25 aprile, la “spallata” operaia

L’articolo 1 che apre la nostra Costituzione trova la sua legittima genesi nella guerra di liberazione. All’inizio, dopo l’8 settembre, fu una lotta di pochi, di élite: non più di ottantamila italiani, per lo più giovani e giovanissimi, che andarono in montagna, inizialmente disorganizzati e che con le prime “bande” diedero inizio alle azioni contro gli invasori nazisti e i loro fiancheggiatori della repubblica di Salò. Alla fine, il 25 aprile, erano oltre duecentoventimila. Ma alle loro spalle si muovevano ampi pezzi della società che nei modi più diversi partecipavano a quella guerra che secondo un illustre storico, Claudio Pavone, ebbe tre caratteri: patriottica, cioè di liberazione del territorio nazionale; civile, cioè di scontro con quegli italiani che decisero di stare dalla parte dei nazisti; di classe, nella spinta a superare la vecchia società italiana in cui per i lavoratori c’era posto solo ai margini. E furono proprio quei lavoratori che con gli scioperi insurrezionali diedero la spallata finale. Ma furono anche quei lavoratori che difesero le fabbriche e ne impedirono la distruzione per garantire al paese un minimo di continuità produttiva a pace riconquistata. L’articolo 1 nasce proprio dalla centralità conquistata da questo nuovo soggetto sociale nel fuoco della lotta. Quello che pubblichiamo è lo stralcio di un capitolo (Il Patto di Roma) della biografia su Bruno Buozzi scritta da Antonio Maglie. Gli scioperi insurrezionali non nacquero dal caso ma vennero preceduti da una combattività operaia che esplose dopo l’8 settembre, paradossalmente proprio mentre le condizioni nelle fabbriche si facevano più dure a causa dell’occupazione nazista che puntava a piegare la classe lavoratrice con le deportazioni e le fucilazioni. Diciotto mesi tragici e straordinari.

-di ANTONIO MAGLIE-*

Il Patto di Roma è stato accusato di verticismo ma venne alimentato da una combattività in fabbrica che assunse connotati anche eroici visto che la repressione tedesca, anche su ordine di Ribbentrop divenne veramente feroce. Semmai, l’aspetto più debole del Patto è che riduceva la costruzione del sindacato unitario a un accordo fra le tre grandi correnti di pensiero politico e sindacale che si agitavano nel paese finendo per escludere realtà nuove e minoritarie. In questa maniera, il Pci riuscì a isolare alcuni gruppuscoli alla sua sinistra (come Bandiera Rossa). Ma in questo processo di emarginazione finì impigliato anche il Partito d’Azione. Il sindacato, in sostanza, rinunciò al contributo ideale di una sinistra ricca di voci, alcune in contraddizione tra di loro, ma potatrice di una robusta “religione civile”.
Il Pd’A pagò anche gli errori compiuti in occasione della nomina dei commissari, dell’accordo Piccardi – Buozzi. Rifiutandolo finì per isolarsi e per offrire ai partiti maggiori l’occasione per spingerlo sempre più nell’angolo essendo una presenza fastidiosa proprio per il fatto di presentarsi in maniera molto laica, fuori dai dogmi e dagli schematismi, erede di elaborazioni culturali piuttosto eretiche come quella liberale di Gobetti o quella socialista di Carlo Rosselli. Quando provò a recuperare il terreno perduto, Buozzi, cioè l’uomo più disponibile alla mediazione e che nella sua bozza di accordo aveva parlato di tutela delle minoranze all’interno dell’organizzazione sindacale, non c’era già più, i nazisti lo avevano ucciso un paio di mesi prima. Il Pd’A, infatti, provò nel congresso che si svolse dal 5 al 7 agosto a Cosenza a darsi una immagine più “operaista” (nonostante non avesse una grande presenza nelle fabbriche ed essendo una forza politica figlia soprattutto di circoli intellettuali), venendo da un lato meno alle sue radici culturali (che potevano contenere elementi operaisti ma attraversavano un panorama molto ampio di culture sociali) e finendo per non convincere i “colossi” che avevano firmato già il patto e che si preparavano a definire nei dettagli la struttura organizzativa. Quando Emilio Lussu chiese un incontro con Togliatti, Di Vittorio, Lizzadri e Grandi , rimediò soltanto una porta in faccia. E il motivo era semplice: la svolta operaista aveva finito per accentuare le diffidenze da un lato dei comunisti dall’altro dei democristiani. Perché, se vero e meditato, l’operaismo degli azionisti preoccupava Grandi; se tattico e strumentale, stimolava l’irritazione di Togliatti e Di Vittorio.
Sull’azione politica (gli azionisti, giocando di sponda con i bordighiani avevano provato a costruirsi uno spazio sindacale al Sud, soprattutto a Napoli nel novembre del 1943 era stata ricostruita la Camera del Lavoro ed era stato eletto un segretario) si innestavano le agitazioni che cominciavano ad avere anche dei “centri decisionali” che le indirizzavano. Nella famosa riunione del 29 settembre 1943 a casa della sorella di Lizzadri era stato anche deciso di ricostituire dei punti di riferimento nelle fabbriche, i Comitati di agitazione che riproponevano, dal punto di vista delle rappresentanze, esattamente le linee unitarie che si stavano definendo nel Patto.
L’insurrezione non era una prospettiva lontana, perciò andava costruita coinvolgendo i lavoratori. I quali si sentivano ormai pronti a sfidare gli invasori. La creazione della Repubblica sociale (l’aggettivo veniva usato proprio per provare a recuperare consensi fra i lavoratori) venne accolto dagli scioperi che scattarono tra novembre e dicembre del 1943. Cominciò la Breda, il 2 novembre a Milano, poi si fermò la Fiat il 18 novembre. Gli industriali concessero immediatamente gli aumenti salariali ma gli operai fecero sapere che volevano anche trattamenti migliori sul fronte degli approvvigionamenti alimentari. Il fatto che le rappresentanze trattassero direttamente con i tedeschi provocò non pochi mal di pancia nei Cln con comunisti e azionisti che premevano sull’acceleratore della vertenza e gli altri partiti che invitavano a non precipitare la situazione, ad attendere situazioni più favorevoli. Alla Fiat ci fu una terza fase di scioperi tra il 18 novembre e il 22 poi il generale delle SS, Otto Zimmermann, decise di risolvere sbrigativamente la questione puntando le mitragliatrici sui lavoratori renitenti. Che, comunque, a livello rivendicativo ottennero piena soddisfazione.

Il 1 dicembre partirono gli scioperi a Milano, soprattutto a Sesto San Giovanni. Fabbriche ferme per quattro giorni poi cominciarono gli arresti. Infine esplose Genova dove la situazione divenne subito drammatica anche per l’intervento di Ribbentrop che diede questo semplice ordine all’ambasciatore in Italia: «Sono d’accordo che voi portiate gli scioperanti davanti alle corti marziali e arrestiate qua e là, per dare un esempio, un migliaio di persone, inviandole come internati militari in Germania. Il Fuehrer vi dà poteri per arrestare i caporioni e fucilarli subito come comunisti». Detto fatto: tre operai vennero arrestati e fucilati. Ciononostante, lo sciopero a Genova continuò, per gran parte di gennaio sino alla svolta drammatica, l’ultimatum prefettizio di Carlo Emanuele Basile: «Operai e impiegati, sta in voi salvare la possibilità di vita vostre e delle vostre famiglie. Sciopero è sabotaggio. Se domani 14 gennaio alle ore 10 non riprenderete il lavoro, i vostri stabilimenti saranno chiusi a tempo indeterminato». Il 14 gennaio l’ultimatum venne replicato e poi arrivarono le fucilazioni: sette operai.
Quelle agitazioni avevano spiegato con grande chiarezza a Mussolini (e ai suoi “alleati” nazisti) che il suo tentativo di recupero fra le masse popolari del Nord era destinato all’insuccesso. C’è un elemento di cronaca che Sergio Turone segnala nella sua storia: alla Innocenti, i fascisti provarono a eleggere le nuove rappresentanze aziendali. Risultato: 297 votanti su cinquemila operai; 180 schede bianche, 103 con richieste di aumenti salariali o di insulti, in quattordici appena diedero il loro consenso alla commissione “repubblichina”. Il primo grande sciopero “coordinato” cominciò, invece, il 1 marzo. E, nonostante la repressione, nelle fabbriche torinesi si fermarono 70 mila operai, 150 mila in tutto il Piemonte, un milione nell’Italia occupata. Milano venne bloccata dai tramvieri (i casciavit), un atto di coraggio pagato con la deportazione di sessanta lavoratori, trentotto dei quali morirono in Germania nei campi di concentramento. Ma l’adesione fu ugualmente massiccia. E la repressione durissima, confermata dall’arresto, il 13 aprile, di Bruno Buozzi e da quello del futuro segretario della Cisl, Giulio Pastore che finì a Regina Coeli. Proprio per evitare rischi inutili, l’8 marzo il comitato di agitazione invitò gli operai delle regioni del triangolo industriale a tornare nelle fabbriche: «I comitati segreti di agitazione che vi hanno chiamato allo sciopero, vi chiamano ora alla preparazione di questa lotta decisiva. Essi vi dicono: Rientrate nelle officine, negli uffici; riprendente il lavoro, ma rientrate non per capitolare di fronte alla prepotenza avversaria, ma per prepararci a rispondere alla forza con la forza». Una tregua per alzare il livello della lotta, interrotta solo dai braccianti, soprattutto della Bassa bolognese, che a maggio bloccarono le operazioni di trebbiatura al grido: «Niente grano per i tedeschi».
Vale la pena, su questa ripresa della combattività operaia, aprire una parentesi relativamente al rapporto tra occupazione nazista e lavoro. È d’aiuto l’analisi di Gian Enrico Rusconi il quale ha parlato di «guerra di sfruttamento umano e socio-economico», sottolineando come «dopo l’8 settembre i tedeschi si trovano in Italia a dover combattere… la guerra multipla.. Se è prioritaria per essi la guerra guerreggiata contro gli alleati anglo-americani, non meno pressante e impegnativa è la lotta per sfruttare in modo ottimale le risorse materiali e di lavoro degli italiani direttamente sul suolo nazionale o con il trasferimento di uomini in Germania… Questa strategia porta all’occupante risultati positivi: si calcola che i lavoratori italiani volontari e/o forzati tocchino dopo il settembre 1943 le 140.000 unità, da aggiungere ai 100.000 già presenti sul territorio del Reich. Ad essi vanno aggiunti i militari internati in Germania, 600.000 circa, usati come mano d’opera in condizioni praticamente di schiavitù». Quegli scioperi furono un segnale forte, ma soprattutto un segnale. Perché da un punto di vista pratico, i nazisti riuscirono ad attutirne le conseguenze. Lo evidenzia ancora Rusconi parlando di una strategia repressiva (come dimostrano gli arresti di Buozzi e Pastore, le deportazioni, le fucilazioni) “mitigata”, per quanto la parola possa apparire paradossale. Spiegava lo storico come in questa maniera i tedeschi riescano «senza gravi danni a superare i grandi scioperi del marzo 1944. Rahn (Rudolf, era il plenipotenziario in Italia, n.d.a.), infatti, anziché applicare la massiccia rappresaglia anti-operaia (arresto e deportazione del 20% delle maestranze) che – a parte la sua difficile praticabilità – avrebbe paralizzato la già ridotta produzione industriale, adotta una tattica relativamente più “morbida”… Così Rahn potrà dire che a Torino, a Milano, a Genova si continua a lavorare per la Germania nonostante gli alleati siano sbarcati nella vicina Francia meridionale».
I lavoratori, comunque, rientrarono disciplinatamente in fabbrica e questo convinse i leader sindacali che il loro seguito sui luoghi di lavoro era forte, che il ricordo della vecchia e libera CGdL non era stato cancellato dal ventennio.

* Stralci dal libro di Antonio Maglie: “Bruno Buozzi il padre del sindacato”, Edizioni Fondazione Buozzi, 2014

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