Riformismo ed ecologia: i nodi da sciogliere

Non ha tutti i torti Luciano Pellicani quando afferma che l’emergenza ecologica, ormai sulla scena dagli anni Settanta, sia stata stiracchiata spesso e volentieri per “rinverdire” le aspettative rivoluzionarie degli anticapitalisti. L’attitudine massimalista a sacrificare quel che c’è di buono in nome dell’ottimo è sicuramente indesiderabile, sia per non ricadere in errori passati sia per non compromettere la serietà del dibattito. Tuttavia, benché anch’io sia convinto della necessità di un approccio riformista al problema, ritengo di dover aggiungere qualcosa sulla radicalità del cambiamento che una sfida del genere comporterà negli anni a venire.

I successi del “secolo socialdemocratico” descritti da Dahrendorf, che ha visto i riformisti promuovere il progresso sociale grazie al progresso economico capitalista e non contro di esso, devono essere contestualizzati all’interno di una fase storica contraddistinta dal miracolo dello sviluppo occidentale, sopraggiunto dopo millenni di sostanziale equilibrio economico da cui le civiltà umane dei quattro angoli del mondo non si erano mai emancipate. La crescita per come l’abbiamo conosciuta in epoca contemporanea, spiega l’economista francese Jean Fourastié, costituisce una fase di transizione dalla società tradizionale alla società tecnologica: la rivoluzione industriale ha rovesciato il rapporto di forza tra uomo e natura, subordinando quest’ultima ai cicli delle attività umane (e non viceversa) per la prima volta nella storia. Imbevuti della cultura del nostro tempo, ci siamo dunque convinti che la crescita fosse una condizione naturale e costante finché gli allarmi per il degrado dell’ambiente e i cambianti climatici ci hanno ricordato che anche l’economia, al pari di ogni altra attività umana, agisce nel contesto dell’ecosistema terrestre ed è pertanto soggetta alle leggi della fisica e della biologia. Tali leggi c’informano che stiamo sfruttando il nostro pianeta oltre il 150% della sua capacità bioproduttiva, vale a dire che consumiamo le risorse naturali che alimentano l’economia globale ad un ritmo assai maggiore di quello con cui esse si rigenerano. Oltrepassare questi limiti fisici allo sviluppo, ben documentati dall’omonimo rapporto commissionato per la prima volta dal Club di Roma nel 1972, comporta due effetti devastanti: gonfia la bolla di una crescita miope, sostenuta dalle risorse prese a prestito dalle generazioni future (in primis i combustibili fossili), e inquina l’ambiente minando l’equilibrio dell’ecosistema e le basi biologiche della nostra salute, come nel caso del riscaldamento globale e della perdita di biodiversità.

Come avvenuto durante il “secolo socialdemocratico”, si tratta anche stavolta di promuovere un nuovo progresso sociale sostenibile grazie ai progressi economici e della tecnica e non contro di essi, poiché soltanto l’innovazione tecnologica, se rivolta a tale scopo e unita a comportamenti più virtuosi, può garantire la coesistenza del progresso materiale e della salvaguardia ambientale (in alternativa a una dolorosa regressione, sia essa volontaria o indotta forzatamente dall’esaurimento delle risorse). Tuttavia, dal momento in cui la globalizzazione sta esaurendo i margini fisici della crescita per come l’abbiamo conosciuta finora, ci s’impone l’ulteriore sfida di ripensare le categorie concettuali di cui siamo imbevuti. La concorrenza competitiva e il profitto sono state le linee direttrici del capitalismo che hanno incentivato i progressi economici e della tecnica fino ad oggi, ma non possono perdurare in un mondo finito laddove la cooperazione e la responsabilità sociale diventano le uniche strade percorribili per consentire alla comunità di gestire i beni comuni necessari alla libertà e al benessere di ciascuno (esattamente come su un’isola). A conti fatti, ciò significa accettare l’idea che la fase di transizione innescata dalla rivoluzione industriale stia volgendo al termine e che la spettacolare stagione della crescita e dello sviluppo che abbiamo attraversato stia per lasciare il posto ad un nuovo tipo di equilibrio economico.

Non mi arrischio a dire che il capitalismo stia finendo proprio adesso (ha ancora “i secoli contati”, come ha detto Giorgio Ruffolo); ma esso altro non è che una fase storica e nulla vieta che possa essere superato, magari in favore di una “economia stazionaria” che già alcuni celebri liberali dalle scarse velleità rivoluzionarie, come John Stuart Mill o lo stesso Fourastié, avevano prefigurato. Concorrenza e profitto continueranno a esistere perché sono fondamenti del pluralismo e della libertà individuale della nostra società, ma adoperarsi perché cessino di essere le variabili indipendenti dello sviluppo e siano democraticamente assoggettate al bene comune, in ragione dell’emergenza ecologica prima ancora che di convinzioni ideologiche, è un atteggiamento riformista al servizio di un cambiamento molto più radicale di quanto gli stessi rivoluzionari possano credere.

Mario Trifuoggi

fondazione nenni

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