La realtà virtuale di Casaleggio

-di ANTONIO MAGLIE-

 

            La scomparsa di Gianroberto Casaleggio induce inevitabilmente a porsi delle domande sul significato e le conseguenze della sua azione politica. Nessuno può dubitare che sia stato un personaggio di gran talento. Nonostante la sua tendenza all’ostentata discrezione (che può anche apparire un un vezzo in chi sa di aver scelto un terreno di azione in cui l’esposizione al pubblico non è semplicemente inevitabile, ma necessaria), era un “grande affabulatore” nel senso che è riuscito a narrarci una storia che ha i contenuti di una favola: la democrazia diretta “che vedrà l’eliminazione di tutte le barriere tra cittadino e stato” (dall’intervista al Guardian); l’idea che di fatto nelle assemblee elettive debbano finire per sedersi nella sostanza gli elettori perché “gli eletti devono comportarsi da portavoce” con il compito di “sviluppare il programma elettorale e mantenere gli impegni presi con chi li ha votati” (dall’intervista al Corriere della Sera del 2013); alla prospettiva di poter in qualsiasi momento sostituire l’eletto “infedele” o inefficiente perché “ogni collegio dovrebbe essere in grado di sfiduciare e quindi far dimettere i parlamentari” (dal Corriere della Sera del 2013); al totale controllo dei comportamenti dei parlamentari attraverso l’introduzione del vincolo di mandato; alla qualificazione della sua creatura come Movimento (pur non avendo nulla dei veri movimenti che sono anti-gerarchici per definizione e in buona misura anarchici) per segnare un distacco profondo dal sistema e poter alla fine affermare: “Al governo prima che i partiti distruggano tutto” (dal comizio a Imola dello scorso ottobre).

            La realtà di Casaleggio non era virtuale solo per il mezzo, il web: era virtuale perché le parole affascinanti coprivano situazioni concrete molto meno fascinose. Già la sua interpretazione della Rete come “anticapitalista e francescana” era il prodotto di una manipolazione. La Rete non è né francescana né anticapitalista: la modernità tecnologica non è mai neutra, non è mai, in partenza, a favore o contro. A determinare il “segno” finale sono i rapporti di forza economici. E la realtà vera, non virtuale, è che quel neo-liberismo che ha profondamente accentuato le diseguaglianze, ha stretto una solida alleanza proprio con il web ottenendo straordinari vantaggi soprattutto a livello finanziario. La rapidità di un gesto (il “clic”)  ha semplificato e velocizzato i giochi speculativi consegnando uno strumento pratico ed efficacissimo a coloro che puntavano “a far soldi con i soldi” spostando capitali da un capo all’altro del mondo in una frazione di secondo; ha creato posti di lavoro ma distrutto interi settori lavorativi; assecondato la globalizzazione attraverso processi selvaggi di delocalizzazione basati interamente sulla svalorizzazione di chi presta la propria opera e sulla compressione dei salari.

            Se poi dal discorso generale passiamo al particolare, allora del “francescanesimo” elettronico non sopravvive proprio nulla. Google, Facebook, Twitter, Amazon, Alibaba sono aziende globali che hanno arricchito i propri fondatori nonostante l’immagine “new age” che alcuni di loro cercano ancora di proiettare all’esterno per vendere meglio il “prodotto”, in qualche misura sé stessi. Ed è l’operazione che in piccolo (molto in piccolo) ha fatto Casaleggio al quale, evidentemente, la realtà vera non sfuggiva preferendo, perciò, pubblicizzarne una virtuale.

            Per anni lui e Grillo hanno puntato il dito contro i giornali sostenendo la tesi che attraverso la Rete la “mediazione” sarebbe stata eliminata a tutto vantaggio della “verità” che sarebbe arrivata direttamente nelle case attraverso un monitor. Bisognava, evidentemente, “spingere” un prodotto nuovo, spostare il mercato dall’informazione cartacea a quella elettronica che libera di saltellare da un dispositivo a un altro avrebbe evitato a tutti noi di essere condizionati dai modi parziali in cui il “mediatore”, il giornalista, raccontava la notizia. Ma se l’acquisto di un giornale corrisponde a una scelta consapevole, anche di campo politico, e il gioco della “mediazione” è scoperto, nel grande universo cibernetico tutto diventa più sfumato, quasi subliminale. Il trucco c’è ma non si vede: un gioco magico in cui i mediatori esistono e sono ancora più forti e invasivi, ma scompaiono alla nostra vista come le vallette che vengono infilate in scatoloni trapassati poi con spade che fanno temere il peggio. Casaleggio sapeva così bene tutto questo che era considerato, nella costruzione dei blog, una sorta di funambolo del Click Baiting. Definizione moderna di un gioco antico, nato molto prima della informazione via web. In sostanza, per moltiplicare i “clic” si gioca sull’esasperazione dei titoli e delle notizie. In fondo, lo faceva in televisione già agli inizi degli anni Ottanta, Aldo Biscardi, solo che lui li chiamava in maniera più casareccia: “sgub”.

            Per capire quanto sia poco asettica l’informazione elettronica, quanto il gioco della mediazione sia pesante anche in quell’universo, vale la pena rileggere alcune analisi di un politologo bielorusso, grande esperto della fenomenologia del web, Evgeny Morozov: “Progetti come Wikipedia, Google e Facebook ci hanno insegnato – e anche condizionato – a pensare che funzionino in modo oggettivo, neutrale e del tutto evidente. Ovviamente non è vero: nel caso di un progetto come Wikipedia, sono molto poche le persone – tra di loro c’è il fondatore Jimmy Wales – che capiscono come funziona davvero. Nessuno conosce tutte le regole che innescano il meccanismo Wikipedia: ce ne sono troppe. Lo stesso per Google: non sappiamo come funzionano i suoi algoritmi e loro hanno resistito a ogni sforzo di renderli esaminabili… Un altro esempio? Twitter. Tutti pensano che sia una piattaforma che permette a chiunque, dalla sua camera da letto, di essere altrettanto influente di un commentatore di grido a proposito del futuro della Rete. Ma anche questo è un mito: la maggior parte dei commentatori di grido della Rete che si dicono ottimisti sul suo futuro compaiono nella lista di chi “va seguito” – compilate dalla stessa azienda Twitter e che gli permettono di acquisire molti più follower di tutti noi… Molte delle piattaforme online usate per l’impegno politico funzionano più o meno come scatole nere che nessuno può aprire e scrutare. La gente ha l’illusione di partecipare al processo politico senza avere mai la piena certezza che le proprie azioni contano”. Che è poi quello che sembra avvenire all’interno del Movimento 5 stelle.

            E qui entra in ballo l’altra illusione venduta come realtà: “uno vale uno”. I fatti hanno dimostrato che non è così. Al contrario, la struttura del partito di Casaleggio, pardon del Movimento, è fortemente gerarchica: al vertice, il Guru scomparso e il suo “doppio”, Grillo; l’uomo che pensava e quello che riempie le piazze. E sono proprio quelle piazze che dimostrano quanto il web, alla resa dei conti, abbia inciso in misura contenuta sui successi del partito. Morozov lo ha sottolineato appena dopo le ultime elezioni politiche: “Sarei cauto nell’attribuire un ruolo eccessivo alla cultura di internet… Perché in Italia e perché adesso ha a che fare con i problemi strutturali della politica italiana… Grillo e i suoi luogotenenti non vogliono essere visti come un partito marginale con programmi ambigui: i paragoni storici, purtroppo, non giocano in loro favore e incuterebbero paura. Così preferiscono giocare la carta di internet e pretendere di essere solo la naturale e inevitabile conseguenza dell’era di internet”.

            In sostanza la realizzazione di quell’incubo trasformato in video da Casaleggio il quale, poi, ha negato che Gaia rappresentasse il “programma politico” del Movimento. Una prospettiva, d’altro canto, a dir poco claustrofobica e apocalittica, con una guerra che va avanti dal 2020 al 2054 (un secolo esatto dalla nascita del Guru del Movimento) e che si conclude con l’elezione attraverso la rete di un premier mondiale. Eppure, non poche delle “visioni” contenute in quel video si sono trasformate in pratiche indicazioni di Casaleggio. Con la conseguenza di una preoccupante prospettiva democratica, la stessa che emerge da un ossimoro caro a Grillo: “Voglio la dittatura della democrazia”. Perché alcune delle proposte “istituzionali” del fondatore del Movimento scomparso nella notte tra lunedì e martedì presentano aspetti oscuri che possono aprire la strada a interpretazioni e realizzazioni autoritarie. Che significa vincolo di mandato? Evidente: si risponde al partito o a chi comanda nel partito (lui diceva agli elettori ma anche qui trasformava la realtà vera in virtuale come hanno dimostrato molte delle espulsioni da lui decise). Se dobbiamo (come è giusto che sia) interpretare i concetti politici sulla base di quel che avviene concretamente tra i pentastellati dove non c’è chiarezza, non c’è trasparenza nella costruzione delle posizioni politiche (anche nell’ultimo disegno di legge presentato per disciplinare la vita dei partiti si parla molto di soldi, di “scontrini”, ma non di statuti, di congressi, di dibattiti, di forme per garantire la libertà e la partecipazione democratica) e dove chi è in odore di eresia viene “cacciato” con un semplice e opaco clic, allora non si può certo essere ottimisti. L’abolizione del vincolo di mandato è un principio che nasce con le moderne democrazie e serve per mettere gli eletti al riparo dei condizionamenti delle lobbies. Ma Casaleggio la pensava diversamente.

            La stessa idea di un eletto semplice portavoce degli elettori stride con la necessaria elasticità che bisogna garantire a chiunque venga investito del compito di lavorare per il bene comune, perché il bene comune è fatto anche di mediazioni (purché non siano accordi sottobanco o voti di scambio), di composizione di interessi diversi (almeno nelle comunità che conosciamo e non in quella planetaria di Gaia). La prospettiva di sfiduciare nel collegio il parlamentare, poi, appare una ipotesi irrealistica perché da un lato renderebbe debolissimo l’eletto e dall’altro alimenterebbe una situazione di perenne confusione.

            Ai suoi “eredi”, Casaleggio lascia un Movimento elettoralmente molto forte, che è stato capace di sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda  della rabbia dell’opinione pubblica, della delusione di un elettorato che aveva scommesso sulla seconda Repubblica per scoprire, poi, che sotto alcuni aspetti è anche peggiore della prima. Da questo punto di vista non possono che essergli profondamente grati. Ma il Guru lascia anche un partito (perché, sia chiaro, di questo si tratta e non di altro) privo di una visione politica organica, alimentato con i risentimenti popolari ma privo di un solido bagaglio ideale, valoriale. Un movimento post-ideologico, è stato detto. Ma le cose non stanno propriamente così. E per rendersene conto forse bisogna leggere un po’ meglio la biografia di Casaleggio. Apprezzava i repubblicani e Berlinguer, si è candidato a Settimo Torinese con una lista civica ispirata da Forza Italia, ha lavorato per un po’ di tempo con Antonio Di Pietro. Con Casaleggio siamo entrati non tanto nel campo del post-ideologismo ma in quello della trasversalità ideologica. La trasversalità nelle proposte e nelle scelte, però, spesso si trasforma in opportunismo, populismo e qualunquismo: qualche proposta sociale per lisciare il pelo dell’elettorato di sinistra deluso e lo sguardo allarmato sui fenomeni migratori per non sguarnire il fianco destro; le dichiarazioni di principio sul fronte dei diritti civili ma anche la proclamazione della libertà di coscienza per non smarrire qualche pecorella dell’ovile ultra-cattolico affascinata dai messaggi del Movimento. Nessuno può negare che Casaleggio abbia costruito un vero e proprio miracolo politico. Ma sono numerosi i motivi per dubitare che alla fine uscirà miracolata anche l’Italia.

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