Ora salviamo il referendum

-di ANTONIO MAGLIE-

 Chi scrive fa parte di quello sparuto gruppo (15.806.788) di italiani che hanno impedito, a parere di Matteo Renzi, l’acquisto di 350 carrozze ferroviarie da destinare al trasporto dei pendolari, partecipando al referendum sulle trivelle e agevolando così la dissipazione di trecento milioni di soldi della collettività. La cosa, ovviamente, dispiace e obbliga a scuse pubbliche. Ma visto che il presidente del Consiglio è così ferrato in matematica, allora sarebbe opportuno che si cimentasse su un’altra stima spiegandoci, semmai alla fine dell’inchiesta lucana che qualche problema al suo governo ha creato, quante carrozze si potrebbero acquistare impedendo alle consorterie fameliche di spadroneggiare in Italia bruciando sessanta miliardi (esentasse) di euro ogni anno.

Bisogna riconoscere che in questi giorni di polemiche sono accadute cose piuttosto singolari, a cominciare dal capo di un esecutivo che, spalleggiato da un ex presidente della Repubblica, ha invitato i suoi concittadini a rinunciare a un diritto, quello di voto. Con buona pace di John F. Kennedy, siamo veramente in presenza di una “nuova frontiera”. Pensate quanti problemi il governo risolverebbe seguendo la strada intrapresa con le trivelle. Potrebbe, ad esempio, convincerci a rinunciare al diritto al lavoro: aboliremmo la disoccupazione; o alla salute, azzereremmo i costi e le ruberie della sanità e ridurremmo drasticamente le attese nelle strutture pubbliche per ottenere un esame diagnostico; o allo studio, di colpo saneremmo l’evasione scolastica e l’abbandono universitario; o quello a una vecchiaia senza affanni economici, Tito Boeri potrebbe agevolmente mettere in sicurezza i conti dell’Inps; alla fine, potremmo rinunciare anche al diritto ad essere politicamente rappresentati risparmiandoci così parlamentari come Ernesto Carbone che irridono con “ciaone” la sparuta minoranza di cui sopra (con successive pietose e pelose correzioni di rotta) o ministri come Maria Elena Boschi che con sprezzo del pericolo twittano “questo governo è più forte dei sondaggi, dei talk e delle polemiche”.

Ma passando dal faceto (ma non troppo) al serio, quest’ultimo referendum obbliga tutti noi (a cominciare dalla classe politica sulla cui sensibilità istituzionale è lecito sollevare più di un dubbio) a porci qualche interrogativo sul futuro di uno strumento di democrazia diretta che per questa via rischia il deperimento, tra quesiti che probabilmente non si prestano a una valutazione popolare (nel senso anche della diffusione sociale e geografica del problema) e sfruttamento intensivo di scorciatoie che, Boschi e Carbone permettendo, hanno veramente poco a che spartire con il rispetto di corrette forme di democrazia. Il dilemma non è di poco conto. Venerdì scorso, 15 aprile, la Fondazione Nenni ha tenuto, in collaborazione con la Fondazione Besso nei cui saloni si è svolto l’incontro, un dibattito sul progetto di revisione costituzionale nell’ambito della presentazione della rivista, “L’articolo1”. In quella sede, il professor Antonio Agosta, docente all’università RomaTre, noto politologo, grande esperto di meccanismi elettorali e sistemi politici, ha lanciato un’idea per provare a salvare il referendum da sabbie mobili che potrebbero decretarne la morte.

La questione è sempre il “quorum”. Si tratta di coniugare esigenze diverse per garantire un uso corretto di questo istituto, evitando da un lato che si trasformi sempre di più in una sorta di grande sondaggio privo di conseguenze pratiche (come è stato quello sulle “trivelle” e i tanti altri che lo hanno preceduto) e dall’altro che l’uso massiccio e per molti aspetti spregiudicato di un astensionismo sempre più vasto e cronico acceleri i processi di delegittimazione politica e di diserzione elettorale. La proposta di Agosta è semplice. Fermo restando il limite del “cinquanta per cento più un elettore”, la consultazione potrebbe essere comunque valida qualora nell’urna un quarto del corpo elettorale manifestasse il suo consenso al “quesito”. Una maniera per rimettere i due fronti sullo stesso piano, obbligando quello contrario a conquistarsi il successo in una campagna elettorale giocata a viso aperto e non attraverso “l’intestazione” di un astensionismo che essendo cronico prescinde dal consenso o dal dissenso nei confronti della specifica materia oggetto del contendere. Un modo per stimolare la partecipazione non l’abbandono e la diserzione. La facoltà di “non votare” resterebbe ma verrebbe esaltato, al contrario, il diritto al voto.

Per capirci, utilizziamo i dati di quest’ultimo referendum. Gli elettori erano 50.675.406; i votanti sono stati 15.806.788, il 31,19 per cento; hanno detto“sì” in 13.334.764 (85,84) ; i “no”, invece, sono stati 2.198.802 (14,16). Messo così il verdetto non sembra lasciar adito a dubbi. Ma se lo analizziamo al netto dell’astensionismo cronico e crescente, la situazione cambia e lo stesso Renzi ha pochi motivi per festeggiare il risultato (“Il governo non si annovera nella categoria dei vincitori ma crede che i vincitori siano gli operai e gli ingegneri che domani torneranno alle loro piattaforme sapendo di aver conservato il posto di lavoro”). Quegli oltre tredici milioni di “sì” sono oltre il venticinque per cento del corpo elettorale e, per una questione semplicemente numerica, sono più rappresentativi dei poco più di otto milioni e mezzo di voti ottenuti dal Pd alle ultime elezioni (cioè poco più del 18 per cento del corpo elettorale di allora composto da 46 milioni 905 mila 154 italiani; un consenso che si trasformava nel 25,43 per cento dei voti validi). In pratica, Renzi (per vie comunque traverse) è stato spinto a palazzo Chigi da meno del venti per cento degli italiani maggiorenni. Nel 2013 alle urne si presentarono in 35.270.926 con un astensionismo che si attestò a poco meno del venticinque per cento, punta massima di un trend in costante crescita (poco meno del 20 per cento nel 2008, poco più del 16 nel 2006, quasi il 19 nel 2001). E’ evidente che nel momento in cui in un referendum fai campagna per l’astensione, parti già da una rendita di posizione di dodici, tredici milioni di “disertori delle urne”, gente che a votare non ci andrà comunque, che si tratti di decidere di trivelle o di utilizzare in cucina solo la pasta integrale.

In Emilia Romagna, due anni fa, votò il 37,71 per cento, una percentuale non troppo lontana dal 31,19 della consultazione di domenica. Eppure, il presidente del consiglio che oggi si smarca da “una classe dirigente… autoreferenziale”, che vive “su Twitter, su Facebook”, commentava l’elezione a governatore di Stefano Bonaccini (guarda un po’ il caso, su Twitter) in questo modo: “Vittoria netta, bravissimi”. E più tardi da Vienna dove era in missione politico-diplomatica aggiungeva: “La non grande affluenza è un elemento che deve preoccupare ma è secondario” (24 novembre 2014). In questa stagione “riformistica”, il premier ha elaborato una legge elettorale (Italicum) che trasformerà ampie minoranze in robuste maggioranze. Se nel 2013 fosse stato in vigore il meccanismo messo a punto dal duo Renzi-Boschi, al ballottaggio sarebbero andate due liste (ammesso e non concesso che si fosse arrivati alla loro costituzione) rappresentative, a testa, del venti per cento del corpo elettorale (o poco più): 10.049.393 la sinistra; 9.923.600 la destra. Ma poi, nell’urna finale, avrebbero conquistato poco meno del cinquantacinque per cento dei seggi della Camera (340 su 630): la moltiplicazione dei pani e dei pesci in chiave elettorale. Bisogna, allora, essere un po’ più prudenti e valutare il gioco democratico del confronto tra maggioranza e minoranza in maniera “sana”. Renzi non ha motivo per festeggiare, come non ce l’aveva ai tempi dell’elezione di Bonaccini. Ha vinto sulle “trivelle” giocandosi quella che un tempo era di riserva e che oggi, in tempi di preoccupante rifiuto della politica, è ormai principale. Ma questa deriva non porta verso una nuova frontiera. A meno che non si consideri tale l’abrogazione della democrazia.

antoniomaglie

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