: il dibattito è stato concentrato su quel singolo aspetto ma il Jobs Act va al di là di quel tema specifico. Sembrava uno scontro tra tifoserie: da una parte c’era chi sosteneva che l’articolo 18 valeva solo per una minoranza di lavoratori, affermazione non infondata se si parla solo di numeri; dall’altra chi sosteneva il contrario. Lo scontro su quel singolo aspetto ha fatto deviare la discussione dai temi veri: il licenziamento collettivo, i controlli a distanza. In commissione lavoro abbiamo fatto fare un salto di qualità al provvedimento e questo è stato riconosciuto anche dai sindacati. Sono stato spesso attaccato dopo il voto ma avevamo di fronte due scelte alternative: quella del Movimento 5 Stelle di rimanere fuori dall’aula e quella di chi come noi ha provato a dare un contributo per migliorare il testo. Se ti schieri per la seconda soluzione allora devi combattere sino alla fine per migliorare e migliorarsi. Io posso spiegare quel che non funziona e quel che abbiamo migliorato, non tutti sono nella mia condizione”.

Sui social è scoppiata tempo fa la polemica sul suo voto favorevole all’eliminazione dell’articolo 18.  Come si difende?

“Non credo, sinceramente, di dovermi difendere. In alcuni casi commenti e insulti non meritano risposta. Ho registrato anche una mancanza di rispetto nei confronti della UIL, sindacato a cui ero iscritto visto che alcuni hanno detto che non ci si poteva attendere un diverso comportamento da chi aveva aderito a quella organizzazione. C’è modo e modo di fare politica e di proporre alcune immagini. Alcune mie foto sono state utilizzate per sostenere che stavo votando il decreto Ilva quando in realtà non era così e si può anche controllare. Io non ho votato gli ultimi tre decreti. Ogni tanto bisognerebbe informarsi meglio prima di scrivere e parlare. Sono dovuto andare a Taranto con la scorta in seguito alle minacce ricevute: qualcuno dovrebbe compiere un esame di coscienza più severo, poi magari si tirerà il freno a mano prima di insultare”.

È stato denunciato dalla UIL l’uso e, soprattutto, l’abuso dei voucher. Non pensa che questo strumento vada abolito o, quanto meno, riportato nel suo alveo originale, quello di remunerare lavori realmente temporanei come il babysitteraggio? Non teme che i voucher, soprattutto nell’edilizia, possano essere sempre più massicciamente utilizzati per mettere “in chiaro” dopo un incidente mortale lavoratori inizialmente reclutati in nero?

Una delle mie interrogazioni parlamentari sul tema risale a molto prima della denuncia della UIL e addirittura è precedente a quella di Boeri. Già ritenevo che ci fosse un uso distorto dei voucher. I numeri dello scorso anno sono fuori dal mondo, così come lo è il trend di quest’anno. Sono dati che preoccupano. Il voucher non va abolito ma va riportato all’uso per cui è stato concepito. E bisogna, ovviamente, fermarlo come strumento per nascondere il lavoro nero, soprattutto in agricoltura. Bisogna definire meglio i confini della sua utilizzazione e approvare norme più restrittive. Attualmente, ad esempio, basta presentare il voucher nel momento in cui arriva una ispezione. Ne sono stati acquistati 115 milioni con conseguenze evidenti dal punto di vista dell’evasione fiscale. Ci sono realtà di lavorative che risultano totalmente prive di dipendenti, soprattutto nel turismo. Il motivo? Tutti i dipendenti vengono pagati con i voucher. Una signora addetta alle pulizie di un albergo in due anni ha ricevuto un solo voucher da 10 euro che al netto si riducono a 7,50. Su questo strumento ci sarebbe molto da dire ma la cancellazione sarebbe un errore perché per la retribuzione di alcune prestazioni può essere utile”.

Il lavoro come fondamento della nostra Repubblica sembra ormai relegato in un cantuccio dell’ufficio “oggetti sociali smarriti”: tassi di disoccupazione alti e di occupazione bassi, salari fermi da anni, contratti non rinnovati, diritti progressivamente negati sotto la pressione dei diktat delle istituzioni finanziarie internazionali e della delocalizzazione come corollario strumentale della globalizzazione. Negli anni Sessanta e Settanta per recuperare competitività si svalutava la lira, ora si svaluta il lavoro. Si può fermare questa tragica deriva?

“Non c’è dubbio che sono necessarie politiche che rimettano al centro del sistema il lavoratore. Correndo il rischio di non trovare occupazione, siamo disposti ad accettare qualunque tipo di condizione. Il lavoro non è più considerato come un mezzo sociale per la realizzazione delle persone ma una merce. A tutto questo bisognerebbe usare più attenzione. Bisogna porre al centro del lavoro il lavoratore. Per il raggiungimento di questo obiettivo tutti dobbiamo diventare protagonisti virtuosi: la politica, i sindacati, le associazioni degli imprenditori. Il vero salto di qualità lo realizzeremo quando  il lavoratore vedrà riconosciuta la propria dignità. Gli ammortizzatori sociali sono sicuramente utili ma un lavoratore che viene obbligato a rimanere a casa e a vivere grazie ad essi certo non si sente realizzato. Perciò dobbiamo predisporre politiche capaci di aggredire con decisione il cancro della disoccupazione. E bisogna fare in modo che le persone possano svolgere un lavoro di qualità. Allo stesso tempo credo che sia giusto che i sindacati e lavoratori abbiano la possibilità di esigere nuovi contratti perché le vacanze contrattuali ormai si protraggono per anni”.

Valentina Bombardieri

Rispondi