La crisi nella quale il capitalismo d’Occidente – quello europeo come quello americano – è precipitato ha dato nuovo fiato ai teorici della decrescita, fra i quali spicca da tempo Serge Latouche.
La tesi di fondo della sua diagnosi è ben nota. L’esperimento di vita collettiva che stanno facendo da duecento anni gli occidentali si basa su una premessa assurda : che sia possibile la crescita illimitata della ricchezza in un pianeta dalle risorse illimitate. Segue la prognosi: alla fine, la macchina dello sviluppo si fermerà, ma lo farò solo dopo aver devastato in modo irrimediabile il pianeta. Donde la terapia : uscire, prima che sia troppo tardi , dalla logica della società dei consumi.
Che l’Occidente deve cambiare rotta, non lo dicono solo i teorici della decrescita; lo dicono un po’ tutti gli analisti, anche se sulla terapia non c’è unanimità. I sostenitori del paradigma di Hayek persistono nel denunciare il ruolo negativo dello Stato, mentre i neo-keneysiani sono dell’avviso che dalla crisi si esce abbandonando la logica del mercato autoregolato. Per Latouche , invece, non si tratta di contrapporre uno sviluppo buono a uno cattivo; si tratta di invertire la rotta.
Naturalmente , per rafforzare la sua diagnosi-terapia , Latouche attinge a piene mani alla letteratura dell’ecologismo radicale. E lo fa disegnando un quadro delle attuali società industriali fatto esclusivamente di cose negative. Cita Cornelius Castoriadis , secondo il quale lo sviluppo non solo ha dilapidato irreversibilmente l’ambiente e le risorse non sostituibili; ha fatto qualcosa di più devastante : ha compiuto niente di meno che ”la distruzione antropologica degli esseri umani , trasformati in bestie produttrici e consumatrici , in abbrutiti zapping-dipendenti”. Aggiunge Latouche che la logica dello sviluppo illimitato ha creato “una società fondata sull’avidità e sulla competizione permanente ” , la quale “produce necessariamente una massa enorme di perdenti assoluti ( gli emarginati ) e relativi ( i rassegnati) , e dunque di frustrati, accanto a un piccolo gruppo di predatori sempre più ansiosi di consolidare la loro posizione o di rafforzarla”.
Tutte cose, in qualche misura reali , quelle denunciate da Latouche. Ma accanto ad esse, egli dimentica di informare i suoi lettori quali erano le condizioni di vita degli operai e dei contadini prima della seconda rivoluzione industriale che ha partorito la società dei consumi. Atroce miseria permanente, duro lavoro per guadagnare la semplice sopravvivenza, analfabetismo, condizioni igieniche spaventose, mortalità infantile , aspettative di vita che non superavano i 40 anni e periodiche carestie ed epidemie. Insomma : un vero e proprio inferno per il “grande numero”, mentre il “piccolo numero” viveva , in un lusso sfrontato , circondato da schiere di docili servi. Nascondere questa realtà , come fanno i teorici della decrescita per rafforzare il loro messaggio, non è onesto. Ed è senz’altro irresponsabile proporre ai popoli del Terzo Mondo il ritorno all’economia di sussistenza. Come fa , con la massima serenità d’animo, Latouche. Il quale ignora — o, più precisamente, finge di ignorare – che grazie alla rivoluzione industriale oggi centinaia di milioni di indiani e di cinesi hanno la speranza di uscire dalla atroce miseria che da sempre li ha accompagnati. Se la sentirebbe Latouche di chiedere a quegli infelici di rimanere nella logica dell’economia preindustriale ? Un solo dato è in grado di rendere evidente l’immoralità della retorica terroristica di Latouche. E’ stato calcolato che in 1800 anni in Cina ci sono state 1800 carestie , accompagnate , naturalmente, da milioni di morti per anemia.
Luciano Pellicani
Per Latouche & C. è d’altronde facile ritorcere l’accusa di “immoralità”, dato che la decrescita viene proposta come soluzione rispetto alla prospettiva di un esaurimento di risorse destinato a produrre guai peggiori in riferimento agli stessi valori umanitari in discussione.
Credo perciò che vadano date risposte più “filosofiche” sulla questione, a cominciare dal fatto che se è vero che le risorse sono finite (ma sinora il malthusianismo è stato costantemente smentito dal progresso tecnologico e dall’occupazione di nuove “nicchie” ecologiche…), allora è vero anche per definizione che le stesse sono destinate ad esaurirsi *comunque*, non importa con quale parsimonia le stesse vengano utilizzate. E che sia per un individuo che per una cultura esiste comunque una distinzione sul piano delle scelte di valore tra “vivere” e “sopravvivere”, rispetto a cui non è scontata la scelta del secondo termine.
Il vero errore che Latouche ha commesso – e forse non è stato lui – è nell’aver battezzato la sua teoria col termine ‘decrescita’, che ha un accezione negativa e induce a considerazioni altrettanto negative. Lo sviluppo così come lo abbiamo conosciuto ha certamente un’infinità di meriti e Pellicani, a grandi linee, ce li ricorda, ma ha anche aspetti devastanti proprio perché si fonda su un assunto errato, ovvero quello della disponibilità infinita di risorse umane e materiali. Che il genere umano abbia passato nel volgere di pochi decenni i limiti dello sviluppo sostenibile non ha neppure bisogno di essere ricordato. Perfino la crisi in atto nella finanza globale affonda le sue radici in uno sviluppo che non ha nessuna bussola, ma è solo fine a se stesso. Latouche forse è un po’ radicale, ma non merita risposte radicali. Prendiamo la parte sicuramente buona della sua analisi, quella che ci suggerisce di individuare un altro modello di sviluppo. Vogliamo continuare a misurare il PIL così com’è calcolato oggi? No, non è possibile. Tra l’economia di sussistenza e lo stato dell’economia attuale sicuramente c’è una terza possibilità.
Carlo Correr
Il fatto è che, ceteris paribus e se accettiamo il punto di vista che dobbiamo farci bastare le risorse cui abbiamo accesso oggi, NON esiste uno sviluppo sostenibile. In effetti, neppure una stagnazione sarebbe sostenibile, perché comunque resterebbe immutato l’attuale consumo delle risorse stesse.
A mio modesto avviso, le cose che stiamo dicendo sono tutt’altro che in contraddizione. Ha ragione Pellicani quando dice che e’ una questione di onesta’ intellettuale mostrare un quadro completo della situazione storica e non lasciare intendere che la societa’ pre-industriale fosse idillica. Ha ragione Vaj ad aggiungere l’argomento che – se si accetta il principio che le risorse sono limitate – prima o poi finiscono comunque, anche se smettiamo di crescere o torniamo ad una forma antecedente di economia (quale poi?). Ha ragione anche Correr nel dire che la scelta terminologica di Latouche e’ infelice e che non ha senso calcolare il PIL come lo calcoliamo oggi. Con queste misurazioni, se abbiamo piu’ incidenti stradali il PIL cresce, perche’ bisogna comprare auto nuove, pagare gli avvocati, le spese mediche, i funerali, cresce il costo delle assicurazioni, ecc. Senza parlare poi dell’economia fittizia, della finanza che cresce solo sulla carta, ecc. Con questo modo di calcolare la ricchezza, la crescita e’ disgiunta dal benessere. Non si puo’ negare che diversi sostenitori della decrescita (non tutti, ho scritto “diversi”), davvero preferiscono il mondo contadino al mondo industriale. Quindi avverserebbero anche la crescita di industrie reali (chimiche, meccaniche, elettroniche, ecc.). Io rispetto la loro scelta epimeteica, ma devono capire che ci sono anche spiriti prometeici, che amano la scienza, la tecnica, il progresso, il cambiamento. E’ una questione di scelte esistenziali, di stili di vita, non di avere ragione o torto in termini cosmici. Per uno spirito futurista una societa’ statica, per quanto ben organizzata, e’ insensata. Infine, anche sul dogma delle risorse limitate nutro forti dubbi. Scriveva Marx nel Manifesto, producendosi in un’elogio dellla borghesia industriale: “Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d’interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo -quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?”
Analogamente, non potevamo immaginare – prima delle scoperte di Einstein e Fermi – che si potesse produrre energia attraverso la fissione nucleare. La scienza potrebbe rivelarci nuove sorprese. Se diventassero realta’ gli assemblatori nanomolecolari, la questione delle risorse non potrebbe piu’ essere pensata in termini di quantita’ (di materia ne abbiamo finche’ vogliamo) ma solo di qualita’.