Guido Liguori sul numero 19 di “Sette” ha sostenuto — in polemica frontale con il libro di Alessandro Orsini Gramsci e Turati:le due sinistre ( Rubbettino) — che Antonio Gramsci è stato sempre un comunista non violento. Una tesi, la sua, che non può non suscitare il più grande degli sbalordimenti, dal momento che si deve proprio a Gramsci la più franca teorizzazione della rivoluzione comunista come purificazione sanguinaria della società. Essa fu condensata con le agghiaccianti parole da lui scritte sull’”Ordine Nuovo” nel dicembre del 1919 : “Gli avvenimenti del 2-3 dicembre sono un episodio culminante della lotta delle classi. La lotta non fu tra proletari e capitalisti …; fu tra proletari e piccoli e medi borghesi … , la peggiore, la più vile, la più inutile , la più parassitaria: la piccola e media borghesia , la borghesia intellettuale …la borghesia dei funzionari pubblici padre-figlio, dei bottegai, dei piccoli proprietari industriali e agricoli, commercianti in città, usurai in nelle campagne . Questa lotta si è svolta nell’unica forma in cui poteva svolgersi: disordinatamente, tumultuosamente , come una razzia condotta per le strade e per le piazze al fine di liberare le strade e le piazze da una invasione di locuste putride e voraci. Ma questa lotta , indirettamente sia pure, era connessa all’altra lotta, alla superiore lotta fra proletari e capitalisti : la piccola e media borghesia è infatti la barriera di una umanità corrotta, dissoluta, putrescente con cui il capitalismo difende il suo potere economico e politico, umanità servile, abietta, umanità di sicari e di lacchè , divenuta oggi la serva padrona; espellerla dal campo sociale , come si espelle una volata di locuste da un campo semidistrutto, col ferro e col fuoco, significa alleggerire l’apparato nazionale di produzione e di scambio da una bardatura che lo soffoca e gli impedisce di funzionare, significa purificare l’ambiente sociale e trovarsi contro l’avversario specifico : la classe dei capitalisti proprietari dei mezzi di produzione e di scambio”.
Naturalmente, una siffatta concezione della lotta di classe – rectius : della guerra di classe – esigeva la militarizzazione del movimento operaio. Cosa che Gramsci teorizzò a chiare lettere, così esprimendosi : “La rivoluzione è come la guerra ; deve essere minuziosamente preparata da uno stato maggiore operaio, così come una guerra viene preparata da uno stato maggiore dell’esercito; le assemblee non possono che ratificare il già avvenuto, esaltare i successi, punire implacabilmente gli insuccessi. E’ compito dell’avanguardia proletaria tenere sempre desto nelle masse lo spirito rivoluzionario”, fermo restando che “la spina dorsale della rivoluzione” deve essere formata dai “ferrei battaglioni dell’esercito proletario che avanza ”.
Chiaramente, Gramsci aveva ben compreso il significato della rivoluzione che i bolscevichi stavano facendo in Russia: la purificazione della società sterminando la borghesia ( la piccola come la grande ) attraverso l’instaurazione del terrore di massa . E, infatti, non appena Lenin si impossessò del potere con quel fortunato golpe passato alla storia come la Rivoluzione d’Ottobre , egli inviò direttive del seguente tenore : “Instaurare subito il terrore di massa”; “Ripulire il suolo della Russia di qualsiasi insetto nocivo , delle pulci: i furfanti; delle cimici : i ricchi, ecc. “; “Deportare in massa i menscevichi “; ”Agite con la massima decisione contro i kulaki e la canaglia socialista–rivoluzionaria”; “Guerra a morte ai ricchi e ai loro reggicoda, gli intellettuali borghesi”; “Noi dobbiamo incoraggiare il terrore energico e su larga scala”.
Non meno significativo è il fatto che il carismatico leader del bolscevismo mondiale — di cui Gramsci era una dei più prestigiosi capi — nel 1922 inviò una lettera a Stalin con la quale gli ricordava quale era la missione storica del Partito comunista : “Noi purificheremo la Russia per molto tempo. Ciò dovrà essere fatto sul campo”. Di qui la teorizzazione del terrore come istituzione permanente fatta, sempre da Lenin , nella lettera inviata a Kurski, che così recitava: “ Porre in aperto risalto una tesi di principio , giusta sul piano politico ( e non soltanto in senso strettamente giuridico) , motivante l’essenza e la giustificazione del terrore, la sua necessità , i suoi limiti. Il tribunale non deve eliminare il terrore; prometterlo significherebbe ingannare se stessi o ingannare gli altri; bisogna giustificarlo e legittimarlo sul piano dei principi, chiaramente, senza falsità e senza abbellimenti. La formulazione deve essere quanto più larga possibile, poiché soltanto la giustizia rivoluzionaria e la coscienza rivoluzionaria decideranno delle condizioni di applicazione pratica più o meno larga”.
Né si può dire che Lenin e il suo discepolo Gramsci abbiano alterato il genuino messaggio dei padri fondatori del così detto “socialismo scientifico”, dal momento che nel Manifesto del Partito comunista è detto apertis verbis che la rivoluzione proletaria mondiale esige l’“abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente”. Ed esige anche il terrore di massa. “Con la vittoria della Repubblica rossa a Parigi – si legge in un articolo scritto da Marx nel novembre 1848 – gli eserciti saranno rigettati dall’interno dei Paesi ed oltre i confini e la vera potenza dei partiti in lotta apparirà nettamente. Allora ci ricorderemo del giugno e dell’ottobre , e anche noi esclameremo Vae victis ! I massacri senza risultato delle giornate di giugno e di ottobre , la noiosa cerimonia sacrificale del febbraio e del marzo, il cannibalismo della stesa controrivoluzione convinceranno i popoli che c’è solo un mezzo per abbreviare , semplificare , concentrare l’agonia assassina della vecchia società, un solo mezzo : il terrorismo rivoluzionario”. Ancora più brutale l’apologia del terrorismo rivoluzionario che si trova negli scritti di Engels. Essa suona così : “Alle frasi sentimentali offerteci qui a nome delle nazioni più controrivoluzionarie di Europa, noi rispondiamo che l’odio per i Russi è stato ed è ancora la prima passione rivoluzionaria dei Tedeschi, che dopo al rivoluzione si è aggiunto l’odio per i Cechi e i Croati, e che, assieme ai Polacchi e ai Magiari , possiamo salvaguardare la rivoluzione soltanto con il terrorismo più spietato contro questi popoli slavi … Lotta , allora , lotta implacabile per la vita e per la morte, contro lo slavismo traditore della rivoluzione ; lotta di annientamento e di terrorismo senza riguardi e non nell’interesse della Germania , ma nell’interesse della rivoluzione “ con l’obbiettivo di far “sparire dalla faccia della Terra non soltanto classi e dinastie rivoluzionarie , ma anche interi popoli reazionari”.
Questa, per sommi capi, era la tradizione rivoluzionaria con la quale Gramsci si era identificato toto corde : una tradizione che assegnava alla violenza catartica il compito di purgare la società borghese sterminando intere categorie sociali e persino intere nazioni . Di qui , la lapidaria sentenza di Palmiro Togliatti: “La nostra è la violenza buona creatrice dell’ordine e della libertà. La loro è cieca rabbia di impotenti ”. Dal canto suo, il fondatore del Partito comunista d’Italia, Amadeo Bordiga , non ebbe esitazione alcuna a dichiarare che la rivoluzione era “necessariamente umana nel fine, ma antiumana nei mezzi”. E fra i mezzi c’era, naturalmente, il terrore di massa.
E’ vero che, constatato il fallimento internazionale della “guerra di movimento”, Gramsci indicò nella “guerra di posizione” la lunga via per giungere alla trasformazione rivoluzionaria della società borghese e che, nel carcere, elaborò la teoria dell’egemonia , tutta centrata sul ruolo pedagogico del Partito comunista che , prima di conquistare il potere, doveva conquistare il consenso delle masse con mezzi assolutamente pacifici. Ma ciò non significa che Gramsci si convertì ai valori laici del socialismo liberale. Tutto il contrario: in lui rimase ferma l’idea che “il socialismo era la religione che avrebbe ammazzato il cristianesimo” e, conseguentemente , egli rimase fedele alla giovanile visione totalitaria della Città futura sino a teorizzare con una chiarezza quasi offensiva la natura divina del Partito comunista , così formulata : “ Il moderno Principe , sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo sviluppo significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato , solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto , nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico”.
Siamo, come si vede, a una distanza siderale dalla Città secolare, centrata sulle libertà individuali e sull’istituzionalizzazione della logica pluralistico-competitiva , alla quale Gramsci guardava con orrore. La Città futura che egli ebbe sempre in mente era una Città sacra, rigorosamente collettivistica , descritta come un “armonico organismo solidale retto dall’amore e dalla pietà” e animato dalla “coscienza gioiosa di essere un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto, che lavorando utilmente , che producendo disinteressatamente la ricchezza sociale, afferma la sua sovranità , attua il suo potere e la sua libertà creatrice di storia”.
Luciano Pellicani
L’ipoteca giudeocristiana, con tutti i corollari escatologico-purificatori-sterminazionisti, è forte nel movimento comunista, e non è una sorpresa che in quello italiano lo sia forse anche un po’ di più.
Ma non starei certo a fare credito alle rivoluzioni “liberali” e capitaliste di aver contraddetto il detto maoista sul fatto che “La Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia. La Rivoluzione è un atto di violenza”. Ricordare il genocidio vandeano è quasi un luogo comune, ma anche per tutto l’ottocento e il novecento il capitalismo ha continuato ad uccidere ovunque ne avesse possibilità e convenienza.
Credo che Vaj colga un punto importante, sul piano squisitamente “storico-sociologico”. Troppo spesso si dimentica che negli ultimi tre secoli le rivoluzioni armate le ha fatte quasi sempre la borghesia – in nome proprio o in nome del proletariato. Non a caso Marx rimproverava ai lavoratori di non avere lo stesso piglio aggressivo dei capitalisti. Ne dobbiamo scordare che i capi dei partiti rivoluzionari (inclusi Marx, Engels, Lenin, ecc.) venivano quasi tutti dalla classe borghese, da famiglie benestanti. La maggiore attitudine alla violenza delle classi agiate non dovrebbe stupire affatto. Chi si contenta di fare il lavoratore dipendente, il gregario, il marginale, il servitore, ecc., in cambio della sicurezza, del posto fisso, della sopravvivenza biologica, ha evidentemente in corpo un quantum di violenza, egoismo, cinismo inferiore a chi si arrampica nella scala sociale con tutte le proprie forze.