Ma quali sono le cause di questa delocalizzazione di cervelli? Cerchiamo di capirlo. In primis: il valore dei fondi che il nostro paese riserva alla ricerca, sempre secondo i dati dell’Istituto per la competitività, è rimasto immutato negli ultimi undici anni (nel 2000 era pari all’1,1% del PIL, nel 2011 era ancora tra l’1,1% e l’1,3%). Sono numeri, questi relativi all’investimento in ricerca e sviluppo, di gran lunga inferiori alla media dei paesi OCSE. Al problema dei finanziamenti si aggiunge poi la questione relativa al modo in cui è strutturato il sistema ricerca in Italia. Infatti, oltre al problema della scarsa entità dei fondi, vi sono anche altri problemi. Su tutti: le modalità di gestione dei contribuiti destinati alla ricerca e il sistema di selezione delle menti che se ne occuperanno. E anche qui i dati della nostra “Baronopoli” non sono certo incoraggianti. Da uno studio di Stefano Alesina, ricercatore italiano al “Computation Institute” dell’Università di Chicago, pubblicato dalla rivista PLoS One, si può evincere chein Italiail nepotismo è un fenomeno dilagante e dalle dimensioni sorprendenti. Il ricercatore italiano, utilizzando un algoritmo che impiega come parametro la diffusione dei cognomi all’interno della realtà accademica, è riuscito a determinare il livello di nepotismo. Questo il risultato cui è pervenuto: tante volte, nell’ambiente accademico italiano, gli stessi cognomi finiscono “magicamente” per ripetersi. C’è poi da notare – come osserva anche lo stesso Allesina – che quest’analisi non consente di individuare i casi di nepotismo madre-figlio, marito-moglie o le parentele senza identità di cognome, perciò la situazione potrebbe essere anche peggiore di quella che emerge da questo studio. Di fronte a questi dati non bisogna poi meravigliarsi del cosiddetto fenomeno della fuga dei cervelli. Molti, di fronte ad un sistema universitario caratterizzato da un numero esponenziale di protetti, unito allo scarso interesse che il nostro paese mostra per la ricerca, non hanno scelta: o si cambia lavoro o ci si trasferisce all’estero.
Ma questi problemi, purtroppo, si possono rimandare. Per ora è prioritario risolvere il ben più importante nodo del valore legale. Intanto i cervelli continuano a emigrare. Seguendo lo zeitgeist, lo spirito del tempo, anche la “ricerca S.p.A.”, al pari della nostra industria, continua a delocalizzare all’estero. E una politica sempre più miope non sembra stia tentando di evitarlo, anche se le ricadute di questa prassi deleteria vanno ben al di là del rilevante danno economico e della perdita di prestigio scientifico del nostro sistema universitario. Davanti a certe condotte e inerzie è l’intero contesto sociale a indietreggiare. Perché la società prospera quando i ruoli sociali sono distribuiti secondo competenza e merito. Solo così ogni lavoro sarà altamente produttivo, come d’altronde dimostra “quanto” producono i nostri ricercatori all’estero. Tanto che sorge spontanea la domanda: che futuro può avere un paese che per far spazio ai soliti noti è costretto a lasciare le sue menti migliori emigrare all’estero o, nel peggiore dei casi, abbandonarli alla marginalità di altre occupazioni?
(2-fine)
Sabatino Truppi