Democrazia dal basso

-di EDOARDO CRISAFULLI-

 

Gustavo Zagrebelsky, fine giurista, sul Fatto Quotidiano (6 marzo 2016) “spiega i 15 motivi per dire no alla riforma voluta da Renzi”. Poiché, bontà sua, ammette che “le questioni costituzionali non sono mai tecniche”, anche i profani possono dire la loro. Io, ereticamente, dico che da troppi anni ci illudiamo che la legge elettorale sia la madre di tutti i problemi (quante ne abbiamo cambiate? E con quali risultati?) Come se la legge ideale, perfetta fosse la panacea di ogni male. La bacchetta magica che spezzerà l’incantesimo, che trasformerà l’orco in un principe. Paradossalmente, se Renzi merita una critica è proprio perché anche lui, come i suoi più acerrimi nemici, si è fatto irretire da questo mito del nostro tempo.  Ma Renzi ha un punto a suo favore: almeno lui ha capito che il mondo è cambiato, irreversibilmente. La sinistra che non si adegua è finita, cotta. Ma questo argomento, per i ‘nemici’ alla sua sinistra, scivola come una goccia d’acqua sul vetro: loro dicono che Renzi è di destra proprio perché cerca di cavalcare le onde del mutamento senza farsene sommergere. Mentre suo dovere sarebbe quello di trasformare l’esistente oppure quello di opporsi tenacemente al cambiamento. 

Zagrebelsky percepisce una perdita di sovranità. In questo ha ragione. Tutti la percepiamo. Ma qual è la causa?  L’opposto di quella che crede lui: non già leader ‘autoritari’, bensì governi nazionali deboli, indecisi, timorosi in un mondo “a reti unificate”. Tutto è cambiato alla velocità della luce. Quando la moneta unica, l’Euro, era un’idea futuristica, e la globalizzazione scalpitava ai nostri confini, ma non ci aveva ancora travolti, per forza di cose i governi nazionali erano più forti: giocavano in casa e potevano decidere molte più cose. I cittadini avevano l’impressione di poter contare di più. I leader oggi sono costretti a fare i conti con realtà sovranazionali, anzitutto con le Istituzioni europee, la Banca Centrale europea ecc. Questi sono mutamenti da capogiro. Ma mica possiamo spostare indietro le lancette dell’orologio. Chi si rinchiude nel proprio guscio nazionale è un suicida.

Renzi – i fatti diranno se ha ragione o torto – pensa che un esecutivo più energico, più decisionista sia indispensabile per far sentire le ragioni dell’Italia. Possiamo dargli torto, e presentarlo come un Duce redivivo? Io credo di no. Nell’era digitale una buona decisione presa in ritardo di qualche mese diventa una pessima decisione. Si pensi all’emergenza rifugiati siriani: se siamo giunti al disastro umanitario è proprio perché la politica in Europa ha tentennato e procrastinato per tre lunghissimi anni. La storia ci insegna che c’è solo una cosa peggiore di un Parlamento eletto con una legge elettorale ‘sbagliata’: un Parlamento che imbriglia l’esecutivo, che lo fa impantanare, che gli impedisce di decidere. La democrazia o è governante o non è – questo Craxi lo aveva capito trent’anni fa. Il decisionismo è il trademark del PSI. Renzi è a suo modo il figlio delle intuizioni socialiste. Ma se lo riconoscesse, i Soloni lo impallinerebbero. Socialista (figuriamoci craxiano) equivale a opportunista e corrotto, no?

C’è un’altra grande lezione socialista, che dobbiamo a Craxi e ai dirigenti storici del PSI: facciamo sì che i partiti siano microcosmi della democrazia. Nessuna legge elettorale rende democratico per magia un partito totalitario (e infatti il PCI, partito-chiesa monolitico, era agli antipodi rispetto al PSI, partito libertario diviso in correnti), figuriamoci una società intera. Vogliamo restituire lo scettro al cittadino? Regolamentiamo per legge i partiti politici e le loro attività, come avviene in vari Paesi europei. Bisogna fissare tutte le regole del gioco democratico. I partiti, diceva Norberto Bobbio, sono corpi intermedi tra Stato/Istituzioni  e società. Sono l’ossatura di ogni democrazia liberale perché, se funzionano correttamente, impediscono al potere dello Stato di schiacciare l’individuo. Ma c’è il rischio che i partiti diventino autoreferenziali, trampolini di lancio per la carriera di ristrette oligarchie oppure comitati di affari di camarille losche. I partiti non possono cambiare natura e missione: sono comunità unite da ideali ‘partigiani’, sono fazioni politiche. Possono, talora, essere faziosi e intransigenti. Guai però se soffocano il dissenso interno e impediscono il ricambio delle classi dirigenti. Hanno il dovere di sottostare alla logica del sistema di cui fanno parte formando classi dirigenti inclini a far prevalere l’interesse generale, benché siano ‘di parte’. Se non ci fosse un costante allenamento democratico, ci sarebbe da tremare al pensiero che vinca un solo partito, o una coalizione di partiti ideologicamente affini. Ecco perché il sistema americano, che si basa sulle primarie prima delle elezioni, è uno dei più liberaldemocratici al mondo.

I partiti italiani sono associazioni prive di personalità giuridica. Sicché la magistratura può sanzionare solo la corruzione e l’abuso di potere. L’art. 49 della Costituzione si limita a dire: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Ma cosa si intende per metodo democratico? Pluralismo, libertà di opinione, persuasione in luogo di intimidazione violenta. D’accordo, e poi? Democraticità interna, ecco cosa dobbiamo promuovere. Se il gioco è anarchico e ognuno si ritaglia le proprie regole su misura, vince il più ricco o il più furbo o il più prepotente. A quel punto libertà e sovranità  popolare vanno a farsi benedire.

Le parole chiave: democrazia e trasparenza. Ovvero: primarie per il leader prima delle elezioni, “parlamentarie” per tutti i candidati a livello locale e nazionale, albo pubblico degli iscritti, regole per i congressi e le votazioni interne, obbligo di rendere pubblico il bilancio  (andrebbero dichiarati anche i ricavi dai blog o da altre iniziative promozionali sui social-media, delle quali il partito o suoi esponenti beneficiano).

Perché i Soloni sono ossessionati dalla legge elettorale, e non si pongono il problema della democraticità dei partiti con altrettanta passione e zelo? Cos’è peggio, che un partito democratico (guidato da un leader scelto mediante primarie aperte) vinca le elezioni con una legge elettorale imperfetta, oppure che un partito illiberale (il cui leader si è auto-nominato) conquisti il potere con una legge elettorale iperdemocratica?  Domanda retorica, alla luce di ciò che avvenne in Germania nel 1933. In Italia abbiamo partiti illiberali, che sono proprietà privata di chi li ha fondati, non patrimonio comune degli iscritti. A chi appartiene il logo, il marchio politico-aziendale di Forza Italia e del Movimento 5 stelle? Ebbene, proprio gli esponenti di questi partiti, fiancheggiati dai Soloni, accusano Renzi di velleità dittatoriali. In Europa, se sapessero, scoppierebbero a ridere. Berlusconi e Grillo possono cooptare ed espellere chi vogliono, possono pretendere da chi si candida nelle loro liste la firma su un contratto di fedeltà al capo, che è una sorta di schiavitù politica legalizzata (in sfregio alla Costituzione che non prevede, per il parlamentare, alcun vincolo di mandato).  Chi può pensionare o “rottamare” questi Unti del Signore? Nessuno. Non è il caso del PD: Renzi può essere esautorato dalla minoranza interna.

Il senso storico è da anni risucchiato nella centrifuga di un eterno presente. Guai a risalire più indietro di dieci anni fa, per cercare analogie: quella è preistoria. E invece io vorrei sapere da che parte stavano i Soloni quando il PCI difendeva con le unghie e con i denti la sua organizzazione leninista nota come “centralismo democratico”.  Erano, con tutta probabilità, al fianco di Berlinguer: la disciplina autoritaria di partito teneva i ladri fuori, al prezzo – sopportabile – di soffocare il libero dibattito e il dissenso. Perché per loro è preferibile un partito totalitario ma incontaminato a un partito democratico, con una vivace vita interna, soggetto a infiltrazioni malavitose. E’ meglio la potenza pura della setta che si estranea da questo mondo impuro, rispetto alla forza impura della Chiesa che scende a patti col secolo e se ne fa, a volte, corrompere. E’ questo modo di vedere le cose che ci tiene inchiodati da anni in nebulosi dibattiti ideologici e ha reso impensabile una legge sui partiti.

In Italia, questo è il nostro dramma, la cultura liberale non ha mai messo radici profonde né a destra né a sinistra. E’ prevalsa una visione organicistica di matrice cattolica e marxista: l’individuo è fagocitato da uno Stato/partito/comunità religiosa ipertrofica che insegue la stella cometa dell’etica, e quindi tende all’armonia, alla fine di ogni conflitto. Quel che conta è la superiorità morale e filosofica del progetto politico che si persegue. Non ha mai fatto breccia l’idea laica che il metodo, il tipo di organizzazione politica, la procedure sono tutte cose più importante dell’ideologia.  Né ha mai goduto di gran fortuna l’idea illuministica della positività del conflitto tra opinioni contrastanti, con il suo corollario: la necessità di pesi e contrappesi, regole e verifiche, a tutti i livelli della vita associata e politica. Siamo figli inconsapevoli della Controriforma cattolica, dell’unanimismo forzato. Anche la corruzione, da noi, è stata a lungo un concetto metafisico, con venature teologiche (i social-democratici,  i social-fascisti, inveiva Togliatti, erano corrotti dal parlamentarismo, dal putrido pensiero borghese). L’uomo non è buono come diceva Rousseau, e non è neppure cattivo: è semplicemente un animale sociale/politico che ha bisogno di limiti e regole. Nessun ideale lo trasforma in un santo impervio alle tentazioni. E infatti l’ideologia comunista  non costituiva un argine contro le ruberie: impediva quelle del singolo funzionario, certo. Ma il partito, massimo interprete della ragion di Stato e del progresso storico, incamerava miliardi in nero da uno Stato straniero, l’URSS. Il tutto in gran segreto: sovrintendeva ai flussi illeciti una ristretta oligarchia di fedelissimi – il che dimostra, ma lo abbiamo sempre saputo, che la questione morale è uno specchietto per le allodole.

Partiti infetti uguale democrazia malata. Nessuno lo può negare. Ma cosa rende il partito infetto, un misterioso virus che cala dal cielo, o non piuttosto l’assenza di democrazia interna? È ovvio che in un’economia sommersa, in nero, l’illegalità proliferi. La stessa cosa vale per i partiti: possono essere cellule staminali che rigenerano la polis democratica oppure cellule cancerose che la fanno ammalare. Che siano una cosa o l’altra dipende dal modello organizzativo adottato, non già dall’eroismo delle persone.  Ripeto quindi le parole chiave: democrazia e trasparenza. Ovvero ciò che il Movimento 5 stelle pretende dagli altri, e rifiuta per sé. Il partito in buona salute, più resistente alle infezioni, è quello in cui tutto – dalle decisioni, alle nomine, ai finanziamenti – si svolge liberamente, col consenso della maggioranza, e alla luce del sole. È vero che oggi si ruba di più perché gli ideali di un tempo sembrano evaporati. Un tempo si rubava per fare politica, oggi si fa politica per rubare. Ma i politici sono corrotti (o abusano del potere) anche perché si sentono al di sopra della legge nel loro stesso partito: gli iscritti sono troppo spesso spettatori passivi e impotenti. Questo stato di cose li demotiva, scoraggia la partecipazione. Eppure sarebbero loro i più efficaci controllori della fluidità del sistema.

La democrazia si costruisce dal basso. Il vero guardiano della democrazia è il cittadino, non il magistrato. Ogni volta che la magistratura interviene è già troppo tardi: si presume che ci sia già stata una violazione di legge. Oggi il cittadino è chiamato a confermare o revocare la fiducia ai governanti ogni cinque anni. Che succede nell’intervallo fra una elezione e l’altra? La delega cieca a chi, nei partiti, comanda. Se vogliamo pensare ai massimi sistemi, tuteliamo anzitutto coloro che animano le cellule della democrazia. Affidiamo agli iscritti poteri di controllo e di verifica. L’antidoto più potente alla perdita della sovranità e alla corruzione è nel rendere pienamente democratici i partiti politici. Quale migliore forma di prevenzione dai mali che ci affliggono?

 

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