Cara Fornero, ci ascolti ora

– di Antonio Maglie-

Sabato 2 aprile i sindacati sono scesi in piazza per chiedere la riforma delle pensioni o, meglio, la flessibilità per l’accesso al trattamento di quiescenza per superare la legge della ministra Elsa Fornero che in una notte e con un tratto di penna allontanò il traguardo di sei, sette anni. Ieri la Professoressa si è abbandonata a una chiacchierata che “la Repubblica” ha pubblicato con grande evidenza. Intervista molto bella e motivazioni più che condivisibili: si può non essere d’accordo con quella legge (non sembra esserlo nemmeno il presidente dell’Inps, Tito Boeri, non solo Cgil, Cisl e Uil) ma non si può scadere negli insulti e nelle minacce. Insomma, il metodo “Salvini-Grillo” non è propriamente degno di paesi civili né di democrazie mature o, come scrive Haim Burstin in un saggio sulla rivoluzione francese, “stanche e segnate dall’apatia e dalla ripetitività”. Ma non è certo con l’invito alle vie di fatto o l’augurio di malattie terribili che si ripristina quella sorta di “ivresse de la liberté” che caratterizzò quegli anni ormai molto lontani in cui una nuova classe, quella che sarebbe stata chiamata borghesia, scopriva il piacere della partecipazione.

La Fornero ha ragione nel momento in cui sostiene che la battaglia politica si dovrebbe svolgere su un altro piano: quello dei ragionamenti, della pubblica misurazione della fondatezza delle diverse ragioni, anche della spiegazione. Lei garantisce di essere pronta a spiegare e si dice convinta di poter convincere tutti della validità della sua riforma. Ma, con pacatezza, è anche giusto farle notare che la pazienza pedagogica è cosa bella e buona, ma nel caso della sua legge sulle pensioni (e anche di altri provvedimenti adottati dal governo presieduto da Mario Monti) è mancato un elemento essenziale della corretta dinamica democratica: il confronto preventivo sui problemi, la valutazione preventiva dei contraccolpi sociali, l’esame preventivo dei costi umani che un intervento su una materia così delicata avrebbe prodotto.

Nessuno mette in dubbio la buona fede della Professoressa, ma forse lei per prima dovrebbe ricordare quali furono le sue risposte quando cominciò a emergere il caso degli esodati, i falliti tentativi per ridimensionare la questione da un punto di vista numerico. Ma quella non era una questione solo di numeri. Avrebbero potuto essere anche insignificanti, ma l’eventuale insignificanza quantitativa avrebbe comunque contenuto un significato umano profondo e drammatico. Perché alcune persone (centinaia di migliaia, in realtà) erano state “invitate” dalle aziende a farsi da parte potendo contare su meccanismi che a breve (vista l’età che non consentiva l’accesso a una nuova occupazione in un Paese che non ama i giovani e nemmeno i cinquantenni e i sessantenni) avrebbe dato loro il conforto di una pensione, sebbene decurtata. Quelle persone, dopo la famosa sera delle lacrime in diretta televisiva, piansero, invece, nei giorni successivi, nelle settimane successive e nei mesi successivi, molto più della ministra che davanti alle telecamere era stata piegata dalla tensione del momento. Nei confronti di quelle persone che hanno visto molto da vicino lo spettro di lunghi anni senza il conforto di un reddito, le spiegazioni della Professoressa potranno anche essere esaurienti ma non risulteranno mai convincenti.

Quelle spiegazioni non convinceranno nemmeno i tanti che quel giorno si svegliarono avendo il traguardo della pensione non più lontano di quattro anni e che, al contrario, si addormentarono la sera avendo visto sempre lo stesso traguardo allontanarsi di undici anni. La signora dice che la vita si è allungata e che la gente vuole lavorare. E’ vero. Ma lo vada a spiegare a tutti quei lavoratori già anziani che, nel pieno della crisi, all’improvviso sono stati messi davanti a questa alternativa: o la disoccupazione (passando per la cassa integrazione) o la pensione. Perché, cara Signora, in tanti avrebbero voluto ancora lavorare ma non hanno potuto farlo perché altri hanno deciso per loro. Ha ragione l’ex ministra a lamentarsi della superficialità dei messaggi mediatici. Ma dovrebbe criticare questa superficialità anche quando finisce per occultare le responsabilità della sua riforma. Periodicamente l’Istat comunica i dati sull’occupazione e puntualmente emerge che gli anziani al lavoro sono sempre di più mentre i giovani al lavoro sono sempre meno. Messo così il messaggio è semplice: i giovani sono vittime dell’egoismo degli anziani. Bisognerebbe, allora spiegare che gli anziani al lavoro sono sempre di più perché è stata varata una riforma che dalla sera alla mattina ha obbligato persone che di lì a un paio d’anni sarebbero andate in pensione, a rimanervi ben oltre il limite iniziale.

Sono questioni che in un sistema democratico correttamente funzionante sarebbero state vagliate a priori e non semplicemente commentate a posteriori. Ancora una volta dalle parole dell’ex ministra emerge una visione fredda, distaccata della realtà sociale. Ma la vita non si svolge in un’aula universitaria dove uno (il docente) va in cattedra e gli altri (gli studenti) ascoltano (alcuni in adorazione, altri con una certa disattenzione) le “verità” che vengono riversate su di loro dall’alto di una conoscenza puramente teorica dei fenomeni. E’ questo atteggiamento algido, tecnocratico, burocratico che ha fatto precipitare Monti e il suo governo (e l’istituzione europea nel suo complesso) nella considerazione degli italiani: altissima all’esordio, bassissima all’addio. Cara Signora, noi crediamo nel confronto e siamo disponibili ad ascoltarla. Ma per cortesia: niente lezioni, niente cattedre, niente dogmi accademici. E, soprattutto, faccia adesso quel che non fece allora: ascolti.

antoniomaglie

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