Tra i tanti temi messi a cuocere nel calderone del nostro produttivo governo tecnico non poteva mancare l’annosa, quanto mai del tutto risolta, questione “Università”. In particolare, a tenere banco è il trito e ritrito dibattito intorno all’abolizione del valore legale dei titoli di studio. La tesi è questa: non tutti i titoli hanno lo stesso valore, alcune Università li elargiscono con una maggiore facilità.La diagnosi potrebbe avere un fondo di veridicità. La terapia annunciata, però, potrebbe creare problemi maggiori di quelli che intende curare.Non ci sarebbero forse altre strade, più eque, per ovviare al problema? Per quanto interessante, non entreremo qui nel vivo di questo dibattito. La speranza, tuttavia, è che il cambiamento, se proprio dovrà venire, almeno questa volta, sia improntato alla tanto annunciata, quanto mai venuta, equità. Ossia, si spera che questa non sia l’ennesima occasione per rendere, a svantaggio dei meno abbienti, ancora più aristocratico un settore che di aristocraticità è già colmo. La questione può essere sintetizzata così: si assicurerà ai più meritevoli, senza barriere sociali ed economiche, l’accesso agli atenei più virtuosi? O le eventuali graduatorie di merito finiranno per essere un ulteriore ostacolo alla già scarsa mobilità sociale italiana, con i più svantaggiati che torneranno, in un revival di spirito feudale, figli di un Dio minore?
Staremo a vedere. Per ora è un’altra la domanda da porre: davanti ai tanti mali del sistema universitario italiano è davvero il dibattito sul valore legale del titolo di studio il problema centrale? I dubbi a riguardo sono tanti. Acuiti, tra l’altro, da alcuni dati relativi al settore della ricerca presentati a novembre dall’Istituto per la competitività (I-com). Secondo questo studio i nostri migliori 50 ricercatori hanno depositato all’estero 243 brevetti per un valore di 1 miliardo di euro l’anno. Valore che in una prospettiva ventennale potrebbe toccare i 3 miliardi. Sempre secondo questo studio, un giovane ricercatore all’estero ha una produttività media di ventuno brevetti che equivalgono a 63 milioni di euro, e a 148 milioni sempre in una prognosi ventennale. Solo nell’ultimo anno i migliori 20 ricercatori italiani hanno depositato, sempre all’estero, 8 scoperte come autori principali, anche qui per un ricavo di 49 milioni di euro che tra vent’anni diventeranno 115 milioni. Infine, 66 i brevetti cui i nostri ricercatori hanno contribuito in gruppi di lavoro per un totale di 334 milioni di euro che sempre in previsione ventennale diventeranno 782 milioni. Insomma, un Governo pragmatico e lungimirante guarderebbe allarmato a questi dati. Perché un paese in piena crisi economica e recessiva non si può permettere di rinunciare, a vantaggio dei concorrenti, a quote di PIL frutto delle proprie menti. Ricerca e innovazione, in un momento critico come questo, potrebbero essere il trampolino di lancio per ridare competitività alle nostre industrie. Noi, però, invece di intervenire a rimuovere le cause di questa fuga di menti e di capitale, discutiamo del valore legale del titolo di studio. “Ah! Les italiens!”, affermava De Gaulle.
(1.continua)
Sabatino Truppi