L’uccisione di Giovanni Gentile -2-

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-EDOARDO CRISAFULLI-

 

Cosa intendo per valutazione storica equilibrata sul caso Gentile? Anzitutto trovo scorretto estrapolare un episodio, ancorché eclatante, dalla guerra civile che oppose fascisti e antifascisti – un giudizio sull’uccisione di Gentile, volenti o nolenti, implica un giudizio sia pure indiretto sulla Resistenza. Mi par difficile negare che Gentile, al punto cui si era giunti nel 1944, fosse un obiettivo naturale, logico. Forse anche legittimo. Ma questa affermazione non implica forse assolvere i mandanti ed esecutori del delitto? E io non mi ero detto contrario all’omicidio? La contraddizione – se ragionamo in termini storici anziché politici (o morali) – è più apparente che reale. Tutti i fatti di sangue di quel periodo vanno calati in un dramma storico dominato da una concatenazione di azioni e reazioni violente. In un contesto del genere, gli uomini conservano solo in parte il loro libero arbitrio: più sovente sono in balia di eventi che li sovrastano. Anche una valanga comincia spesso con una palla di neve gettata a valle. E, a quel punto, è difficile risalire alle responsabilità. È da ingenui, insomma, immaginare che le cose sarebbero potuto andare molto diversamente nel biennio caldo 1943-45. Certo: Gentile si sarebbe potuto salvare, ma molti altri italiani sarebbero morti lo stesso. Forse, mettendola così, saremo costretti a credere, più di quanto non vorremmo, nella “scemenza del mondo” e nella “inanità della cosiddetta storia”, per dirla con Gadda. Come che sia, non possiamo oggi – nel tepore delle nostre case, in un clima di democrazia liberale – ridurre a ordine e a ragionevolezza il caos e la brutale irrazionalità che fanno da sfondo alle guerre civili. Anch’io, come tanti, avrei voluto una Resistenza più pulita, più umana, senza carneficine. Ma non sono così ingenuo da pensare che esistano guerre, per quanto giuste, senza vittime innocenti.

E Gentile, se vogliamo dirla tutta, non era quel che si dice comunemente una vittima innocente, benché non fosse neppure un carnefice. Non esaltiamo, allora, quella uccisione – come fece Togliatti con parole dure e fredde come il marmo: i partigiani, disse il Migliore, hanno giustiziato una “canaglia”, un “traditore della patria”, “un bandito politico”; “chi tradisce la patria impegnata in una lotta a morte contro l’invasore straniero, chi tradisce la stessa civiltà umana ponendosi al servizio della barbarie, deve pagare con la vita!” Ma neppure trasformiamo Gentile in un martire. Giacché martyrem non facit poena, sed causa. Consideriamola per quella che fu: una morte annunciata, inscritta nell’ordine delle cose. Nel suo caso – questa è la posizione più sfumata e umana del socialista Paolo Treves – agì “quella nemesi che vola più alto, e raggiunge chi tradisce la propria missione. Perché Giovanni Gentile non era il volgare fascista assassino… era un filosofo”.

Il fascismo raccolse l’odio che aveva seminato a piene mani in vent’anni di persecuzioni e di oppressione – odio esacerbato da un’assurda guerra di aggressione e conquista a cui eravamo del tutto impreparati. Mi è sempre parso assurdamente snobistico l’atteggiamento di chi si scandalizza perché un filosofo veniva trucidato quando, in quegli anni, migliaia di giovani – o perché renitenti alla leva, o perché disertori, o perché antifascisti, o perché fiancheggiatori di partigiani, o perché ebrei – finivano al muro senza che nessuno battesse ciglio. La vita di un contadino analfabeta o di un operaio vale forse meno di quella di un filosofo?

Sfatiamo anche il mito del ‘fascista buono’, di colui che salva una o più persone – sulla base di quale principio etico universale? L’amicizia o la stima personale? –, e poi aderisce anima e corpo a un regime che prevede il patibolo per i dissenzienti. Il fascista moderato Gentile aveva in mente un disegno di riconciliazione/pacificazione nazionale sotto le insegne delle SS, mentre la Repubblica sociale proseguiva una guerra criminale, persa già nel 1940.

Intendiamoci: i fascisti moderati c’erano: formavano l’ossatura del regime – gli esaltati e i fanatici, per fortuna, erano una minoranza. Ma senza gli uni, gli altri avrebbe potuto fare ben poco. In Germania l’equivalente del gerarca fascista buono era Albert Speer, il ministro nazista degli armamenti, rispettato al punto tale dagli alleati che, al processo di Norimberga, gli vennero comminati solo vent’anni di carcere (eppure Speer aveva supervisionato il disumano programma di lavoratori-schiavi del Terzo Reich, che costò la vita a centinaia di migliaia di persone).

Furono proprio i Gentile, gli Speer, gli Heidegger – uomini di grande cultura, tecnocrati – a legittimare, agli occhi dell’opinione pubblica moderata, il fascismo e il nazismo. Furono proprio costoro a far sì che la macchina bellica fosse oliata a dovere, o a motivare ideologicamente chi doveva oliarla. Nessuno, poi, si assunse la responsabilità: un tal gerarca si occupava solo di ‘propaganda’ e non poteva sapere; quell’altro faceva funzionare le fabbriche, e non poteva sapere (il meccanismo della rimozione ce lo ha spiegato benissimo la Harendt in quel capolavoro che è La banalità del male.) Giammai un Gentile o uno Speer, distinti signori borghesi, avrebbero avuto l’animo di impugnare un mitra per far fuoco su civili inermi, né avebbero potuto pigiare la leva che faceva fuoriuscire il gas Kyklon B sugli ebrei rinchiusi in finte docce. Anzi: di Gentile si dice che avesse aiutato vari ebrei e antifascisti a fuggire dall’Italia occupata.

Andò bene per chi salvò la pelle; ma quale sorte attendeva chi non poteva fregiarsi dell’amicizia di Gentile? Di fronte al plotone di esecuzione, un ebreo o un antifascista si sarebbero consolati al pensiero che qualcun altro, grazie a un gerarca ‘umano’, era riuscito a cavarsela? La verità è che, assumendo posizioni di vertice nei rispettivi regimi, i Gentile e gli Speer furono corresponsabili – politicamente e moralmente – dei massacri compiuti in nome del fascismo e del nazismo, a prescindere dai momenti di umanità o generosità che hanno dimostrato. Anche un dittatore è capace di compiere atti di clemenza.

E tuttavia, a questo punto, voglio smettere i panni dello storico che giudica freddamente. Non posso negare che, nonostante tutto, provo una certa ammirazione per Gentile. Non per la sua cultura, che, anzi, reputo un’aggravante – chi ha più ingegno, e lo usa male, ha maggiori responsabilità. Lo ammiro per il coraggio e la coerenza, che dimostrò quando tutto era perduto. Un bel po’ di fascisti, sul finire del 43, gettarono tessera del PNF e camicia nera per poter saltare, al momento opportuno, sul carro dei vincitori. Certo, in quel frangente gli opportunisti ebbero un merito: non contribuirono a tenere in vita un regime dittatoriale rantolante. Ma è innegabile che Gentile, pur sbagliando, pensasse di essere un patriota. Lui, a modo suo, amava l’Italia. Voleva, sia pure ingenuamente, che alla sua patria fossero risparmiati lutti e distruzioni. Gentile aveva una personalità contradditoria e complessa. Non è equiparabile a un Himmler o a un Bormann. Come possiamo condannare e ammirare al tempo stesso un personaggio siffatto? Nella Commedia dantesca opera uno schema geniale che concilia la pietas del poeta con la severità dell’uomo di fede: Dante non nasconde la sua ammirazione per un Farinata degli Uberti, patriota valoroso che difese Firenze “a viso aperto”. Ma lo colloca pur sempre all’inferno, fra i dannati. Da un lato c’è l’umanità, che non possiamo negare neppure al nostro peggiore nemico; dall’altra c’è un codice etico-religioso che obbliga alla condanna. Ecco: anch’io ammiro Gentile per alcune sue qualità umane nello stesso momento in cui il mio codice politico-morale mi costringe a dichiararlo colpevole. (2-fine)

 

 

 

 

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